Stefano Lorenzetto, il Giornale 17/8/2012, 17 agosto 2012
Riva, il padrone con un debole per la Camusso - Dicono che sia misogino e, in effetti, nelle sue aziende non ha voluto fra i piedi né le due figlie laureate né le nuore: «Intelligenze superiori, le stimo molto, e tuttavia guai se fossero qui dentro, so io che conflitti ne nascerebbero»
Riva, il padrone con un debole per la Camusso - Dicono che sia misogino e, in effetti, nelle sue aziende non ha voluto fra i piedi né le due figlie laureate né le nuore: «Intelligenze superiori, le stimo molto, e tuttavia guai se fossero qui dentro, so io che conflitti ne nascerebbero». Però, dieci anni fa, mi confessò d’avere un debole per Susanna Camusso, la donna che oggi da segretaria generale della Cgil gli sta tenendo testa all’Ilva di Taranto, così come negli anni Novanta da segretaria nazionale della Fiom lo fronteggiava all’acciaieria di Cornigliano: «Era tanto simpatica.Me l’hanno fatta fuori. Ma dov’è finita? Una bella tusa così cattiva... Anche quell’altra là, la segretaria dei Ds di Genova, come si chiamava? Ah sì, la Roberta Pinotti. Bella tusa e cattiva anche lei». Dicono che ce l’abbia a morte con Cgil, Cisl e Uil per principio, a prescindere, ma lui nega. «Se non ci fosse il sindacato, lo fonderei io. Ne ho bisogno. Altrimenti come riuscirei a trovare un accordo con 20.000 e passa dipendenti? Se i rappresentanti dei lavoratori mi chiedono un aumento, cerco di darglielo. Ma detesto quelli che fanno politica e proclamano scioperi demagogici ». Dicono che sia un padrone delle ferriere, che ha billette e vergelle invece delle ossa e un tondino al posto del cuore, e questo già basta a farlo andare su di giri: «Non sono padrone neanche di un cane. Odio questa parola: padrone. Non datemi del capitalista, del finanziere, del lobbista. Io sono soltanto un datore di lavoro che ha sempre fondato o acquistato stabilimenti e non ne ha mai chiuso uno». Se ne dicono tante sul conto di Emilio Riva, nato a Milano il 22 giugno 1926, l’uomo in questo momento più citato d’Italia, soprattutto in assenza di informazioni dirette da parte dell’interessato. «Mai un’intervista», rilevava nel 1995 l’attuale vicedirettore del Corriere della Sera , Daniele Manca. La sua riservatezza era talmente impenetrabile che al centralino della sede milanese di viale Certosa, anziché «Riva», ti rispondevano: «Trenta settecento, buongiorno », cioè il numero di telefono, 30700.Poi,all’improvviso,la decisione di dire la sua. L’iniziativa partì dallo stesso Riva. A distanza di tanto tempo, ignoro ancora il perché. Anche nel 2002, come adesso, il fondatore del primo gruppo siderurgico d’Italia (il quarto d’Europa, il ventitreesimo nel mondo, 60 fra siti produttivi e società commerciali dislocati in 10 Paesi, 21.711 dipendenti, oltre 10 miliardi di euro di fatturato annuo), si stava battendo contro le tre entità con cui è costretto a fare i conti da più di mezzo secolo: gli ambientalisti, i sindacati, la magistratura. La privatizzazione dell’Ilva, con la cessione dell’impianto ex Italsider della città pugliese al gruppo Riva, risaliva a sette anni prima. L’imprenditore lombardo era finito sotto processo con l’accusa d’aver confinato 70 impiegati «troppo sindacalizzati o scomodi » in una palazzina cadente, «in cui subivano un trattamento teso ad annullare la loro dignità professionale e umana ». Il giudice unico del tribunale di Taranto, Genantonio Chiarelli, aveva condannato Riva a due anni e tre mesi di reclusione per tentata violenza privata. Ma sul banco degli imputati non era riuscito a portarcelo. «Gli ho detto: ho un sacro rispetto per la magistratura, questo è il mio promemoria, faccia come meglio crede ». Nel promemoria c’era scritto che quei posti di lavoro erano occupati da persone incaricate di tenere i contatti con l’Iri, con la Finsider e col ministero del Tesoro. Nel momento in cui l’Ilva passava in mani private, cessava la loro funzione. «Fossero rimasti in tre, non potevano giocare a scopa», mi spiegò Riva. «Ma dai quattro in su m’avrebbero organizzato anche il torneo di briscola. Allora ho spiegato loro: signori, io vi lascio il vostro ottavo livello, voi in cambio andate giù in fabbrica e controllate almeno la produzione. Li mandavo minga con la mazza e il badile, eh. Li mettevo al computer in camice bianco. Molti hanno accettato. Una settantina no. State pure a casa, li ho esortati, così almeno risparmiate la benzina dell’auto. A fine mese vi mando a casa il vostro stipendio,intero.Niente,non hanno accettato nemmeno questo ». Solo a quel punto Riva aveva deciso di spostare i riottosi in un edificio dotato di scrivanie e telefoni. «Per due giorni ho lasciato l’abilitazione alle chiamate esterne. Ma poi mi sono accorto che telefonavano per i fatti propri in Australia e perciò ho fatto installare due bei telefoni a scheda ». Un giorno gli riferirono che uno dei 70 aveva tentato per ben due volte il suicidio. «Per colpa mia. Mi parlavano di mobbing minga mobbing. Sentite qua, gli ho detto, mandatelo su da me, che gli insegno io come fare: prende una bella pietra e va sul molo di Taranto... Ma le pare che uno può sbagliare due volte persino ad ammazzarsi? Per farla breve, alla fine si sono licenziati solo tre irriducibili e tutti gli altri hanno accettato di lavorare». Il lavoro. La sua passione. Gli tiene compagnia da 70 anni. Ha cominciato da Colombo, un magazzino di ferro alla Bovisa. «Incarico modesto: dovevo aprire le buste della corrispondenza e rivoltarle, in modo da poterle usare per scriverci sopra i conti. Ancor oggi prendo appunti sul retro della rassegna stampa quotidiana, mentre le mie segretarie gettano nel cestino montagne di fogli con sopra appena due righe di testo. Nel 1952 avevo il 40 per cento della ditta. Volevo il 51. Il proprietario non me lo diede e così me ne andai. Era da poco finita la guerra. C’erano da recuperare tutti i residuati bellici. Compravo i lotti d’asta nei campi Arar: ferrovie bombardate, demolizioni navali, veicoli militari. Li vendevo ai bresciani della Valsabbia e della Valcamonica, che da generazioni facevano badili e picconi. L’ho dato io il ferro per le fondamenta del Pirellone». Nel 1957, in società col fratello Adriano, mise in funzione il primo forno elettrico a Caronno Pertusella. Sei colate al giorno. Poi arrivò la colata continua.«Fu un gioco d’azzardo. L’ingegner Enzo Colombo ci mise il progetto,l’ingegner Luigi Danieli di Udine il brevetto,io l’acciaio. Dissi loro: proviamo, 3.000 tonnellate, non un chilo di più. Era il 1964. Scegliemmo il 2 giugno, festa della Repubblica, perché l’acciaieria era chiusa: avevamo paura che saltasse tutto per aria. Invece andò bene. Certe sere, tornando a casa con mia moglie dalla Scala, mi fermavo a Caronno, mi toglievo la giacca dello smoking e controllavo le colate. L’acciaio liquido ti soggioga. Vedi questo forno che si capovolge ed escono 330 tonnellate di liquido a 1.650 gradi. Sembra acqua rossa. Ti brucia un po’ il viso,ma ti prende.A volte vengono i banchieri a vedere le colate. Ci lasciano il cuore». Il padre di Riva si chiamava Angelo, era nato all’Ortica e lavorava nei trasporti. «Nel 1937 mise giù in Etiopia la strada Massaua-Gimma. Tre mesi per arrivare da una città all’altra. Ci ho impiegato io cinque giorni con la Land Rover nel 1962. Mi aveva chiamato l’imperatore Hailé Selassié. Stava costruendo un’acciaieria ad Addis Abeba. Voleva un parere. Maestà, gli dissi, con tutto il rispetto, ma quest’affare qui non fonderà mai neanche un bullone. “Che ci vuole per farla funzionare?”, mi chiese. Carta bianca, risposi. Si fa a modo mio. Via i burocrati. Nessuno ci deve mettere il naso. Risultato: prima colata a gennaio 1963. Un record mondiale. Facevamo dai chiodi alle reti del letto. Poi è venuto il leninista Menghistu, il Negus rosso, e ha distrutto tutto». Come ciascuno dei suoi 21.711 dipendenti, ogni mese Riva, ragioniere che il Politecnico della sua città ha insignito della laurea ad honorem in ingegneria meccanica, continua a ricevere dalla segretaria la busta paga: è quello il suo unico reddito. Per cui ha un sacro rispetto per il giorno 27. «Se cade di sabato o di domenica, lo stipendio va dato il venerdì. Una banca di Novi Ligure una volta se n’è dimenticata, ha retribuito il personale di una mia acciaieria il lunedì dopo. Ho chiuso il conto su due piedi ». Prima di congedarci, chiesi a Emilio Riva: è riuscito a capire per quale motivo a un certo punto le aziende perdono slancio, diventano spurghi di rancori interpersonali, arrivano a deprimere chi ci lavora? Rispose: «Colpa del capo. Mette gli uni contro gli altri. Io non parlo mai male dei miei collaboratori. Al massimo li licenzio».