Valentina Santarpia, Corriere della Sera 19/8/2012, 19 agosto 2012
Cento milioni di fatturato l’anno, decine di negozi sparsi in tutto il mondo (Europa, Stati Uniti, Cina, Corea, Qatar, Emirati arabi), un marchio reso riconoscibile a livello internazionale da campagne pubblicitarie provocatorie: la Paciotti, una piccola azienda artigianale fondata da due marchigiani nel 1948, è diventata un business internazionale delle scarpe nel giro di trent’anni, da quando — era il 1980 — il figlio di Giuseppe e Cecilia, Cesare, decise di produrre la sua prima etichetta
Cento milioni di fatturato l’anno, decine di negozi sparsi in tutto il mondo (Europa, Stati Uniti, Cina, Corea, Qatar, Emirati arabi), un marchio reso riconoscibile a livello internazionale da campagne pubblicitarie provocatorie: la Paciotti, una piccola azienda artigianale fondata da due marchigiani nel 1948, è diventata un business internazionale delle scarpe nel giro di trent’anni, da quando — era il 1980 — il figlio di Giuseppe e Cecilia, Cesare, decise di produrre la sua prima etichetta. Segno di riconoscimento: il coltello. Che poi è diventato il lasciapassare per il Medio Oriente. «Negli Emirati arabi abbiamo aperto nel ’95, quando ancora nessuno la considerava una piazza importante — ricorda l’amministratore delegato Marco Calcinaro, figlio della sorella di Cesare, Paola —. E a darci l’idea sono stati i clienti del negozio di Londra, frequentato da molti arabi: erano attirati dal nostro marchio, il coltello, il pugnale, che è un simbolo importante nella loro cultura. Appena abbiamo trovato un partner, Taha Al-Fahim, con cui aprire un negozio a Dubai, lo abbiamo fatto: ed è stata una scelta vincente, perché per noi adesso quello è un mercato interno, non turistico, dove cioè siamo apprezzati dai locali prima che dagli stranieri di passaggio». Tant’è vero che, considerando il negozio in apertura nel 2013 in Qatar, Cesare Paciotti conta 9 boutique monomarca nel Golfo Persico. Ma ci sono state anche altre scelte che hanno trasformato un calzaturificio in un’azienda che vanta 250 dipendenti diretti, 1.200 persone che lavorano a suoi progetti, un milione di paia di scarpe prodotto all’anno e una serie di linee complementari (dagli accessori per la casa ai gioielli)? «Certo: Mosca, dove abbiamo aperto nel ’93 — continua Calcinaro — conquistando il mercato dell’Europa dell’Est. O Seul, dove ci siamo capitati per caso, accompagnando un cliente cinese in Corea e scoprendo un mercato florido e pronto. In Cina invece ci siamo arrivati relativamente tardi, nel 2006: ma abbiamo preferito essere prudenti, rifiutando un partner che ci aveva offerto la possibilità di aprire 26 negozi in un anno e mezzo, e aspettare l’occasione giusta». È questo il segreto dell’export che è arrivato a rappresentare il 53% delle vendite, contro un fatturato del 47% in Italia? «Anche — spiega l’ad di Cesare Paciotti —. Noi preferiamo o essere interamente proprietari di un negozio monomarca all’estero oppure cedere solo il marchio al proprietario straniero. Nessuna quota di partecipazione complicata: aprendo un negozio si può lanciare un brand all’estero, ma chiudendolo si può distruggere». La pubblicità ha fatto la sua parte? «Certo, le nostre campagne sono iniziate negli anni 90, di pari passo con le collaborazioni con Versace, Dolce & Gabbana, Ferrè. Però per noi è stato soprattutto importante investire su un prodotto di carattere, prodotto con cura estrema solo in Italia, in gran parte nelle Marche. È per questo che costa ancora tanto: la nostra produzione di fatto è ancora artigianale». Un paio di scarpe da 300 euro, ha ancora un senso nel pieno della crisi mondiale? «No — ammette suo malgrado Calcinaro —. Sono prezzi allucinanti, soprattutto per l’Italia: infatti il nostro obiettivo è portare al 67% la fetta di mercato estera. Però le assicuro: nel nostro caso non sono i margini di guadagno a costare, ma la fattura. Sa quanto costa solo il fondo di cuoio della scarpa da uomo? 35 euro». Valentina Santarpia