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 2012  agosto 15 Mercoledì calendario

«IL RAGÙ DEL MIO CÉLINE ERA IMMANGIABILE»

Céline «vestito con cura, rilassato, era di una bellezza incredibile, gli occhi azzurri con dentro un solo puntino nero», eppure «era un essere disperato, di un pessimismo totale». Lei, ballerina senza cultura, aveva 23 anni quando si incontrarono, lui 41 ed era già un seduttore esperto, che aveva collezionato numerose amanti. Ma solo a Lucette scriveva: «È con te che voglio finire la mia vita, ti ho scelta per raccogliere la mia anima dopo la mia morte». È quanto emerge da Céline Segreto, il libro che raccoglie le memorie della moglie centenaria dello scrittore, Lucette Destouches, raccolte dall’allieva Véronique Robert (Lantana, pp. 144, euro 14,50). Un ritratto a tutto tondo del genio della letteratura più amato e più odiato del secolo scorso. Ricco di particolari su un’esistenza vissuta drammaticamente, sul baratro di un’Europa devastata dalle ideologie. Divertenti gli aneddoti sul rapporto dello scrittore con i libri: «Li apriva a caso, la prima pagina, poi una nel mezzo, due, tre verso la fine». Stesso copione per il cinema: «Guardava le prime immagini del film e mi trascinava fuori». Amante aggressivo, ossessionato dal sesso («Ho sempre rifiutato di partecipare a delle orge per lui»), a tratti iracondo («urlava continuamente »), «diceva il contrario di quel che pensava ». Vivere con un uomo così deve essere stato un inferno, e Lucette non lo nasconde, anche se da ogni sua parola traspare un amore infinito, per quanto sofferto, per lo scrittore. Sentimenti vietati Vietato parlare di sentimenti (l’amore è una parola oscena per Céline), di cultura o di politica, eppure fra i due la complicità e l’intesa era totale. Si sono sposati in municipio, il 23 febbraio 1943, in piena guerra: «Dopo la cerimonia, Céline è tornato a lavorare immediatamente. Non ha neanche offerto da bere ai suoi amici». In quella Parigi occupata, Lucette parla delle frequentazioni di prostitute e papponi, degli incontri con una giovane cantante che diventerà famosa, Edith Piaf. Come medico Céline era un disastro («prescriveva solo le medicine indispensabili, e la maggior parte delle volte si accontentava di semplici consigli di buon senso») e nell’ambulatorio che aprì a Saint-Germainen- Laye ebbe un solo paziente in un mese. Come cuoco era anche peggio: «Ha sempre rifiutato il fatto che io facessi da mangiare. A Meudon mangiavamo i ragù schifosi che preparava lui». Lucette racconta del famoso episodio in cui Sartre chiese a Céline di intercedere presso i tedeschi per mettere in scena «Le mosche». Ovviamente fornisce un’immagine dello scrittore quasi eroica, del cavaliere senza macchia né paura: «Non era al soldo di nessuno, sempre solo contro tutti». Lucette ha ragione quando dice che i pamphlet maledetti («Bagatelle per un massacro», «La bella rogna», «Scuola di cadaveri») erano invettive allucinate di un pacifista e non entra in merito alle polemiche politiche. Si limita a spiegare che la sua proibizione a ripubblicare quei testi è dettata dal fatto che il suo stile letterario e polemico accattivante, fuori dal contesto degli anni Trenta, potrebbe influenzare negativamente i lettori del Duemila. Certo, ma sa benissimo che alla sua morte il divieto sparirà. La fuga col gatto Belle le pagine in cui si descrive la fuga dei due nella «Germania in fiamme, tutti si agitavano come topi nella gruviera alla ricerca del più piccolo buco per uscire dal Paese. A Berlino, strisciavamo sotto terra con Bébert (il gatto). Non c’era più una sola casa in piedi. Era un’atmosfera da fine del mondo e di fuochi fatui. Vedevamo sentinelle dappertutto e crepavamo di fame. Un giorno alcuni tedeschi si sono messi a cantare e a bere, festeggiavano l’assassinio di Hitler. L’indomani, venivano fucilati». Lucette cerca di sfatare alcuni luoghi comuni («non siamo partiti con la milizia») ma d’altronde sa bene che «è la storia dei vincitori che viene raccontata». Nel castello di Sigmaringen, dove si erano rifugiati insieme a ciò che era rimasto della repubblica di Vichy dall’ottobre ’44 al marzo ’45, «abbiamo vissuto una vita allucinante, in una specie di incubo da svegli, in mezzo a gente che si era ingannata e che sarebbe stata inghiottita». Fucilati Laval, Brinon, Luchaire, finirà i suoi giorni in carcere Pétain. In mezzo alle macerie di un’Europa devastata Lucette danzava: «Mi ero sistemata uno spazio in uno degli immensi saloni degli specchi del pianterreno ». Poi l’approdo in Danimarca, «il Paese più triste del mondo, abitato da porci ipocriti»: «Davo lezioni alla nipote di Goering, che era sposata con il figlio di un rabbino». La polizia danese li arrestò entrambi, ma lei rimase pochi giorni in carcere. Liberata, senza il suo uomo, tentò tre volte il suicidio, si sentiva sola in un Paese estraneo di cui non capiva la lingua («Louis mi aveva proibito di pronunciare una sola parola in danese »). Un morto vivente Quando venne liberato, Céline era diventato «un morto vivente, durante i dieci anni che hanno preceduto la sua morte, già non c’era più». Il ritorno in patria non fu dei migliori: lo scrittore, sempre più malato e intrattabile, «era abitato dall’odio», non voleva vedere nessuno. Vivevano nell’abbruttimento, circondati da gatti e cani aggressivi come il loro padrone: non avevano un soldo, era diventati una coppia di barboni. Celebri, maledetti e poveri in canna. Con la morte di Céline, spirato mentre stava lavorando all’ultima versione di Rigodon, poteva finire anche il libro di Lucette. Che sarebbe stato perfetto, vista la vita in simbiosi che i due conducevano. Invece continua ancora, per alcune pagine di piacevole lettura ma senza quelle tensioni che contraddistinguono le parti di ricordo della convivenza con lo scrittore più maledetto, e più affascinante, del ‘900.