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 2012  agosto 17 Venerdì calendario

HO SCOPERTO COME METTERSI NEI PANNI DEGLI ALTRI

Professor Giacomo Rizzolatti, lei è un celebre neurofisiologo, addirittura in odore di premio Nobel (fra l’altro somiglia da impazzire a Einstein), e mi scuserà se mi comporto come un fan a un concerto rock che chiede al cantante sul palco di esibirsi per l’ennesima volta nel suo pezzo di maggior successo. Mi racconta cosa accadde esattamente quel giorno verso la fine degli anni Ottanta in cui scopriste l’esistenza dei neuroni specchio qui all’Università di Parma?
«Non successe in un giorno. È stato il New York Times, per comodità di racconto giornalistico, a condensare tutto in una giornata. Sempre quelli del New York Times si inventarono il bellissimo episodio del mio assistente che stava mangiando un cono gelato quando uno dei macachi di cui stavamo studiando il sistema motorio…».
Andiamo più piano, professore. Dove vi trovavate? In questa palazzina dell’università?
«No, nella sede precedente. Una sede che adesso cade a pezzi e che allora ospitava i nostri esperimenti. Non avevamo tanti soldi all’epoca. Perciò avevamo deciso (coraggiosamente, me lo lasci dire) di concorrere a un progetto di ricerca internazionale che si chiamava Human Frontier e che era finanziato, molto generosamente, dai giapponesi».
Perché dice che fu un gesto coraggioso decidere di concorrere?
«Perché tutti cercarono di dissuadermi. Sei matto, mi dicevano, cosa ci provi a fare, è solo una perdita di tempo, i gruppi americani sono bravi, potentissimi e protetti dalle loro grandi università. Insomma, discorsi così».
Ma decideste di provare lo stesso.
«Sì, e vincemmo ed entrarono nelle casse del nostro laboratorio tre-quattrocentomila euro all’anno, dieci volte di più del budget a cui eravamo abituati. E perciò ci mettemmo a lavorare sodo con un’attrezzatura migliore. Però vorrei chiarire una cosa».
Prego, faccia pure.
«I soldi sono molto importanti ma si può fare ricerca anche con pochi mezzi. In questo senso ho molto imparato dai russi e sono grato a loro per questo insegnamento».
Cosa c’entrano i russi?
«Dobbiamo fare un passo indietro. Io sono di madre russa».
Nato a Kiev, vero?
«Sì, nel 1937!».
Come c’era finita la sua famiglia a Kiev?
«È una lunga storia che comincia nell’Ottocento quando il mio bisnonno, che sapeva lavorare benissimo il marmo, fu chiamato a Kiev e finì per costruire il teatro dell’Opera. E lì diventò molto ricco. Poi però venne la Rivoluzione che gli portò via quasi tutto. Ma lui rimase a Kiev perché si era affezionato alla gente e ai posti. A Kiev nacque mio padre, che era medico, e che sposò mia madre che era una pediatra. Sarebbero rimasti anche loro lì, come il bisnonno e il nonno, se nel frattempo i rapporti tra l’Italia fascista e la Russia non si fossero deteriorati e perciò, poco prima della guerra, i miei tornarono in patria e furono costretti, per una legge dell’epoca, a rientrare nel luogo di origine, un paesino di settecento abitanti che si chiama Clauzetto e si trova vicino a Udine. Poi mio padre, come medico, riuscì a trasferirsi a Udine e io, quando venne il momento, seguii la tradizione di famiglia e studiai medicina a Padova con un professore al quale devo molto, si chiamava Hrayr Terzian ed era di origini armene ma parlava perfettamente padovano, oltre che italiano. Fu lui a svegliarmi. Ero un ragazzo provinciale che credeva che tutti i professori universitari fossero dei geni. Invece Terzian mi apriva gli occhi e mi diceva: “Ma quale genio! Quello xe mona”. E fu sempre lui a dirmi che se volevo fare il neurologo dovevo anche saper far ricerca, non solo curare i malati».
Mi scusi, professore, ci siamo persi di vista i russi.
«Ci arrivo. Spronato da Terzian andai a fare ricerca a Pisa dal professor Giuseppe Moruzzi, che in Italia non è conosciuto quanto meriterebbe ma che è uno dei padri della nostra neuroscienza. Moruzzi ha fatto veramente scuola ed era un idolo in Russia tanto che molti studiosi venivano da lui a studiare. Quelli in eccesso lui li mandava da me, qui a Parma, dove nel frattempo mi ero trasferito. I russi mi sono stati molto preziosi perché erano abituati a lavorare in un ambiente povero ed erano bravissimi con le mani e sapevano creare qualsiasi trucchetto per inventare quello che serviva. I soldi sono importanti, non vorrei essere frainteso, ma un ricercatore deve anche imparare a ingegnarsi, a essere fantasioso».
Ritorniamo al Giorno X (anche se non fu solo un giorno). Così lo ha ricostruito il New York Times del 10 gennaio 2006: “In una calda giornata d’estate di 15 anni fa a Parma, in Italia, una scimmia sedeva su una sedia speciale da laboratorio in attesa che i ricercatori tornassero dal pranzo. Fili sottili erano stati impiantati nella regione del suo cervello interessata alla pianificazione e all’esecuzione dei movimenti. Ogni volta che la scimmia afferrava e spostava un oggetto, alcune cellule in quella regione del cervello avrebbero sparato, e un monitor avrebbe registrato un suono: brrrrrip, brrrrrip, brrrrrip. Uno dei ricercatori entrò nel laboratorio con un cono gelato in mano. La scimmia lo fissò. Poi, accadde qualcosa di straordinario: quando lo studente portò il cono alle labbra, il monitor suonò – brrrrrip, brrrrrip, brrrrrip – anche se la scimmia non si era mossa, ma aveva semplicemente osservato lo studente afferrare il cono e spostarlo verso la bocca”. Poi il NYT riassume così il senso della scoperta: “Il cervello della scimmia contiene una speciale classe di cellule, chiamate neuroni specchio, che sparano quando l’animale vede o sente un’azione e quando l’animale esegue la stessa azione per conto proprio”. Professore, questa è la storia come l’hanno raccontata gli americani, mi dice invece come è andata veramente?
«Stavamo facendo degli esperimenti sul sistema motorio delle scimmie soprattutto relativamente ai movimenti delle mani e della bocca. C’era un apparecchio che ci serviva per dare il cibo agli animali e registrare quello che accadeva nel cervello della scimmia quando prendeva il cibo e lo mangiava. La “macchinetta” andava ovviamente rifornita di tanto in tanto: uno di noi prendeva il cibo e lo metteva dentro. Ed è qui che c’è stata la sorpresa. Mentre stavamo caricando la macchinetta il neurone da cui registravamo già “sparava”».
Nel senso che si attivavano dei neuroni?
«Sì, gli stessi che si attivavano quando il cibo lo prendeva la scimmia. Come era possibile che il sistema motorio si mettesse in azione quando l’animale non si muoveva ma semplicemente osservava una persona che si stava muovendo? Era una cosa strana. Perché succedeva questo? Forse quella scimmia era un po’ bizzarra? Forse muoveva un dito del piede senza che noi ce ne accorgessimo? Forse i nostri strumenti erano difettosi? Abbiamo controllato e ricontrollato. Era tutto a posto. Avevamo scoperto qualcosa. Avevamo scoperto che alcune cellule del cervello si attivano sia quando compiamo una determinata azione, sia quando vediamo qualcun altro compierla. I neuroni specchio ci fanno capire al volo cosa sta facendo chi ci sta di fronte, senza che sia necessario fare un ragionamento complesso. Ci fanno entrare in empatia con i nostri interlocutori. È un meccanismo di comunicazione a livello neuronale, preverbale».
E allora cosa avete fatto?
«Ci siamo spaventati!».
Perché?
«Per paura di aver commesso qualche errore. Per un fisiologo la cosa peggiore è pubblicare qualcosa di sbagliato. Ti rovini la reputazione, sei finito. Io non avevo cinquant’anni ancora. Ci giocavamo tutto. I miei giovani collaboratori erano scatenati, assatanati. Volevano pubblicare subito i dati dell’esperimento. Io cercavo di calmarli. Facemmo verifiche su verifiche, registrammo ogni fase dell’esperimento. Alla fine mandammo tutto a Nature, la grande rivista scientifica. La loro risposta ci gelò: la vostra scoperta non è di interesse generale, mandatela a una rivista specializzata».
Invece si rivelò di enorme interesse generale. Professore, mi spiega il significato della scoperta dei mirror neurons e la sua ricaduta nella nostra vita?
«La scoperta dei neuroni specchio ci dice che abbiamo un meccanismo che indica che gli individui sono strettamente in contatto. La natura ci ha creato un meccanismo per volerci bene, per capirci a un livello antico che viene prima del linguaggio. Il sistema mirror è un meccanismo naturale che ci permette di comunicare».
Come dire che il prossimo ci è più prossimo di quanto pensavamo prima di questa scoperta? Sembra incredibile e in controtendenza, soprattutto di questi tempi in cui non è che la gente sembra volersi tanto bene.
«La natura ha creato questo meccanismo ma sta alla cultura renderlo più ricco o più povero. Se la cultura invita a fregare il prossimo, a ucciderlo, a fare quello che vuoi infischiandotene degli altri, il meccanismo dei neuroni specchio finisce per atrofizzarsi (come qualsiasi cosa che non venga usata, sollecitata). E, dagli anni Ottanta in poi, dall’avvento degli yuppie in avanti, il messaggio è stato quello di privilegiare l’individualismo, di essere egoisti».
Nella nostra epoca si tesse quotidianamente l’elogio del predatore.
«Cosa che porta all’infelicità. In questo periodo ho frequentato degli psicoanalisti, proprio per approfondire alcune questioni legate ai neuroni specchio, e loro mi raccontano di persone di successo (manager, avvocati) che stanno malissimo, che chiedono aiuto perché si sentono sole».
È rimasto sorpreso dal clamore mondiale che ha avuto la sua scoperta?
«Il successo è stato molto più grande di quello che immaginavamo. Pensavamo che restasse nell’ambito delle neuroscienze. Poi nel 2000 fu chiesto a vari scienziati di fare delle previsioni per il futuro in base alle scoperte più recenti e Vilayanur Ramachandran, il famoso neurologo di San Diego, ha tirato fuori quella frase che è stata la nostra fortuna».
Ricordiamo ai lettori quello che profetizzò Ramachandran: «Prevedo che i neuroni specchio faranno per la psicologia quello che il Dna ha fatto per la biologia: forniranno un quadro unificante e contribuiranno a spiegare una serie di abilità mentali che sono finora rimaste misteriose e inaccessibili agli esperimenti». Come lancio pubblicitario, è effettivamente strepitoso.
«Se avessero coniato una frase del genere per la Barilla chissà quanto sarebbe stata disposta a pagarla. Fu quella dichiarazione che smosse il New York Times e da lì tutto quello che ne è seguito».
Ramachandran è proprio un mago del marketing. Tra l’altro, il Dna è una delle poche cose scientifiche entrate davvero nel linguaggio comune e quindi la dichiarazione si è rivelata più che efficace. Tutti ora usano l’espressione “non è nel mio Dna”.
«Sì, come quando si dice: “La Juventus vince perché è nel suo Dna”».
Su quest’ultima cosa si dovrebbe fare un lungo discorso ma torniamo al clamore suscitato dalla scoperta. Vennero qui a Parma televisioni da tutto il mondo.
«Veramente all’inizio arrivarono televisioni solo dell’altro mondo, quelle italiane se ne guardarono bene. Una volta, Piero Angela fece qualcosa sul nostro lavoro che andò in onda a tarda notte. La tv italiana sui neuroni specchio ha fatto poco e niente».
Anche i giornali hanno fatto poco?
«No, i giornali no. Il Corriere ha messo addirittura i neuroni specchio tra le dieci maggiori invenzioni e scoperte dall’Unità d’Italia».
I neuroni specchio danno una base scientifica all’empatia, alla capacità di mettersi nei panni di un’altra persona, di sentire come si sente chi ci sta di fronte e di aumentare quindi la possibilità di comunicare con il prossimo. Mi permetta di farle un esempio terra terra. Un allenatore di calcio molto carismatico (come si ama dire) è quindi uno i cui neuroni specchio vanno a mille?
«Certamente nel caso di Mourinho. Lui è un ottimo esempio per la capacità che aveva di capire e di coinvolgere la squadra, i sentimenti del gruppo. Un altro esempio, sempre calcistico, è quello di Guidolin, l’allenatore dell’Udinese. Se vuole esempi pratici, posso farle quello delle ragazze che lavorano all’Unicredit e che sono venute a trovarmi…».
Be’, le banche hanno molto bisogno di neuroni specchio in questo momento che sono diventate il simbolo dell’egoismo.
«Abbiamo parlato dei rapporti all’interno delle aziende (non solo bancarie). Molto spesso i rapporti tra capufficio e impiegati sono proprio sbagliati. Lo scopo non è di creare il gruppo, la squadra, ma è quello di dividere, di colpevolizzare. Invece bisogna fare come Mourinho o come Guidolin che lavorano per la coesione del team».
È vero che i neuroni specchio ci fanno entrare più facilmente in empatia con chi prova gioia che con chi prova dolore o imbarazzo?
«Sì, e credo che si tratti di una questione legata all’evoluzione. Se lei vomita, io il cibo che lei ha mangiato non lo mangio, perché potrebbe essere avvelenato, tossico e infatti lei sta male. Così se io vedo uno che soffre, che prova dolore, io non mi avvicino, mi metto in allarme perché c’è qualcosa che non va. Mentre se vedo un ragazzo e una ragazza che stanno felici assieme io non mi allarmo perché non è una situazione pericolosa per me».
È vero che i neuroni specchio potrebbero avere un ruolo importante nella cura dell’autismo?
«Sempre Ramachandran, con un’altra delle sue formule geniali, ha parlato di broken mirror, dello specchio rotto dell’autismo, riferendosi a neuroni specchio insufficienti. La questione dell’autismo è più complessa, ci sono deficit del sistema motorio molto spinti. Non si tratta solo di neuroni specchio rotti. Ma molto di vero in quello che dice Ramachandran c’è».
Mi scusi, professore, ma quasi tutti i suoi colleghi al posto suo avrebbero chiamato i neuroni specchio “neuroni Rizzolatti”, dando il loro nome alla scoperta. Perché lei non l’ha fatto?
«Non sarebbe stato giusto. Si lavora in team. I miei collaboratori di quel periodo, Luciano Fadiga, Vittorio Gallese, Leonardo Fogassi, erano molto bravi. Il merito mio è di aver creato la tensione, il gruppo, un po’ come si diceva di Mourinho. Qui siamo in quaranta all’incirca e le assicuro che ci sono personalità forti, ma, a differenza che in altre parti, non ci sono baruffe, incomprensioni. È un gruppo molto coeso».
Professore, perché non le danno il Nobel come auspicano in tanti, compresi scienziati che lo hanno già vinto?
«Dovrei essere un po’ paranoico per lamentarmi di non avere avuto il Nobel perché è un premio che viene dato per la medicina o la fisiologia, e include gente che inventa la risonanza magnetica (per fare un esempio) fino ai geni della genetica. Nell’ambito delle scienze cognitive sono uno dei numeri uno, se non il numero uno, ma, le ripeto, è anche una questione di disciplina. In questo periodo sono la genetica e l’immunologia a dominare».
Tra le ricadute della sua scoperta, c’è una ricerca dell’Università Jules Verne di Amiens, secondo la quale i neuroni specchio giocano un ruolo anche nel meccanismo che provoca l’erezione. È così?
«Questa è una domanda che mi fanno sempre i giornalisti».
È una corporazione di maniaci sessuali. Ma la risposta alla mia domanda qual è?
«Credo che sia vero, se no perché la gente guarderebbe i film pornografici?».