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 2012  agosto 15 Mercoledì calendario

TRACCE DI VITA NEL BOSCO DEI MISTERI

Per chi non si impegna nel sottrarsi a un atteggiamento passivo, una passeggiata nel bosco potrebbe apparire monotona, addirittura noiosa. Il visitatore svogliato difficilmente può percepire le meraviglie della foresta: all’inizio, dentro l’ombroso ventre silvestre, lo scenario si manifesta tutto uniforme, ripetitivo, uguale a se stesso. E allora la foresta può sembrare tediosa proprio come – nonostante sia il suo opposto – il deserto.

Camminare tra gli alberi è come avanzare tra dune sempre uguali, sotto foglie e rami che si susseguono senza interruzioni. Sopra gli alberi sai che c’è cielo, vento, luce, nubi, montagne; sotto vedi solo moltitudini sempre uguali di presenze immobili che cancellano il sole, che si confondono in un’indistinguibile amalgama verde. Ma se si compie lo sforzo necessario a cogliere anche le variazioni apparentemente più insignificanti di quel sistema ecologico, allora – proprio come nel deserto – ciò che vediamo sfilare mentre camminiamo diventa una successione di episodi inattesi.

Con queste premesse, oltre ovviamente la speranza di avvistare il lupo, sto per conoscere la più antica e misteriosa foresta degli Appennini: Sasso Fratino, il luogo in Italia dove si trova la massima concentrazione di lupi.

Di buon’ora arrivo all’eremo di Camaldoli, ciò che si definisce un vero e proprio «eremo forestale», dove fin dal Medioevo i monaci benedettini vivevano in un rapporto di dipendenza con la foresta. Furono loro, alla fine dell’XI secolo, a dar vita a questo grande popolo vegetale. Mi lascio alle spalle il complesso monastico e vado incontro alle nebbie mattutine che escono dal fitto delle piante. Un passo, ed entro nella moltitudine di individui contorti e muti, dove la luce si attenua. È questo il mondo preferito dai lupi.

Entro nel ritmo dei passi sul comodo viottolo sotto abeti bianchi, altissimi, e tra odori di terra bagnata, muschio, muffe, ognuno dei quali potrebbe condurmi a un dettaglio, a un particolare che non conosco. Cammino cauto e vigile a tutti i segnali. Non so cosa cercare, rimango semplicemente attento a ogni variazione nel fitto che cambia di continuo, metro dopo metro. So che come gran parte degli animali selvatici, anche il lupo cerca di muoversi sui terreni più comodi, proprio come su questo viottolo: lo scopo per lui è essere veloce con il minor dispendio energetico, e i sentieri questo gli offrono. Qui basta infatti osservare con attenzione per terra e prima o poi si incontra qualche traccia interessante, come le inconfondibili fatte (escrementi) dei lupi.

Non è difficile: anche perché i lupi le depongono ben in evidenza, in modo che il messaggio olfattivo che sprigionano possa arrivare a distanza, e attirare o scacciare chi lo percepisce. Le fatte sono lunghe circa una spanna e sono facili da riconoscere, perché si presentano come una amalgama secca di resti organici della preda: peli, ossi, tendini non digeriti variamente intrecciati tra loro. Per capire il tipo di alimentazione del lupo, gli studiosi possono ricorrere a un sistema comparativo piuttosto ingegnoso: estraggono dalla fatta un singolo pelo rimasto intatto nella digestione, e arrivati in laboratorio lo raffrontano nell’apposita tricoteca con i peli di possibili prede, catalogati e nominati. Se il pelo trova un suo consimile, il gioco è fatto.

Ma ecco, lo aspettavo, un cartello di legno annuncia: «Riserva integrale Sasso Fratino». Ciò significa che da qui in avanti non potrò più mettere il naso fuori dal sentiero. Oltre il sentiero, nella zona inaccessibile, il terreno sotto alberi secolari è una successione di strati di foglie morte che non riceve passo umano da oltre mezzo secolo. Cinquant’anni di solitudine!

È l’immagine del perfetto bosco fiabesco, dove si intrecciano il favoloso e il terribile; luogo sedimentato nell’inconscio tra i riflessi di mille racconti di streghe e lupi mannari. La foresta si presenta come un intrico di specie diverse, faggi, abeti bianchi, frassini, tigli, aceri, tassi, maggiociondoli, colossi arborei di cui non riconosco le specie neppure con il manuale di botanica in mano, perché sepolti sotto strati di muschi e funghi a mensola. Liane si attorcigliano a tronchi di alberi morti ricoperti in masse tumorali su cui traggono il succo vitale milioni di esseri sconosciuti.

Qui la foresta è come una grande cattedrale dove si può entrare solo lungo la navata centrale – ovvero l’unico viottolo accessibile – e lo si può fare solo in ossequioso silenzio. La riserva integrale di Sasso Fratino venne istituita nel 1959 e da allora sui suoi alberi nessuno ha più mosso un ramo. Nacque sul modello del «Parc naziunal svizzer» in Engadina fondato a inizio 900, il primo parco delle Alpi votato alla dottrina della wilderness.

Wilderness significa che la natura possa fare il suo corso senza alcuna interferenza dell’uomo: la natura si deve autogovernare, e se un albero muore non arrivano certo le motoseghe a ripulire l’ambiente, sarà la natura stessa a riciclarne il legno in nuova vita.

Mi avvicino a un albero che era vivo qualche decennio fa, e che ora sembra una presenza sinistra, mostruosa. È invece un monumento alla vita, ma che richiede uno sforzo per essere capito. Mi accovaccio fino a toccarlo e le dita affondano nel legno bianco come in un pan di spagna fresco e umido, annuso l’odore di muffa e muschio che emana, ascolto.

So che là dentro vivono lunghe catene trofiche. Tra la corteccia decomposta si vede del verde. Ma solo dopo un’attenta osservazione percepisco la ricca varietà di muschi e licheni che si sovrappongono. Funghi gialli e rossi si addensano in un angolo. Altri esseri riempiono cavità nascoste. Vermi, pulci, microscopici tardigradi che si arrampicano tra i muschi, vita sempre più minuscola.

Alla base ci sono buchi dove trovano riparo i roditori. Poco più su, nelle vene aperte del legno marcito, si nascondono insetti xilofagi che vengono mangiati da piccoli uccelli furtivi. Ancora più su si aprono cavità che serviranno da rifugio a ghiri, moscardini, roditori di montagna. Dopo il metro, ecco aprirsi una nuova nicchia ecologica. E così via, di segmento in segmento, fino in cima, dove tutta un’altra popolazione lotta per la vita.