la Stampa 13/8/2012, 13 agosto 2012
“ABRUZZESI, SARDI, CALABRESI È STATA UN’IMPRESA ITALIANA”
Fin lassù, davanti al Monte Bianco, Ercole Paselli ci è arrivato seguendo i passi del padre. Il vecchio Paselli, classe 1908, gallerie ne aveva già costruite tante, in giro per l’Italia: era in Sardegna quando la Società italiana condotte gli disse di partire. Destinazione Courmayeur, a scavare un tunnel che arrivasse fino in Francia.
Ercole, nato nel 1940 a Marzabotto, aveva cominciato a lavorare con lui che non aveva ancora 16 anni: era diventato meccanico, stava «dentro», con i ventilatori che permettevano ai minatori di respirare dopo le «volate», le esplosioni che frantumavano la roccia. «Il problema – racconta - erano i gas di scarico: tutti i nostri macchinari erano a gasolio, e uscivamo neri in faccia anche per quello. Mica come i francesi, che avevano tutte macchine elettriche».
Emiliano come il padre, è arrivato tra i monti a 19 anni. Al tunnel ha lavorato fino a 25: in mezzo c’è stata tanta vita, dal servizio militare (con il permesso speciale per veder cadere l’ultima parete) al matrimonio con Gabriella. Lei, sabina, ricorda ancora il primo Natale passato nel cantiere: in mezzo alla neve, lontana da quei rassicuranti rituali domestici che poi ha ritrovato a Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, dove la coppia vive ancora oggi.
La strada dei ricordi è lastricata di dettagli. Il rumore continuo e i botti, le pietre che esplodevano per la pressione, la gara per arrivare prima dei francesi. L’attenzione era tale da portare a visitare il cantiere non solo politici, ma anche personaggi che sembravano irraggiungibili. «Era quasi come succedeva in guerra. Una volta è venuto anche Gianni Rivera. Prendevamo 200 mila lire al mese. Era una cifra importante: il lavoro era duro, ma si guadagnava bene. Quando ho iniziato a lavorare per le ferrovie, anni dopo, ne prendevo 80 mila».
La squadra rimase sempre la stessa: pochi andavano via, e il lavoro non mancava. Il colloquio di assunzione era molto breve: il capocantiere, Paselli senior, decideva se far lavorare qualcuno in base a come camminava su per la salita che portava al cantiere («Con quel passo lì, che cosa vuoi che possa fare per me?», diceva sempre).
«La mensa del cantiere - racconta Ercole - aveva gli operai da una parte e i capi dall’altra. E io, figlio del capo cantiere con mamma al seguito, per loro ero un privilegiato: mi portavano sempre via il panino, mi facevano un sacco di scherzi. Lì al tunnel sono arrivate le prime betoniere d’Italia: una volta, per scherzo, ne abbiamo azionata una mentre uno di noi era dentro per pulirla. Eravamo ragazzini».
Gli anni passati a rosicchiare il granito del Bianco sono un universo di storie: la calotta minacciosa, l’acqua gelida, il vino e la grappa («Era un lavoro che metteva sete»), fino alla valanga che cade sulle case dei minatori e ne uccide tre. Poi c’è il rapporto con quella terra di confine, quando sembrava che il tunnel non dovesse finire mai. Di valdostani, a scavare, ce n’erano pochi. Tanti venivano da Capistrello, piccolo borgo dell’Abruzzo dove era nata una generazione di minatori che aveva attraversato l’Italia e l’Europa. Poi c’erano i sardi e i calabresi. «Quando scendevamo in paese la sera, però, bevevamo insieme: ci chiamavano “terroni”, ma non suonava dispregiativo. Di amicizie ne sono nate tante, e di amori anche».