Gian Maria Gros-Pietro, Il Sole 24 Ore 14/8/2012, 14 agosto 2012
PERCHÉ L’ILVA METTE IN GIOCO IL FUTURO DELL’ITALIA
Sul caso dell’Ilva di Taranto l’impegno del Governo è totale. Tre ministri (Giustizia, Ambiente, Sviluppo economico) sono mobilitati e l’intero Esecutivo attende dalla Corte costituzionale un pronunciamento sul suo ormai manifesto dissenso rispetto alle decisioni del Gip. È il massimo livello di attenzione che si può raggiungere in uno Stato di diritto. La posta in gioco è degna di tanta attenzione. La salute dei cittadini denuncia carenze derivanti da situazioni ambientali dannose che si sono protratte per decenni. Per contro l’azienda sostiene che i suoi impianti oggi rispettano i parametri europei. Va ricordato che il complesso siderurgico di Taranto è l’unica grande realizzazione rimasta del progetto delle Partecipazioni statali che nel secolo scorso realizzò in Italia il "ciclo integrale". Produrre acciaio partendo dal minerale e dal carbone con impianti collocati sul mare, direttamente alimentati dalle navi: così l’Italia rovesciò il vantaggio competitivo del Nord Europa, che produceva alla bocca delle miniere di carbone, divenuto uno svantaggio con la chiusura progressiva delle stesse. La grande siderurgia dell’Italsider (Gruppo Iri) contribuì alla crescita in Italia dell’industria meccanica di massa, producendo volumi importanti di acciaio "primario". In seguito si sviluppò, soprattutto nell’Italia settentrionale, la produzione secondaria di acciaio, fondendo rottami ferrosi in forni elettrici, complementare rispetto al ciclo primario. Dopo la privatizzazione della siderurgia e con la progressiva chiusura degli altri poli del ciclo integrale, Taranto è rimasto il maggiore stabilimento produttore di acciaio primario in Europa. La sua produzione è sottoposta alle stesse regole ambientali dei concorrenti dell’Europa comunitaria e i suoi prodotti alimentano le seconde lavorazioni sparse in tutta Italia, costituendo un vantaggio competitivo per gli utilizzatori. Se le produzioni a caldo di Taranto dovessero chiudere, sparirebbero anche quelle di prima trasformazione, non soltanto a Taranto, con i relativi posti i lavoro. Scendendo ancora nella filiera, l’industria meccanica dovrebbe utilizzare prodotti intermedi di importazione, aggravando ulteriormente la bilancia commerciale e perdendo il vantaggio competitivo di disporre di fornitori vicini in grado di rispondere con tempestività a variazioni quantitative e qualitative negli approvvigionamenti. Basterebbe questo a spiegare l’impegno con cui il ministro dello Sviluppo segue la vicenda. Ma non c’è solo questo. La cancellazione di posti di lavoro nell’ordine delle decine di migliaia andrebbe nella direzione opposta rispetto a quella della ripresa della crescita cui si sta dedicando il Governo. Un compito difficile perché i posti di lavoro – competitivi – non si creano per decreto; purtroppo per decreto, anche giudiziario, si possono sopprimere. La difficoltà di far ripartire l’economia sta anche nella carenza di capitali e per questo si conta di attirare in Italia investitori che vengano qui per produrre. Ma la vicenda Ilva non aiuta certo questa attrazione. Il Centro Siderurgico di Taranto ha prodotto per decenni sotto il controllo statale, durante i quali la produzione ancora non rispettava i parametri che applica oggi. A quel periodo risalgono principalmente le cause dei danni alla salute riscontrati dalle perizie. Il fatto che le contestazioni non siano state fatte quando le attività dannose erano massime, e vengano avanzate ora, nonostante i miglioramenti apportati in seguito, dopo che la proprietà è cambiata, indurrà alla cautela gli investitori che potrebbero aver interesse a rilevare imprese a controllo pubblico. Costoro sarebbero in grado di apportare mercati, tecnologie e risorse a segmenti di industria oggi in mano pubblica, che non dispongono di forze sufficienti per procurarseli autonomamente. Ma il caso Ilva, così come viene gestito, può suscitare il timore di vedere applicati anche in futuro due pesi e due misure, finché dura il controllo pubblico, e dopo: ossia, che pezzi dello Stato rilevino, nella cosa venduta, difetti che prima della vendita non avevano eccepito, vietandone l’uso. Certamente il ministro dello Sviluppo starà anche pensando a come trasformare il problema in un’opportunità. Il problema si può così sintetizzare: rispettare i parametri europei può non bastare, oggi, se alle spalle c’è un lungo periodo di degrado e intorno un territorio compromesso. Bisogna andare oltre e risanare. Risolvere questo problema, sviluppando le necessarie tecnologie, significa assicurare all’Italia la permanenza di una produzione centrale nel sistema industriale, proteggendone le filiere che ne discendono, nonché i relativi fornitori. Ma significa anche qualificare operatori che potranno offrire le loro soluzioni in Russia, India e Cina, e ovunque dove gli stessi problemi si vanno accumulando su scala ben più ampia e dove, fra non troppo tempo, vi saranno sensibilità sufficienti e risorse adeguate a pretendere soluzioni. Averle sviluppate e poterne mostrare gli effetti intorno a un impianto funzionante, in un contesto rispettoso delle persone e dell’ambiente, sarebbe la migliore qualificazione. Una soluzione positiva della vicenda Ilva è dunque necessaria e auspicabile, non solo per Taranto. Essa passa per la via impegnativa del perfezionamento dell’esistente, e non per quella massimalista della sua cancellazione, ignorando i guai che ne derivano.