Paolo Mastrolilli, La Stampa 17/8/2012, 17 agosto 2012
WASHINGTON: NON ABBIAMO MAI FATTO ALCUNA PRESSIONE
Julian Assange ha chiesto asilo politico all’Ecuador per eliminare il rischio di passare il resto della sua vita in prigione negli Stati Uniti». L’avvocato Per Samuelsson, che difende in Svezia il fondatore di WikiLeaks, non ha usato giri di parole per spiegare il vero significato della decisione annunciata ieri da Quito. Così ha parlato anche la madre di Assange, Christine, secondo cui dietro alla minaccia britannica di arrestare il figlio nell’ambasciata ecuadoregna ci sono le pressioni americane. L’obiettivo di Washington sarebbe trasferire il capo di WikiLeaks in Svezia, per poi ottenere da Stoccolma la sua estradizione. La vera sfida del presidente Correa, quindi, non è stata lanciata contro il Paese scandinavo o la Gran Bretagna, ma contro gli Stati Uniti, che lo considerano un nemico al pari del leader venezuelano Chavez e di quello cubano Castro.
La portavoce del dipartimento di Stato Victoria Nuland ha negato qualunque pressione e ha detto che Washington non ha intenzione di «interferire in questa disputa». L’origine dello scontro è evidente. Grazie alla complicità del soldato Bradley Manning, WikiLeaks ha pubblicato circa 400.000 documenti relativi alla guerra in Iraq e oltre 250.000 rapporti diplomatici americani. Queste carte hanno causato enormi tensioni con parecchi Paesi, inclusa l’Italia governata allora da Silvio Berlusconi, e secondo Washington hanno messo a rischio la vita di molti funzionari civili e militari.
La risposta iniziale degli Usa è stata fare pressioni sui media che avevano ricevuto i documenti affinché non li pubblicassero, o quanto meno limitassero i danni potenziali. Nello stesso tempo, però, sono state avviate le azioni legali. Manning è stato arrestato nel maggio del 2010 e a breve comincerà il suo processo davanti alla corte marziale. Contro di lui sono stati presentati 22 capi d’accusa, tra cui quello di aver tradito il suo giuramento e aiutato il nemico, agendo da spia. Alla fine di luglio il suo avvocato ha presentato un ricorso per annullare l’intero procedimento, sostenendo che Bradley è stato sottoposto a trattamenti simili alla tortura, per a farlo confessare e implicare Assange. Dunque Washington userebbe questo processo per costruire il suo caso contro il fondatore di WikiLeaks.
Sull’opportunità di perseguire Julian c’è stato un ampio dibattito. P. J. Crowley, portavoce del dipartimento di Stato all’epoca dello scandalo, si è detto contrario, perché indebolirebbe Washington quando chiede a Paesi come la Russia e la Cina di rispettare la libertà di stampa. In America, però, Assange non viene considerato un giornalista, protetto dal Primo emendamento della Costituzione che garantisce la libertà di espressione, ma piuttosto una fonte che ha violato le leggi sullo spionaggio. Su questa base, il governo vorrebbe portarlo in tribunale.
Lo stato del procedimento a suo carico non è chiaro. Nel febbraio scorso WikiLeaks ha pubblicato una e-mail della think tank Stratfor, secondo cui un grand jury si è riunito per molti mesi ad Alexandria, in Virginia, e ha già emesso un’incriminazione segreta. Washington chiederebbe alla Svezia di consegnargli Assange, appena venisse estradato per l’accusa di stupro. La domanda avrebbe buone possibilità di essere approvata, Stoccolma ha accettato quasi tutte le richieste venute dagli Usa, che possono usare lo strumento del «temporary surrender», in base al quale i Paesi dell’Ue mandano temporaneamente in Americagli imputati accusati di reati negli Usa, per essere giudicati. Il premier australiano Julia Gillard ha chiesto chiarimenti, e Washington ha risposto che l’incriminazione non esiste. Secondo Assange, però, è un atto segreto, che diventerebbe pubblico appena gli americani riuscissero a prenderlo.