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 2012  agosto 14 Martedì calendario

ALLA RICERCA DELL’ORO NERO IL BELPAESE DEL PETROLIO

RAVENNA – Trivelle d’Italia, l’Italia s’è (ri) desta. Il soffio lento e gentile del gas che pulsa nelle condotte arancioni della piattaforma Garibaldi C, 13 miglia al largo di Ravenna e degli ombrelloni della riviera romagnola, rischia di trasformarsi presto in un uragano di metano. Dopo vent’anni di regressione petrolifera, nel Belpaese — complice una bolletta energetica decollata a quota 63 miliardi – è scoppiata la voglia d’idrocarburo fai-da-te. E il governo Monti è pronto a dare il via a una corsa autarchica all’oro nero che potrebbe regalarci – calcola il ministro allo Sviluppo economico Corrado Passera – «mezzo punto di Pil e 25mila posti di lavoro in più». L’assunto è semplice: madre natura ha nascosto nel sottosuolo della penisola un tesoro da almeno 100 miliardi di euro. Quasi 2,5 miliardi di barili di riserve potenziali di greggio (il nostro fabbisogno per quattro anni) intrappolato tra i calcari mesozoici di Basilicata, Calabria e Sicilia più 250 miliardi di metri cubi di gas dispersi tra Adriatico – un bel po’ proprio qui, nel fondale sabbioso su cui poggiano le otto gambe metalliche alte 77 metri della Garibaldi C – e Stretto di Messina.
SIAMO, potenzialmente, il quarto produttore europeo di idrocarburi. E se si riuscisse a mettere le mani sopra questa fortuna sotterranea (non un miraggio ma un progetto «attivabile in tempi rapidi», assicura Passera) l’Italia potrebbe ridurre dal 90% all’80% la sua dipendenza da petrolio e gas stranieri. Per la gioia di Assomineraria («raddoppiando la produzione si libererebbero 15 miliardi di investimenti », calcola Claudio Descalzi, presidente dell’associazione degli industriali del settore) e per la disperazione degli ambientalisti, già sul piede di guerra nel timore dell’assalto dei petrolieri a suolo e fondali tricolori e della “subsidenza” (alias il collasso) dei giacimenti svuotati sotto la superficie — insolitamente blu cobalto in questa stagione — dell’Adriatico.
Siamo, meglio sgombrare il campo da illusioni eccessive, al secondo tempo di una partita iniziata 67 anni fa e che ha già spremuto buona parte delle riserve disponibili nel sottosuolo tricolore. L’Italia, lo sanno tutti, non è il Kuwait e non galleggia su un mare di oro nero. Ma i giacimenti della dorsale appenninica e sotto i campi fertili della Pianura Padana sono da sempre un segreto di Pulcinella per i nasi fini dei cacciatori di greggio.
La Us Army — che di petrolio s’intende — aveva già fiutato l’affare nel ‘43. Quando gli anfibi a stelle e strisce hanno gettato i loro pontoni sulla spiaggia di Anzio, dietro marines e corpi speciali sono sbarcate — armate fino ai denti di esplosivi e sensori geologici — due squadre sismiche incaricate di andare a caccia di idrocarburi. Arrivati alla Pianura Padana e piazzati i loro marchingegni sui terreni di Cortemaggiore, due passi da Piacenza, hanno fatto Bingo: la terra trasudava metano. Quello che cercavano. E quando è terminato il conflitto, la Casa Bianca ha provato a imporre a Roma, tra le condizioni per la pace, la clausola “Po operation valley” una sorta di diritto perpetuo a traforare come
un groviera il Nord Italia. Il resto è storia. L’Eni di Enrico Mattei è riuscita a mettersi di traverso. E i 100 e passa pozzi petroliferi l’anno scavati nel Belpaese tra il 1949 e il 1964 hanno inaugurato l’era d’oro (nero) dell’energia
tricolore e del cane a sei zampe. L’Italia è arrivata negli anni del boom ad avere 7mila impianti attivi — oggi siamo sotto i mille — e a pompare dal suo sottosuolo quasi il 50% del gas di cui aveva bisogno per far marciare il
boom del dopoguerra.
Oggi tutto è cambiato. Il Texas padano ha quasi esaurito i suoi giacimenti. Il volume di idrocarburi “made in Italy” è sceso da 20 a 8 miliardi di metri cubi. Il boom del greggio della Val d’Agri, complici
le lungaggini di casa nostra (Total e Shell hanno avuto bisogno di 400 permessi prima di far partire i lavori a Templa Rossa, in Basilicata) ci ha regalato la miseria di pochi milioni di barili l’anno. E in pochi hanno voglia di imbarcarsi
in interminabili Odissee burocratiche per scavare sottoterra: nel 2010 sono state fatte solo 35 richieste per nuove perforazioni, il minimo dal 1949, di cui 34 per migliorare impianti già attivi e solo una per la ri-
cerca di nuovi giacimenti. E così la nostra sicurezza energetica è legata a filo doppio — ora più di ieri — agli sbalzi d’umore del Cremlino e alla stabilità geopolitica di Algeria, Libia e stretto di Hormuz. Il tentativo adesso è quello
di uscire da questo
cul de sac.
Le compagnie petrolifere stanno già affilando le armi. In Italia le tasse societarie sono altissime ma le royalty sull’estrazione sono molto più basse che all’estero. Sul tavolo della direzione generale per le risorse minerarie e geologiche ci sono 120 richieste di perforazione (39 in Emilia, 14 in Lombardia, 12 in Basilicata). E la speranza dei colossi dell’oro nero è che gli snellimenti burocratici previsti nel Salva-Italia aiutino a tagliare i tempi lunghi delle autorizzazioni, visto che qui da noi per spillare il primo barile dal sottosuolo servono — tra ok amministrativi e sviluppo di un nuovo campo petrolifero — ben 11 anni contro i 6 del resto del mondo. Pure gli ambientalisti hanno drizzato le antenne. Nel timore, per loro la certezza, che i costi ambientali di “trivella selvaggia” siano largamente superiori ai benefici.
In tempi di crisi però, pecunia
non olet, anche se ha l’odore acre del greggio e degli idrocarburi: «Serve un patto per lo sviluppo tra tutte le parti in causa. Se riusciremo a superare le barriere strutturali e temporali di burocrazia e amministrazione possiamo raddoppiare la nostra produzione nazionale», garantisce Descalzi. Risultato: 600 milioni di euro in più l’anno per il fisco nazionale e 250 milioni di royalties per le casse di Regioni e Comuni. Carburante buono per dribblare la crisi dei debiti sovrani e per salvare dalla prossima estinzione il gigantesco Meccano d’acciaio della Garibaldi C e la ragnatela di tubi sottomarini che da trent’anni — pompando gas tricolore dai fondali dell’Adriatico fino alla centrale di Casal Borsetti — garantisce un pieno d’energia autarchica all’Italia
spa.