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 2012  agosto 17 Venerdì calendario

Riva, il padrone con un debole per la Camusso - Dicono che sia misogino e, in effetti, nelle sue aziende non ha voluto fra i pie­di né le due figlie laureate né le nuore: «Intelligenze superiori, le stimo molto, e tuttavia guai se fossero qui dentro, so io che conflitti ne nascerebbero»

Riva, il padrone con un debole per la Camusso - Dicono che sia misogino e, in effetti, nelle sue aziende non ha voluto fra i pie­di né le due figlie laureate né le nuore: «Intelligenze superiori, le stimo molto, e tuttavia guai se fossero qui dentro, so io che conflitti ne nascerebbero». Pe­rò, dieci anni fa, mi confessò d’avere un debole per Susanna Camusso, la donna che oggi da segretaria generale della Cgil gli sta tenendo testa all’Ilva di Taranto, così come negli anni Novanta da segretaria naziona­le dell­a Fiom lo fronteggiava al­l’acciaieria di Cornigliano: «Era tanto simpatica.Me l’han­no fatta fuori. Ma dov’è finita? Una bella tusa così cattiva... Anche quell’altra là, la segretaria dei Ds di Genova, co­me si chiamava? Ah sì, la Roberta Pinotti. Bella tusa e cattiva anche lei». Dicono che ce l’abbia a morte con Cgil, Cisl e Uil per principio, a prescindere, ma lui nega. «Se non ci fosse il sindacato, lo fonderei io. Ne ho bisogno. Altrimenti come riuscirei a trovare un accordo con 20.000 e passa dipendenti? Se i rap­pr­esentanti dei lavoratori mi chie­dono un aumento, cerco di darglie­lo. Ma detesto quelli che fanno po­liti­ca e proclamano scioperi dema­gogici ». Dicono che sia un padrone delle ferriere, che ha billette e vergelle invece delle ossa e un tondino al posto del cuore, e questo già basta a farlo andare su di giri: «Non sono padrone neanche di un cane. Odio questa parola: padrone. Non datemi del capitalista, del finanziere, del lobbista. Io sono soltanto un datore di lavoro che ha sempre fondato o acquistato stabilimenti e non ne ha mai chiuso uno». Se ne dicono tante sul conto di Emilio Riva, nato a Milano il 22 giu­gno 1926, l’uomo in questo mo­mento più citato d’Italia, soprat­tutto in assenza di informazioni di­rette da parte dell’interessato. «Mai un’intervista», rilevava nel 1995 l’attuale vicedirettore del Corriere della Sera , Daniele Man­ca. La sua riservatezza era talmen­te impenetrabile che al centralino della sede milanese di viale Certo­sa, anziché «Riva», ti rispondeva­no: «Trenta settecento, buongior­no », cioè il numero di telefono, 30700.Poi,all’improvviso,la deci­sione di dire la sua. L’iniziativa par­tì dallo stesso Riva. A distanza di tanto tempo, ignoro ancora il per­ché. Anche nel 2002, come adesso, il fondatore del primo gruppo side­rurgico d’Italia (il quarto d’Euro­pa, il ventitreesimo nel mondo, 60 fra siti produttivi e società com­merciali dislocati in 10 Paesi, 21.711 dipendenti, oltre 10 miliar­di di euro di fatturato annuo), si sta­va battendo contro le tre entità con cui è costretto a fare i conti da più di mezzo secolo: gli ambienta­listi, i sindacati, la magistratura. La privatizzazione dell’Ilva, con la cessione dell’impianto ex Italsi­der della città pugliese al gruppo Riva, risaliva a sette anni prima. L’imprenditore lombardo era fini­to sotto processo con l’accusa d’aver confinato 70 impiegati «troppo sindacalizzati o scomo­di » in una palazzina cadente, «in cui subivano un trattamento teso ad annullare la loro dignità profes­sionale e umana ». Il giudice unico del tribunale di Taranto, Genanto­nio Chiarelli, aveva condannato Riva a due anni e tre mesi di reclu­sione per tentata violenza privata. Ma sul banco degli imputati non era riuscito a portarcelo. «Gli ho detto: ho un sacro rispetto per la magistratura, questo è il mio pro­memoria, faccia come meglio cre­de ». Nel promemoria c’era scritto che quei posti di lavoro erano oc­cupati da persone incaricate di te­nere i contatti con l’Iri, con la Finsi­der e col ministero del Tesoro. Nel momento in cui l’Ilva passava in mani private, cessava la loro fun­zione. «Fossero rimasti in tre, non potevano giocare a scopa», mi spiegò Riva. «Ma dai quattro in su m’avrebbero organizzato anche il torneo di briscola. Allora ho spie­gato loro: signori, io vi lascio il vo­stro ottavo livello, voi in cambio an­da­te giù in fabbrica e controllate al­meno la produzione. Li mandavo minga con la mazza e il badile, eh. Li mettevo al computer in camice bianco. Molti hanno accettato. Una settantina no. State pure a ca­sa, li ho esortati, così almeno ri­sparmiate la benzina dell’auto. A fine mese vi mando a casa il vostro stipendio,intero.Niente,non han­no accettato nemmeno questo ». Solo a quel punto Riva aveva de­ci­so di spostare i riottosi in un edifi­cio dotato di scrivanie e telefoni. «Per due giorni ho lasciato l’abilita­zione alle chiamate esterne. Ma poi mi sono accorto che telefona­vano per i fatti propri in Australia e perciò ho fatto installare due bei te­lefoni a scheda ». Un giorno gli rife­rirono che uno dei 70 aveva tenta­to per ben due volte il suicidio. «Per colpa mia. Mi parlavano di mobbing minga mobbing. Sentite qua, gli ho detto, mandatelo su da me, che gli insegno io come fare: prende una bella pietra e va sul mo­lo di Taranto... Ma le pare che uno può sbagliare due volte persino ad ammazzarsi? Per farla breve, alla fine si sono licenziati solo tre irri­ducibili e tutti gli altri hanno accet­tato di lavorare». Il lavoro. La sua passione. Gli tie­ne compagnia da 70 anni. Ha co­minciato da Colombo, un magaz­zino di ferro alla Bovisa. «Incarico modesto: dovevo aprire le buste della corrispondenza e rivoltarle, in modo da poterle usare per scri­verci sopra i conti. Ancor oggi pren­do appunti sul retro della rassegna stampa quotidiana, mentre le mie segretarie gettano nel cestino montagne di fogli con sopra appe­na due righe di testo. Nel 1952 ave­vo il 40 per cento della ditta. Vole­vo il 51. Il proprietario non me lo diede e così me ne andai. Era da po­co finita la guerra. C’erano da recu­perare tutti i residuati bellici. Com­pravo i lotti d’asta nei campi Arar: ferrovie bombardate, demolizio­ni navali, veicoli militari. Li vende­vo ai bresciani della Valsabbia e della Valcamonica, che da genera­zioni facevano badili e picconi. L’ho dato io il ferro per le fonda­menta del Pirellone». Nel 1957, in società col fratello Adriano, mise in funzione il primo forno elettrico a Caronno Pertusel­la. Sei colate al giorno. Poi arrivò la colata continua.«Fu un gioco d’az­zardo. L’ingegner Enzo Colombo ci mise il progetto,l’ingegner Luigi Danieli di Udine il brevetto,io l’ac­ciaio. Dissi loro: proviamo, 3.000 tonnellate, non un chilo di più. Era il 1964. Scegliemmo il 2 giugno, fe­sta della Repubblica, perché l’ac­ciaieria era chiusa: avevamo pau­ra che saltasse tutto per aria. Inve­ce andò bene. Certe sere, tornan­do a casa con mia moglie dalla Sca­la, mi fermavo a Caronno, mi to­glievo la giacca dello smoking e controllavo le colate. L’acciaio li­quido ti soggioga. Vedi questo for­no che si capovolge ed escono 330 tonnellate di liquido a 1.650 gradi. Sembra acqua rossa. Ti brucia un po’ il viso,ma ti prende.A volte ven­gono i banchieri a vedere le colate. Ci lasciano il cuore». Il padre di Riva si chiamava An­gelo, era nato all’Ortica e lavorava nei trasporti. «Nel 1937 mise giù in Etiopia la strada Massaua-Gim­ma. Tre mesi per arrivare da una città all’altra. Ci ho impiegato io cinque giorni con la Land Rover nel 1962. Mi aveva chiamato l’im­peratore Hailé Selassié. Stava co­struendo un’acciaieria ad Addis Abeba. Voleva un parere. Maestà, gli dissi, con tutto il rispetto, ma quest’affare qui non fonderà mai neanche un bullone. “Che ci vuole per farla funzionare?”, mi chiese. Carta bianca, risposi. Si fa a modo mio. Via i burocrati. Nessuno ci de­ve mettere il naso. Risultato: pri­ma colata a gennaio 1963. Un re­cord mondiale. Facevamo dai chiodi alle reti del letto. Poi è venu­to il leninista Menghistu, il Negus rosso, e ha distrutto tutto». Come ciascuno dei suoi 21.711 dipendenti, ogni mese Riva, ragio­niere che il Politecnico della sua città ha insignito della laurea ad honorem in ingegneria meccani­ca, continua a ricevere dalla segre­taria la busta paga: è quello il suo unico reddito. Per cui ha un sacro rispetto per il giorno 27. «Se cade di sabato o di domenica, lo stipen­dio va dato il venerdì. Una banca di Novi Ligure una volta se n’è di­menticata, ha retribuito il persona­le di una mia acciaieria il lunedì do­po. Ho chiuso il conto su due pie­di ». Prima di congedarci, chiesi a Emilio Riva: è riuscito a capire per quale motivo a un certo punto le aziende perdono slancio, diventa­no spurghi di rancori interperso­nali, arrivano a deprimere chi ci la­vora? Rispose: «Colpa del capo. Mette gli uni contro gli altri. Io non parlo mai male dei miei collabora­tori. Al massimo li licenzio».