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 2012  agosto 13 Lunedì calendario

50 ANNI FA L’EUROPA SI RITROVÒ SOTTO IL BIANCO

C’ est sûr comme le tunnel du Mont Blanc». Sicuro come il tunnel del Monte Bianco. Si diceva così, a Courmayeur, quando si raccontava di qualcosa che viveva nell’incertezza: se ne parla, tanto, ma non si farà mai. Stando alle cronache, quando i primi responsabili della Società italiana per condotte d’acqua arrivarono in quell’ultimo angolo di Italia la gente non ci credeva.
Era tutto uno scambiarsi battute e colpi di gomito, sembrava l’ennesimo annuncio di un lavoro che non avrebbe mai trovato il suo compimento.

E invece, nel 1959, quel buco sacrilego scavato sotto il tetto d’Europa non si arrestò: sei anni di lavori, undicimila e seicento metri di perforazione ed ecco una galleria che unisce l’Italia e la Francia, Courmayeur e Chamonix, due mondi fisicamente separati che si cuciono con un’impresa desiderata da tempo, ma per molti irrealizzabile.

Gli ultimi metri di roccia cadono il 14 agosto 1962, cinquant’anni fa. La celebrazione formale, con tanto di autorità e bottiglie stappate, arriva solo un mese dopo: ma il «buco», quello che per la prima volta mischia l’aria valdostana con quella savoiarda, è completato d’estate. A quell’istante e a quell’impresa si dedicano adesso una giornata di studi e un libro, «Il traforo del Monte Bianco: un varco a Nord Ovest» (Silvana editoriale), che ha visto la luce nelle scorse settimane e che verrà presentato domani in un appuntamento pensato per raccontare un momento preciso: non quello dell’inaugurazione ufficiale e o dell’apertura al traffico, ma l’istante in cui dopo l’ultimo botto un operaio italiano e uno francese si abbracciano, tremila metri sotto la vetta.

L’accordo, alla fine degli Anni 50, è questo: ciascuna delle due compagnie, italiana e francese, deve scavare 5.800 metri, la metà. Appuntamento nel cuore della montagna, per quella che per l’epoca era la più lunga galleria stradale mai progettata. Stando agli accordi, i primi ad arrivare saranno i francesi.

«Par convention», dicono in una delle ultime riunioni: i responsabili italiani abbandonano il tavolo, dando appuntamento nel luogo stabilito, ma senza fissare date. Chi primo arriva aspetta. E i primi a completare la parte spettata sono proprio quelli che avevano iniziato a scavare da Courmayeur: i giornali francesi metteranno in dubbio la qualità dell’avanzata (la messa in sicurezza della galleria e l’ampiezza dello scavo, soprattutto), ma sono gli operai italiani a fermarsi ad aspettare i colleghi dall’altra parte.

Stando alle cronache, l’ultimo carotaggio viene fatto quando mancano ormai pochi metri: l’entusiasmo nasce quando per la prima volta si crea una corrente d’aria, in quel tunnel iniziato a scavare tre anni prima. Nel buco, un cilindro largo una spanna, passano bottiglie di vino: champagne e barbera, dolcetto e chardonnay. Se le scambiano gli operai, che sono i protagonisti della storia: non le autorità, ma quegli uomini che ogni giorno avevano scavato qualche metro di un’impresa il cui valore simbolico si sente vivo, ancora oggi.

«Prima ancora che un’infrastruttura - spiega Riccardo Piaggio, che ha curato il progetto editoriale e l’organizzazione delle celebrazioni - il tunnel sotto il Monte Bianco è la conquista di uno spazio, l’abbattimento di una frontiera. Più che al gesto tecnico, vogliamo rendere onore a quello che è stato possibile grazie allo spirito dei tempi di quell’epoca, a quell’opportunità colta di mettere in contatto due mondi. Per questo, insieme alla Fondazione Courmayeur, abbiamo creato una giornata di studi che ha il respiro del racconto e si concentra su un’idea precisa: quella della barriera che cade, di un limite che è sempre esistito e che, d’un tratto, non c’è più».

Ad aprire quel passaggio erano venuti da tutt’Italia, in quel periodo bulimico e contraddittorio tra gli Anni Cinquanta e i Sessanta. Gli operai nel cantiere italiano, nei periodi di massimo lavoro, erano più di 400: arrivavano dall’Abruzzo e dalla Sardegna, dall’Emilia e dalla Valtellina, per un lavoro che non conosceva interruzioni. I turni di otto ore diventarono forzati per le ultime centinaia di metri, quando si doveva capire quale dei due gruppi sarebbe arrivato per primo.

«Alla fine - racconta Giuseppe Giobellina, che ha curato il volume per conto della società che gestisce oggi la parte italiana del tunnel, parte del Gruppo Autostrade - i turni erano diventati di sei ore, ma venivano pagati come fossero di otto. E gli operai si davano il cambio a macchine accese, per non perdere un solo minuto di quella gara d’orgoglio».

Gli anni di lavoro sono stati complicati: prima la roccia difficile, poi l’incubo di quei fiumi d’acqua sotterranea che venivano incontrati d’improvviso, e sembravano non dover finire mai. Quindi gli incidenti e le valanghe, che tolsero la vita a sei persone. Ma alla fine, il simbolo rimane quell’abbraccio che finisce sulle copertine di tutti i giornali dell’epoca: due operai, uno italiano e uno francese, che si stringono dopo aver fatto la storia.

«Quello che venne dopo - spiega Giobellina - è solo un corollario, una conseguenza di quel momento. Era uno spazio nuovo che si apriva, un varco verso una dimensione mai esplorata. In qualche modo, quell’impresa riecheggiava l’epica della corsa allo Spazio, che dava all’impossibile una dimensione di realtà».

Tre anni dopo, nel 1965, il tunnel apriva alle automobili. Piccole e grandi, in fila per rendere quotidiano uno spazio che era stato epico. E per frantumare una barriera, la prima di tante, verso un’Europa sceglieva di appropriarsi della sua montagna più alta, per alleggerire il tratto che segnava la linea di confine.