Sergio Rizzo, Corriere della Sera 14/8/2012, 14 agosto 2012
LE IMPRESE E I CREDITI ANCORA FERMI
Resta ancora molto difficile per le imprese incassare i crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione, valutati in almeno 70 miliardi di euro. Non c’è stato l’assalto al sito per scaricare i documenti necessari alla certificazione.
ROMA — Maledetta certificazione. Che sia sua la colpa del fatto che i famosi crediti delle imprese verso la pubblica amministrazione, valutati in almeno 70 miliardi di euro, ancora non si sbloccano, a dispetto dei proclami e delle promesse? Un segnale c’è ed è molto chiaro. Prevedendo un assalto al sito internet dal quale si possono scaricare i moduli per presentare la domanda di certificazione (e chissà, magari anche per evitare figuracce come quella del blackout informatico del primo giorno del censimento online) il governo aveva provveduto a potenziarlo. Piccolo particolare: non soltanto non si è verificato alcun arrembaggio, ma i contatti sono stati molto al di sotto delle stime più pessimistiche. Che cosa sta succedendo? Semplicissimo: pochissime imprese stanno chiedendo la certificazione. Eppure senza di quella, che va rilasciata dall’amministrazione statale o locale sulla base appunto di una richiesta scritta, non è possibile utilizzare nessuno dei tre strumenti previsti dalle norme fatte dal governo di Mario Monti per incassare almeno un pezzo dei crediti vantati verso il debitore pubblico. Primo, scontare in banca la fattura, rimettendoci magari un po’ di soldi: secondo la logica del «pochi, maledetti e subito». Secondo, compensare i crediti con somme dovute alla pubblica amministrazione eventualmente iscritte a ruolo. Terzo: convertire il tutto in titoli di Stato.
Che il motivo sia di tipo psicologico, cioè l’assurdità di dover chiedere un atto pubblico per vedersi riconoscere un credito per una vecchia fornitura o un lavoro già eseguito da mesi? Che qualcuno tema di finire in una misteriosa graduatoria, con il risultato di veder allontanare ancora di più l’orizzonte del pagamento? Che esista una sfiducia di fondo, dovuta anche ad alcune sciatterie nell’applicazione delle norme (tanto che si è dovuto prorogare in fretta e furia il termine per «cambiare» i crediti in titoli di Stato che rischiava di scadere quasi prima ancora dell’entrata in vigore del relativo decreto)? O che ci sia magari in atto da parte dei debitori una sottile opera tesa a scoraggiare le imprese (soprattutto quelle più piccole) a presentare la richiesta del certificato con l’argomentazione: «È inutile, tanto i tempi di pagamento non cambiano»?
Certo è che tale ragionamento, se si prendono in considerazione i tempi medi ormai necessari alla pubblica amministrazione per onorare i propri impegni, non è così campato per aria. Dopo la richiesta di certificazione l’ente pubblico ha trenta giorni di tempo per fare gli accertamenti che ritiene necessari e concederla. Superato inutilmente quel termine, entra in gioco un commissario ad acta: tenendo presente che comunque la procedura dovrebbe essere conclusa entro la fine dell’anno. Circa 140 giorni, a partire da ora: mentre la media dei pagamenti della pubblica amministrazione italiana è di 180 giorni. Si tratta di un record europeo assoluto. La Grecia, che in questa poco invidiabile graduatoria è al secondo posto, paga in 168 giorni. La Germania, per dare un’idea della differenza con i Paesi europei più virtuosi, ne impiega 36.
«Chi me lo fa fare?» si saranno perciò chiesti molti creditori. Eppure il ritardo medio continua a salire inesorabilmente. Tre anni fa, quando il problema esplose in tutta la sua virulenza, era «soltanto» di 138 giorni: dal 2009 i tempi si sono dunque allungati del 23 per cento. Per non parlare della sanità, dove la media è di ben 220 giorni. Secondo una indagine condotta alla fine del 2011 dalla Confartigianato, nel settore sanitario nessuna Regione onora il tetto europeo dei 30 giorni: limite massimo, secondo la normativa comunitaria, entro il quale la pubblica amministrazione deve soddisfare i propri creditori senza incorrere in pesanti penali. E che dovrebbe ovviamente essere applicato anche dall’Italia. Nel 2010 le Asl calabresi erano arrivate a 793 giorni, 267 in più nei confronti del 2007. Quelle molisane, a 755 giorni: contro i 661 della Campania, i 398 del Lazio e i 349 della Puglia. Soltanto due Regioni pagavano in meno di 100 giorni: il Friuli-Venezia Giulia (87) e il Trentino-Alto Adige (96). Con conseguenze terribili per le imprese, se è vero che i ritardi dei pagamenti comportano per le sole aziende artigiane un aggravio economico valutabile in 3 miliardi 650 milioni l’anno. E non si possono non sottolineare le ripercussioni che questa situazione ha per le casse pubbliche: come hanno appurato qualche anno fa gli ispettori della Ragioneria generale dello Stato, la sola sanità campana avrebbe sopportato un costo supplementare di 200 milioni l’anno.
Il bello è che la stessa domanda («Chi me lo fa fare?»), a quanto pare, se la sono posta pure gli imprenditori che aspettano ormai più di 200 giorni per vedere i denari. Si presuppone, dunque, che fra loro ci siano i moltissimi fornitori della sanità: i quali ci potrebbero mettere la firma, sotto un ritardo di 140 giorni. Per loro, tuttavia, c’è una difficoltà in più, soprattutto se il loro debitore è una Regione in dissesto che ha dovuto fare un piano di rientro del disavanzo sanitario. Perché queste non possono rilasciare una certificazione «normale», ma devono seguire una procedura diversa, che le imprese giudicano decisamente più complicata.
E intanto il debito cresce, e cresce. Tre anni fa, come detto, le stime parlavano di una settantina di miliardi. Cifra considerata esagerata dal Tesoro, che la ridimensionava a 30 miliardi: ritenendolo un problema non prioritario. Ma la stessa Banca d’Italia, nel 2009, valutava l’esposizione della pubblica amministrazione centrale e locale nei confronti di fornitori e ditte appaltanti in quattro punti di Prodotto interno lordo: oltre 63 miliardi di euro. I debiti del solo sistema sanitario ammontano a 30,7 miliardi di euro.