Domenico Quirico, La Stampa 17/8/2012, 17 agosto 2012
SIRIA, FRA I CIVILI MASSACRATI NELLA CITTÀ CHE OSÒ RESISTERE
Questa è la testimonianza di un delitto. O meglio di una strage. Perché i morti sono oltre cento, si continua a scavare nelle loro tombe di polvere e di calcinacci. Ma la mia accusa è per una sola vittima; credo basti per qualsiasi tribunale che domani dovrà giudicare e scrivere la sentenza. Il luogo del delitto è una città di settantamila abitanti, Azaz, appena oltre la frontiera turca sulla strada che conduce ad Aleppo. Non ha moschee antiche, palazzi di pascià, non monumenti importanti da visitare. Case umili di gente povera, contadini, perché nella campagna intorno cresce il quaranta per cento degli ulivi siriani.
L’assassino è un pilota di un Mig 27 con i colori L’ dell’esercito regolare siriano, quello che si batte ancora a fianco del dittatore Bashar Assad. È decollato quasi certamente da Aleppo; a quindici chilometri c’è un aeroporto militare ancora nelle mani dei lealisti, ma è assediato dagli insorti e la pista è inutilizzabile. L’ora del delitto, le quindici e dieci del pomeriggio, quando l’aereo ha bombardato un quartiere densamente abitato. Non c’erano guerriglieri in quelle case, non depositi d’armi, alti comandi. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini perché a quell’ora sono loro nelle case, preparano in questo periodo di ramadan la cena per la sera quando il digiuno finirà.
Della vittima non conosco il nome, nessuno lo conosce, era una bimba di sei sette anni non più, una sfollata con la famiglia da Aleppo martoriata. In questa cittadina così vicina al confine credeva di aver trovato la sicurezza. Invece la bomba l’ha spazzata via, con altre cento persone. La gente scava disperatamente, a mani nude, ha già estratto decine di cadaveri. La bomba ha creato un vuoto di cinquanta metri di diametro, uno schiaffo gigantesco che ha spazzato tutto quanto, intorno le povere case sono piegate su se stesse, ridotte a rottami, il ferro sottile con cui è impastato questo cemento povero è pressoché fuso in matasse inestricabili. Non ci sono scavatori, non ci sono pale, solo le mani, rabbiosamente. Un urlo ci chiama a un piccolo padiglione, tagliato metà. Sollevano blocchi di cemento, calcinacci, mentre si diffonde un odore acuto di morte. Estraggono metà di un corpicino, non c’è più nessuna faccia, puoi vedere la gola aperta, il palato si contorce in un gran buco sanguinoso con i bordi anneriti dal fuoco, da cui pendono lembi di pelle . Si alza il grido «Allah è grande», c’è dentro odio, non pietà, alcuni baciano con furia la maceria dove il corpo ha lasciato larghe macchie di sangue e di materia. Lo avvolgono in una coperta. Che resta a lungo lì tra i calcinacci, bambini alzano i risvolti spiano l’orrore. Infine lo caricano su un piccolo motocarro che parte. Ma si continua a scoperchiare le macerie nel padiglione, raccolgono con dolcezza tra le dita piccoli frammenti, intestini, lembi di carne. Basta uno straccio bianco per comporli.
Si dice che la guerra siriana ha già provocato ventimila morti, forse più. Non ho assistito a questi delitti, non posso descriverli, spesso diffido delle cifre che corrono nelle rivoluzioni e nei conflitti civili. Dove la propaganda lavora e arrotonda. Posso testimoniare solo ciò che vedo, l’orrore di cui sono testimone. E credo che basti anche un solo delitto provato, accertato per condannare gli uomini dei regimi che lo hanno reso possibile, gli esecutori, i complici, i mandanti. E allora accuso il pilota del Mig, i suoi ufficiali che gli hanno dato l’ordine di bombardare la città di Azaz dove era questa bambina innocente, il ministro della Difesa che li ha autorizzati, il primo ministro, il presidente che li ha sostenuti e coperti: hanno commesso un delitto. Un ragazzo mi mostra (ancora una volta! quante volte ho visto questo gesto nei miei giorni siriani) sul telefonino l’immagine di altri due bambini, allegri, un’esplosione di maglie rosse e gialle: anche loro sono rimasti sotto le macerie. Raccolti, ridotti a frammenti in una grande coperta, impossibile per lo strazio ricomporli. Li hanno sepolti così in un campo («a mezzanotte eravamo ancora al lavoro, tanti erano... tu hai studiato la storia e le vicende degli uomini. Hai mai visto un dittatore così, che massacra la sua gente? Lo hai mai incontrato?».
Il bombardamento era una vendetta: perché questa città si è liberata con una epopea, poche decine di paesani contro i carri armati dell’esercito. Ci portano a vedere i luoghi della battaglia tra gli ulivi, quaranta giorni fa; dei carri nascosti tra questi alberi cari a Dio, 27 sono stati distrutti, camaleonti carbonizzati sdraiati nella polvere: uno dei luoghi di battaglia più aspra è una moschea nuova di zecca dove tre carri si erano asserragliati. La moschea è franata loro addosso, li ha sepolti con le sue macerie sante come a nascondere l’empietà di uomini che la utilizzavano per battersi e uccidere.
È la seconda volta che vengo ad Aleppo passando dalla frontiera turca. Non sono più scivolato sotto i reticolati di notte clandestinamente, con una guida che conosce la geografia dei campi minati. La frontiera è aperta, il poliziotto turco mi ha messo il visto di uscita con un sorrisone. Aperta per me. Ma non per i profughi siriani che si ammassano davanti alla barriera, sbarcati da autobus sbrecciati dalla mitragli, da auto in agonia. E mi guardano, io che vado nella direzione opposta, con sgomento. Sono quelli che non hanno resistito: «I bambini, i bambini, come possiamo far vivere i bambini sotto le bombe?». Vogliono entrare nel piccolo campo profughi di Klis, appoggiato alla frontiera. Ma la Turchia è sospettosa e prudente. Stanno accucciati all’ombra dei bus, su grandi coperte, le donne in un mucchio da una parte, gli uomini che guardano oltre il confine. Percorro a piedi la terra di nessuno, dall’altra parte il posto siriano tenuto da ragazzi dell’Esercito libero. Due si mettono in posa sotto la grande insegna «Benvenuti nella Siria libera» pronta per essere alzata all’ingresso. Mi mettono un timbro sul passaporto: buon segno, di qualcosa che si vuole radicare, che si sente già consolidato presente, rivoluzione che si fa amministrazione, burocrazia. Ad Azaz ci fanno conoscere l’ingegner Hamed Essameh, che per primo ha scatenato la rivolta qui, uno dei primi rivoluzionari siriani che ha avuto il coraggio di scendere in strada quando sono arrivate le notizie di Deraa: «Eravamo in tre, in pochi minuti siamo diventati tremila, seimila, tutta la città». Ci mostra le armi con cui hanno distrutto i carri: un tubo di ottone trasformato in lanciarazzi, fabbricato artigianalmente dalle loro mani: «Il proiettile può aprire un varco di 40 centimetri nella corazza di un carro...». Con lui c’è Ibrahim Maluff, la madre era un’italiana di Libia. Sintetizza la storia recente della Siria in due parole: «Allah akbar e hurrya, dio è grande e libertà: è tutto lì, c’è poco da capire di questa rivoluzione».