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 2012  agosto 12 Domenica calendario

NELLA TERRA DELLE MONDINE SI CERCA UN FUTURO COLTIVANDO LA MEMORIA

Quando eravamo davvero povera gente, ogni anno, in maggio, migliaia di donne arrivavano in treno qui nel Vercellese dall’Emilia, dal Veneto e dalle tante terre in cui si faceva fatica a mangiare. Cercavano un lavoro che durasse 40 giorni per poter poi tornare a casa con quattro soldi e un sacco di riso. Erano le mondine. C’erano mamme e c’erano ragazze poco più che bambine. Nelle loro valigie non dimenticavano mai di mettere, tra le poche cose essenziali, anche un vestito della festa perché il lavoro era pesantissimo, ma alla sera si andava a ballare e si poteva incontrare qualcuno che cantava tu sei per me la più bella del mondo, e un amore profondo mi lega a te.

Nel 1949 Giuseppe De Santis ci fece un film, «Riso amaro», che fece scoprire la bellezza di Silvana Mangano e la nostra miseria.
Sono alcuni secoli - dice un narratore all’inizio del film - che nell’Italia settentrionale si coltiva il riso... Un’immensa pianura che copre le province di Pavia, Novara, Vercelli. Su questa pianura hanno impresso segni incancellabili milioni e milioni di mani di donne. E l’hanno frugata e assestata per 400, 500 anni. È un lavoro duro e immutabile. Le gambe nell’acqua, la schiena curva, il sole a picco sulla testa. Eppure, soltanto le donne possono compierlo. Occorrono mani delicate e veloci. Le stesse mani che pazientemente infilano l’ago e cullano i neonati».

Ma quel che allora pareva immutabile è mutato. Oggi nel Vercellese le risaie ci sono ancora, anzi producono più riso di allora, ma passandovi accanto non senti più i canti corali e non vedi più le schiene curve, né i grandi cappelli che proteggevano dal sole e i maglioni scuri che tenevano lontane le zanzare. Le mondariso non ci sono più. Solo si può scorgere, ogni tanto, qualche cinese: anche maschi, perché pure i maschi in Cina hanno mani delicate e veloci. Ma per la quasi totalità della monda basta un trattore che sparge il diserbante.

«Era un altro mondo», racconta Angelo Gilardino, vercellese, musicista di fama internazionale e figlio di un allevatore di cavalli. «La risaia aveva un paesaggio molto più ricco di alberi rispetto al deserto verde di adesso. Si vedeva in giro molta gente, la campagna era piena di vita, di rumori, di animazioni. La sera, all’imbrunire, c’erano le rondini e le libellule. Oggi non ci sono più: le libellule mangiavano gli insetti e le rondini mangiavano le libellule. Gli insetticidi hanno interrotto la catena alimentare. Io sono nato nel 1941, la mia generazione ha vissuto letteralmente in due mondi, e il passaggio da un mondo all’altro è stato veloce».

Né c’è più la lotta politica di allora, l’ attesa della «Seconda ondata» e Baffone che deve venire. A Vercelli nel 1948 c’erano esponenti di spicco del Pci tra i quali Francesco Leone, che aveva fatto la guerra di Spagna. De Santis, che era comunista, lo contattò per aiutarlo a fare un film di denuncia sullo sfruttamento delle donne. E tra gli attori volle arruolare un ex calciatore del Torino che faceva il giornalista all’«Unità»: Raf Vallone.

Il set di «Riso amaro» fu una specie di cenacolo dell’intellighenzia di sinistra. Ci venivano Davide Lajolo, Italo Calvino, Cesare Pavese che proprio qui conobbe il suo tragico amore Constance Dowling, sorella di Doris, una delle protagoniste del film insieme alla Mangano e a Gassman. De Santis ha scritto poi che «le sorelle Dowling in Italia frequentavano ambienti progressisti: Alicata, Guttuso, Puccini, Lizzani, Ingrao, ed erano state accolte con molto entusiasmo, vista anche la loro grande generosità (sessuale, s’intende). Constance era una donna molto generosa, anche con gli elettricisti e i macchinisti. E forse non era la persona più adatta per il complicato, e complessato, carattere di Pavese. Quando lui si suicidò ci fu chi scrisse che lo aveva fatto anche per lei, ma mi sembra che sarebbe attribuire a una piccola attrice una troppo grande responsabilità».

La politicizzazione era tale - il 14 luglio 1948, giorno dell’attentato a Togliatti, le riprese furono interrotte - che a un certo punto De Santis arrivò a sospettare che le sorelle Dowling, americane, fossero spie della Cia o dell’Fbi. Per tranquillizzarlo dovette arrivare a Vercelli, dall’America, il grande fotografo Robert Capa, anch’egli ex della guerra di Spagna ma soprattutto ex fidanzato di Doris.

Gli agrari della zona non gradivano ovviamente che si venisse a girare in casa loro un film di propaganda comunista. Fu la famiglia Agnelli a superare le diffidenze e a mettere a disposizione di De Santis, per le riprese, la propria tenuta Veneria, nel comune di Lignana. Ma il film non fu girato tutto lì perché Veneria era già un’azienda agricola avanzata e De Santis aveva bisogno di mostrare condizioni di lavoro più dure possibili; così, alcune scene hanno come sfondo un’altra cascina più scassata, a Selve di Salasco, che è lì vicino. Nonostante tutto questo, il film che De Santis aveva prodotto per la Causa non piacque al Pci. Il Partito non riconobbe nella Mangano, che nel film ballava il boogie woogie e leggeva Grand Hotel, una rappresentante della classe lavoratrice.

Oggi Vercelli ha un sindaco di centro-destra, Andrea Corsaro, e un presidente della Provincia di centro-destra, Carlo Riva Vercellotti. È anche questo uno dei tanti cambiamenti di una terra in cui è rimasto solo il riso. L’agricoltura è ancora forte ma occupa pochissimi lavoratori, essendo da tempo super-meccanizzata: le ultime mondine sono venute qui nei primi Anni Sessanta. Né c’è stata una riconversione industriale. Dalla fine degli Anni Settanta è chiusa la Montefibre, che era la fabbrica più grossa della zona, e a ruota si sono poi arrese molte altre: la Pettinatura Lane, la Faini, la Bocchio. Mentre la Sambonet, che fa posate di pregio, si è trasferita nel Novarese. Sono sparite quasi del tutto le argenterie e le fabbriche di fisarmoniche, che erano piccole ma numerose e occupavano molta gente. E così adesso ogni mattina alla stazione ferroviaria undicimila vercellesi (su 47 mila abitanti) prendono il treno per andare a lavorare altrove.

Si vive di terziario e di negozi, e si cerca un rilancio come città d’arte e di cultura. Dal 2008, ogni primavera, a Vercelli nella ex chiesa medievale di piazza San Marco ci sono gli eventi Guggenheim che portano quarantamila visitatori all’anno. C’è da vedere il crocefisso dell’anno Mille in Duomo e la splendida abbazia di Sant’Andrea, del 1217. E c’è anche una cucina che merita una visita: la panissa, le rane fritte, il Gattinara.

«Vercelli - dice Matteo Bellizzi, giovane regista che nel 2003 ha dedicato alle mondine un bellissimo e commovente documentario intitolato “Sorriso amaro” - oggi è una città che si sta interrogando sul proprio futuro. Ma non sa cosa fare. Il nostro male peggiore è l’autolesionismo, non valorizziamo le cose che abbiamo. Devono venire da fuori per dirci che piazza Cavour è bella. In pochi qui investono sulle risorse locali».

Ma c’è chi scommette che il riscatto è vicino: «Qualche segnale di ripresa lo si vede», dice Fernando Lombardi, direttore dell’Ascom e presidente della Fondazione della Cassa di risparmio di Vercelli. «Diverse aziende del terziario si stanno trasferendo da noi. La banca sta tornando piemontese. E anche la promozione in serie B della gloriosa Pro Vercelli, che ha vinto sette scudetti come il Torino e il Bologna, noi la vediamo come un segno di svolta. Abbiamo già organizzato una serie di iniziative, in occasione delle trasferte della Pro, per far conoscere in tutta Italia i nostri prodotti e la nostra cultura».

E chi volesse sentire l’eco lontana di quella cultura può andare alla Tenuta Torrone della Colombara a Livorno Ferraris. Lì si produce il riso dal 1500, quando vi si insediarono i marchesi di Pianezza. Oggi la lavorazione è un mix di innovazione e di tradizione e il riso che viene prodotto, l’Acquerello, è tra i più pregiati. Ma quel che tutti possono vedere all’interno della tenuta, e che produce il prodigioso effetto della macchina del tempo, è l’ecomuseo curato dal presidente della Pro Loco Mario Donato, che lì fu bambino e contadino. Sono conservati i dormitori delle mondine, i loro vestiti, le loro valigie da migranti stagionali, i loro ritagli di riviste illustrate sulle quali sognavano un futuro migliore. «Era un mondo di povertà e di lavoro durissimo che è un bene che sia stato superato - dice Angelo Gilardino -: ma era anche un mondo basato su sentimenti e su valori che è un peccato che siano andati perduti. Il principio secondo il quale il cibo va conquistato; la condivisione della fatica; il senso della parola data: allora gli affari si siglavano con una stretta di mano. Io quei valori li rimpiango».

Ed era anche un mondo in cui c’era, più di oggi, il senso del domani. Magari per i figli e i nipoti: ma un domani. Lo costruivano, con le mani e le gambe nell’acqua, migliaia di donne che sapevano spezzarsi la schiena cantando. Chi girasse fra le risaie spopolate di oggi potrebbe immaginare di risentirle, come per un sortilegio. Le canzoni di lotta e quelle del cuore, bella ciao e non ti fidar di un bacio a mezzanotte, se c’è la luna non ti fidar. Forse ancora oggi abbiamo qualcosa da imparare da quell’Italia che era povera ma aveva la forza di cantare.