Fabio Poletti, la Stampa 14/8/2012, 14 agosto 2012
SPOSA BAMBINA VENDUTA PER 3000 EURO
Per celebrare il «matrimonio» era bastato un lenzuolo. Le gocce di sangue esibite a tutta la famiglia a suggellare il patto, più d’affari che d’amore, perché Irina - 13 anni, macedone di Skopje, piccolina, mora, capelli lunghi, occhioni e nemmeno una parola d’italiano - alla fine era costata tremila euro in contanti. «Cash», perché l’«amore» non ammette debiti, comperata e venduta come si vendono le cose di proprietà in un matrimonio combinato nei Balcani, dove la sposa promessa si era pure rassegnata - «L’Italia la vedevo solo alla televisione, pensavo che fosse bella», ha raccontato lei agli interpreti della Questura di Venezia - e il futuro marito macedone pure lui - tutto moto e discoteca aveva detto «sì» ma solo perché glielo avevano imposto.
In questa storia, che è tutto il contrario di Giulietta e Romeo, Irina è finita in ospedale e poi in una comunità protetta per le sevizie subite dopo aver cercato di ribellarsi alla famiglia di lui. Il suo maritino diciassettenne è in carcere per sequestro di persona e violenza. Insieme alla madre di lui, Jasar, 34 anni, che gli agenti della Squadra Mobile di Venezia sono andati a prendere fino in un campo rom di Napoli, da lontani parenti. Ma se qualcuno cerca di bollarla come una storia tra «zingari» si sbaglia di grosso. Il padre di Irina vive con la famiglia in un appartamento di Marghera, la zona industriale di Venezia più multietnica. Lavora come operaio in fabbrica da sei anni, dopo essere scappato dalla miseria della Macedonia dove aveva lasciato Irina. In paese ci tornava spesso a incontrare amici e parenti, anche gli usi e i costumi erano quelli di sempre. I matrimoni combinati sono la regola. Il prezzo da pagare in contanti fa parte della tradizione. È tutto il resto, che sa solo di squallore senza bandiera e di violenza senza motivo.
Quando ad aprile dicono ad Irina che il suo futuro è in Italia, lei quasi non si scompone. «Mi dispiaceva lasciare la scuola, gli amici, avevo anche un ragazzo... Ma l’Italia mi sembrava bella... Ma non immaginavo...». Due giorni dura il viaggio in pullman su per i Balcani fino al confine di Trieste e poi Marghera, che assomiglia più a Skopje che a Venezia. Il futuro marito che l’aspetta, insieme al suo più nero presente, è un ragazzo che nemmeno conosceva, legato a una famiglia di vicini che ogni tanto incontrava per strada. Così giovani a Marghera non hanno nemmeno una casa propria. Finiscono dalla famiglia del marito. Dove iniziano gli incubi di Irina.
Vietato uscire di casa. Vietato guardare la televisione. Vietato parlare al telefono. «Dovevo solo pulire e fare da mangiare... Se facevo male mi picchiavano... Se protestavo mi picchiavano...». All’inizio le violenze sono soprattutto psicologiche: Irina passa ore con la faccia al muro, in castigo come una bambina. Poi la situazione degenera e diventa tutto peggio, molto peggio. Una volta lei cerca di scappare. Non arriva nemmeno al pianerottolo. Ma subito iniziano le sevizie. Con una vasca piena di acqua e sale per condurre meglio l’elettricità e il cavo del computer del marito si possono fare tante cose. Il marito e sua madre fanno tutto di nascosto, quando a casa non c’è il padre e nemmeno le sorelle. Una volta che il padre si accorge dei segni blu in faccia e sui polsi di Irina, colpisce il figlio, gli spacca addirittura una sedia sulla schiena, nemmeno le mogli possono essere trattate come bestie. Ma non basta per fermare le violenze, che vanno avanti sempre uguali per giorni.
Fino al 2 agosto, quando per una distrazione Irina riesce a scappare di casa e volare fino in strada. Il primo incontro casuale è con una volante della polizia. La ragazzina finisce in Questura e poi in ospedale. «Aveva segni dappertutto... Ci abbiamo messo due giorni con l’interprete per capire cosa le era successo... Il suo è stato il racconto di una schiavitù», non usa altre parole perché non ce ne sono Marco Odorisio, il capo della Mobile. In due giorni il quadro è chiaro. Altri parenti confermano la storia, ma del marito e della suocera non c’è traccia. Li trovano a Napoli in un campo rom, protetti da quel cordone di indifferenza e omertà e complicità che aggiunge violenza a violenza. Gian Carlo Bettin, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Venezia, che adesso si occupa di Irina e pure ne ha viste tante, è scosso: «Nessuna tradizione arcaica può motivare un crimine simile». Adesso ci sarà un processo. La comunità macedone si sentirà sotto accusa e si chiuderà ancora di più in se stessa. E Irina cercherà col tempo di farsi una nuova vita lontana dalla Macedonia, da una famiglia che l’ha venduta e da un’altra che ha fatto molto di peggio.