Sergio Rizzo, Sette 17/8/2012, 17 agosto 2012
«ORA FERMIAMO IL CEMENTO CHE CRESCE SUI CAMPI»
Chi tocca i fili muore. Lo imparò a proprie spese Fiorentino Sullo, astro nascente della Dc. Da ministro dei Lavori pubblici propose una legge urbanistica che avrebbe stroncato sul nascere la speculazione. Ma aveva fatto male i conti. I giornali lo accusarono di voler togliere la casa agli italiani, il suo partito lo sconfessò e il disegno di legge non entrò mai in Consiglio dei ministri. Era il 1962: incombevano le elezioni politiche e la carriera politica di Sullo si chiuse praticamente lì. Quarant’anni dopo un temerario ministro dell’Agricoltura, Mario Catania, torna sul luogo del delitto chiedendo che si metta fine, per legge, alla cementificazione.
Non le dice niente la storia di Sullo?
«Non ho le stesse ambizioni. E poi sono sicuro che non andrà a finire allo stesso modo».
Aspetti a dirlo quando il testo sarà entrato in Consiglio dei ministri.
«Molti miei colleghi, a cominciare da Corrado Passera, sono d’accordo».
Nessuno sta remando contro: non ci credo.
«Qualcosa che rema contro c’è di sicuro. La legislatura è agli sgoccioli».
Perché adesso?
«Oggi si può fare una discussione seria su cose impensabili fino a qualche tempo fa. Ci sono condizioni, diciamo così, più mature».
Sono maturati gli italiani?
«Ci abbiamo messo del tempo a capire che cosa di positivo c’è nell’avere una certa agricoltura, con un certo paesaggio, con una certa qualità dei prodotti della terra e dell’ambiente. E che tutto questo va difeso».
Non è che ci volesse molto…
«La nostra è una civiltà cittadina. Siamo il Paese delle cento città, in cui il vissuto della campagna è un vissuto di risulta. La borghesia contadina viveva in città e aveva un rapporto di rendita con la campagna. Questo non è avvenuto in altri Paesi europei, come la Francia, che si è evoluta proprio nel binomio Parigi-campagna. C’è una storia completamente diversa».
Ma questo è il Paese che nel dopoguerra ha fatto la riforma agraria per evitare lo spopolamento delle campagne.
«Non credo che il motivo sia stato principalmente quello. La ragione era soprattutto dare collocazione a quelli che non avrebbero potuto emigrare a Torino o Milano».
Una toppa sociale.
«L’atteggiamento direi culturale nei confronti dell’agricoltura e del lavoro nei campi è sempre stato di un certo tipo».
Come sarebbe a dire?
«Basta guardare gli spot pubblicitari di una certa compagnia telefonica che hanno come protagonisti quei tre comici, Aldo Giovanni e Giacomo. Ecco, di quel tipo».
Sono soltanto degli spot. Divertenti, non trova?
«Divertentissimi per qualcuno, sono sicuro. Ma nel cinema e nella televisione l’immagine del contadino è sempre stata quella di un buzzurro sottosviluppato».
Aldo Grasso dice che le sue argomentazioni sono più ridicole della scenetta di Aldo, Giovanni e Giacomo. In effetti, prendersela con la pubblicità…
«Grasso ragiona con il metro del critico televisivo. Io ho il dovere di avere una visione più ampia. Alcuni stereotipi sui popoli, sui mestieri, producono danni gravissimi. In particolare, gli agricoltori italiani sono stati danneggiati da un cliché che li descriveva come figure arretrate e marginali».
Ma non ha detto che gli italiani oggi hanno una visione diversa della campagna?
«Certo. Per fortuna una delle cose più positive accadute negli ultimi tempi è la percezione diversa che la gente ha dell’agricoltura. A maggior ragione quel cliché non si può accettare».
Nella gente sono compresi anche i sindaci che autorizzano le speculazioni edilizie, i costruttori senza scrupoli, chi tira su la casetta abusiva sperando nel prossimo condono?
«Evidentemente no. L’agricoltura e l’ambiente hanno sempre perduto il confronto con la speculazione. E non parlo soltanto delle palazzine, ma anche dei capannoni industriali che hanno invaso le aree più fertili, a cominciare dalla Pianura Padana. Dove hai quattro capannoni vuoti, ma comunque ne costruisci un altro, con grande soddisfazione del Comune che incassa la concessione e gli oneri urbanistici. Per questo ho deciso di presentare quel disegno di legge».
Saranno contenti i Comuni, che con quei soldi coprivano le spese correnti.
«Ecco, quello sarà tassativamente vietato. Ed è una delle cose più importanti della legge. Ma era così fino a sei-sette anni fa, si tratta soltanto di riportare indietro le lancette dell’orologio. Non è pensabile che per pagare gli stipendi si debba cementificare il territorio. In quarant’anni, da quando è esplosa questa febbre, la superficie agricola utilizzata si è ridotta di cinque milioni di ettari. Cinque milioni!» (Un’area grande come Sicilia e Sardegna messe insieme, ndr).
Saranno contenti pure i costruttori…
«La mia proposta non è contro i costruttori, ma contro le speculazioni inutili e dannose. Non è un caso che sia ricavata in parte dal modello adottato in un grande Paese industriale come la Germania. Si tratta di stabilire ogni anno qual è la quota di territorio che si può utilizzare: poi la ripartiamo fra le Regioni, le quali a loro volta la suddividono fra i Comuni. Questo riconduce il fenomeno in margini fisiologici».
Quali sono questi margini? In molte zone d’Italia si dovrebbe fare piazza pulita, eliminando scempi edilizi incredibili. Ha presente i danni enormi che hanno fatto i condoni? Per non parlare di certi piani regolatori…
«È una ferita aperta. Ma difficile da rimarginare. Sappiamo tutti che tornare indietro è praticamente impossibile. Si potrebbe però fare qualcosa, come pensano i ministri Passera e Barca, che è in fondo la stessa idea che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha illustrato sulle pagine del Corriere: riqualificare le periferie urbane. Magari anche le zone industriali dismesse della Pianura Padana».
Fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
«Lo so. Ma l’opinione pubblica c’è arrivata. E da parte nostra c’è tutta l’intenzione».
E la volontà politica? C’è pure quella?
«La politica, la politica… Spero che dalle elezioni esca una classe dirigente capace di riprendere qualcosa fatta da questo governo».
Ne dica una.
«Una grande iniziativa nella pubblica amministrazione. Se ci limitamo a dire che dobbiamo mandare a casa un po’ di dipendenti pubblici per recuperare risorse facciamo soltanto metà di quello che serve. Non è vero che ci sono milioni di parassiti che rubano lo stipendio e vanno mandati a casa».
Lei è contento del livello dei nostri servizi?
«Nella scuola pubblica vedo esempi meravigliosi di abnegazione da parte degli insegnanti».
Ma è tutto basato sul volontariato.
«È la dimostrazione che ci sono risorse umane stupende. Il dipendente pubblico è una persona come tutte le altre. Il problema semmai sta in chi guida la macchina».
Dove vuole arrivare?
«Per arrivare da qualche parte bisogna partire dall’inizio. Nei dati della spending review che Giarda ci ha portato c’era l’andamento della spesa pubblica negli ultimi quindici anni: mentre i finanziamenti per la sanità sono sempre cresciuti, quelli per l’istruzione sono sempre diminuiti. Come se avessimo spostato miliardi di euro dalla scuola agli ospedali. E per avere un sistema sanitario che i cittadini non percepiscono come migliore rispetto a quindici anni fa. La scuola è in uno stato deprecabile. Eppure tutti sanno che certe cose, come il rispetto dell’ambiente, si insegnano da piccoli».
Soltanto la politica sembra ignorarlo.
«I politici non sono tutti uguali. Qualcuno è più lucido, altri meno. Di sicuro c’è bisogno di un rinnovamento della classe dirigente».
A proposito di classe dirigente, ricorda quando la Coldiretti faceva eleggere decine di parlamentari? Che tempi!
«Oggi la lobby agricola è debolissima».
Da che dipende?
«Sono vecchi. Vecchi e puliti».
Tipo cassette di frutta per Natale?
«Quello è il top. Rispetto a come sono cambiate le lobby in questo Paese e ai soldi che girano, hanno un rapporto con la politica ancora pulito».
E questo secondo lei ha a che fare con il fatto che in quarant’anni sono stati cementificati cinque milioni di ettari?
«Forse. Qualche volta penso che se fossero stati più squali si sarebbero difesi meglio. È la stessa cosa che è successa a Bruxelles, dove trent’anni fa le lobby agricole erano più potenti. Forse il sociale contava di più».
Forse gli agricoltori erano più ricchi.
«Sicuro. Poi c’è stata una selezione darwiniana delle imprese agricole. Oggi sono di meno e più solide. Ma non ci sono giganti che possono condizionare i potentati economici, il settore è frammentatissimo».
Rimpiange la Federconsorzi?
«Per me la fine della Federconsorzi resterà sempre una vicenda oscura».
Si è fatto un’idea?
«Non sono convinto che ci fossero le condizioni per il fallimento. Certo è che molti ci hanno guadagnato».
Lo sa che ci sono anche terreni agricoli appartenuti alla Federconsorzi che sono stati riempiti di palazzine abusive e poi sanate con l’ultimo condono? È successo dalle parti di Acilia, vicino Roma.
«Non mi stupisce. Fa parte della storia dei 5 milioni di ettari perduti. Così abbiamo perduto la nostra autosufficienza agroalimentare. Se per assurdo si chiudessero le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione».
Possibile? Quindici milioni di persone…
«Non so quanti sanno che non produciamo nemmeno abbastanza olio d’oliva per i consumi interni. Siamo autosufficienti soltanto per la frutta, la verdura e il vino. Il resto lo dobbiamo importare. E pagheremo sempre di più. Senza contare che viviamo come se questo periodo di pace durasse in eterno».
Tocchiamo ferro, no?
«Tocchiamo. Ma possiamo giurare che fra cento anni il mondo sarà nelle stesse condizioni?».
Senza andare così lontano, lei può escludere che il ministro tecnico Mario Catania sarà tentato dalle sirene della politica? Circola voce che le abbiano già offerto di candidarsi con i moderati alle prossime elezioni.
«Come si dice? Per adesso pensiamo a lavorare. Per il resto c’è tempo».
Non si dimentichi di Sullo...