Marco Albino Ferrari, La Stampa 12/8/2012, 12 agosto 2012
COSÌ GLI UOMINI HANNO IMPARATO A ULULARE
La via del lupo, come la chiama lei, ha un suo percorso preciso, almeno fino a qui. Dai Monti Sibillini passa lungo la dorsale appenninica, sale sul Monte Pennino, tocca le Serre di Burano, poi il Monte Nerone, l’Alpe della Luna, e giunge fino alle Foreste. Questo è il percorso che fecero i lupi. Ma lei la conosce la storia, no?».
Nel suo ufficio di Pratovecchio, Giorgio Boscagli, oggi direttore del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, si interruppe per accendersi la pipa con un fiammifero svedese. Il grigio chiaro, quasi metallico della barba, delle sopracciglia, dei folti capelli tagliati a spazzola riempiva il suo viso, sul quale, per contrasto, spiccavano ancora più intensi gli infossati occhi neri.
Era un omone ben piantato, e sopra la camicia a quadri indossava, forse per vezzo, un buffo panciotto di pelle da cowboy. «Così sono iniziate le cose: per tutti gli Anni Settanta si credeva che a Nord dei Sibillini i lupi non ci fossero ormai più. Poi, a seguito di alcune segnalazioni, qualcuno iniziò a insospettirsi. C’è, non c’è… Nell’autunno del 1982 si tenne una famosa riunione in cui parteciparono i rappresentanti delle tre province di Forlì, Pesaro e Arezzo. In un battibaleno si trovarono i soldi per verificare sul campo se il lupo si era spostato per davvero a Nord dei Sibillini. E si partì. Decisi di setacciare la zona con il wolf howling, l’ululato indotto con ululati registrati. Con un’équipe da me preparata tutte le notti lavoravamo dal tramonto all’alba in inverno, e per di più con parecchi gradi sotto zero. Senza pause, per settimane e settimane».
«No, non mi guardi così, non scherzo. Vivevamo dopo il crepuscolo, come i lupi. Per poterli sentire. E alla fine zack! Una
ROMAGNA MONTE A
Direttore
Giorgio Boscagli, biologo, dirige il Parco delle
Foreste Casentine-
si: per settimane negli Anni Ottanta ha
cercato conferma alla presenza di lupi a Nord dei Sibillini
CARPANO
notte del febbraio 1983 arrivò la risposta. Un ululato nitido sotto le stelle. Scoprimmo poi che si trattava di un piccolo branco sul Monte Carpano, sopra Bagni di Romagna».
Sapevo che nella sua lunga esperienza di lupologo, Boscagli era il massimo esperto di wolf howling. Quel pomeriggio, seduto alla sua scrivania, si addentrò nel racconto di un metodo empirico diretto a verificare la presenza dei lupi: una tecnica anche emozionante e dai risvolti poetici, perché conduce – così vorrebbe la visione più lirica – a «dialogare a distanza» con i lupi.
«Sa cosa mi incuriosisce dell’ululato indotto?», chiesi a Boscagli. «La risposta di gruppo, l’ululato corale: sembrano “voci” che si inseguono. È così?». Boscagli mi sorrise e si preparò a lanciarsi nella sua spiegazione, che, ne era certo, mi avrebbe meravigliato.
Uno dei primi lavori scientifici sul tema degli ululati, iniziò a raccontarmi, venne svolto negli Anni Sessanta dall’americano Douglas Pimlott che tentava di localizzare la presenza di branchi proprio attraverso le vocalizzazioni. Ma Boscagli andò oltre: registrò le risposte dei lupi con microfoni ad altissima fedeltà, e sottoponendo poi i suoni memorizzati a un’analisi della frequenza si accorse che le diverse voci del «coro» si disponevano su multipli o frazioni di frequenza. Era sorprendente: dietro quel suono polifonico che si è depositato nel nostro inconscio come un richiamo misterioso, magico, straziante, si nasconde una strategia (consapevole?) basata su modulazioni di frequenze.
Quel primo ululato stimolato a distanza da Boscagli sul Monte Carpano avrebbe inaugurato tutta una nuova epica di ricerche negli anfratti degli Appennini. Le ricerche con il wolf howling solo un lavoro lungo, da fare solo di notte. «Ma sa cosa vuol dire uscire alle nove e ritornare all’alba per quattro settimane di seguito?».
No che non lo sapevo, ma quando mi resi conto di ciò che comportasse operare una stima con il metodo del wolf howling vivendo di notte e lanciando ululati nel bosco, guardai dritto negli occhi il mio interlocutore con aria sbalordita. Boscagli era troppo impegnato nella sua narrazione per badare al mio sguardo, e non si accorse che ero così impressionato che smisi di ascoltarlo. Mi concentrai su quegli occhi neri, accesi come quelli di un eroe di Joseph Conrad mentre risale un misterioso fiume nell’Africa nera.
Quando dopo qualche istante mi ridestai, Boscagli stava enunciando l’armamentario necessario per effettuare il metodo del wolf howling. «Due automezzi fuoristrada quattro per quattro, uno per ciascuna équipe, dotati di prese elettriche per gli apparati di emissione; un anemometro brandeggiabile di alta sensibilità; un registratore per cassette; un amplificatore di 15 Watt; una tromba esponenziale con copertura ad angolo verticale di 60 gradi e orizzontale di 120, in modo da poter direzionare l’emissione; una coppia di radiotrasmittenti».
I lupi ululano per diversi motivi, per esprimere un sentimento di solitudine quando sono lontani dai componenti del branco, per rafforzare il senso di appartenenza al gruppo, per caricarsi prima della caccia, e soprattutto per affermare l’occupazione di un dato territorio. L’ululato artificiale è dunque vissuto come un’allerta, come una sorta di provocazione. La risposta dei lupi al richiamo è immediata perché è necessario per il branco emettere subito una sorta di marcatura del territorio, una marcatura sonora. «Noi siamo qui, questo è il nostro territorio, non entrate», ci dicono i lupi.
L’ululato mette i brividi, spaventa, oppure infonde un’inappagabile nostalgia. Le voci che si rincorrono e si sovrappongono, per poi rientrare e rafforzarsi reciprocamente dentro una trama di suoni deboli e forti, producono un senso di smarrimento di fronte a quell’indefinibile pluralità di cui non sappiamo decifrare la provenienza. Guardiamo in alto, verso la luna o le stelle, e ci sembra sia la foresta a chiamare. Un numero indistinto di voci segnala la propria presenza dal fondo della notte. Quante sono? Perché ci chiamano?
Anche l’antico luparo degli Appennini conosceva bene l’effetto di quegli urli nella notte. Anche lui utilizzava l’ululato indotto per verificare la presenza delle sue prede. La tradizione vuole che venissero usati gli scarponi da montagna tenuti in mano nei quali si dirigeva il richiamo, così da alterare il suono prodotto fino all’effetto voluto. Se i lupi rispondevano, il luparo imbracciava l’arma e partiva. Coraggioso salvatore della comunità dall’immaginario assassino dei boschi.