Silvia Bizio, la Repubblica 13/8/2012, 13 agosto 2012
“LA REGOLA DEL THRILLER? NON FAR VEDERE SUBITO IL MOSTRO ASSASSINO”
LOS ANGELES – Lo squalo di Steven Spielberg, uscito nel 1975, è il film che più ha riscritto le regole di Hollywood: primo, non mostrare la creatura/ mostro se non a film inoltrato, far sentire la sua presenza e creare suspense fino a non poterne più. Dopodiché, ecco spuntare dall’acqua le enormi fauci che fanno sobbalzare lo spettatore. Secondo: gli studios di Hollywood, sull’onda del successo planetario de Lo squalo,
iniziarono la politica dei “summer blockbuster”, i filmoni estivi pop-corn, infarciti di azione, avventura ed effetti speciali, calamite per il pubblico di massa, soprattutto quello giovane. Terzo: la mistica del predatore, poi riciclata in tanti film d’azione. Il film è ambientato in una stazione balneare sulla costa atlantica Usa, dove un enorme squalo bianco fa strage di innocenti, ma il sindaco non vuole chiudere la spiaggia per paura di perdere business. Saranno il poliziotto Roy Scheider, il pescatore d’altura Robert Shaw e l’oceanografo Richard Dreyfuss ad affrontare il mostro. Un misto di Moby Dick e
Duel (il primo film di Spielberg) denso di tensione hitchcockiana con striature horror in stile La cosa.
Tratto dal romanzo di Peter Benchley, il copione venne scritto da Carl Gottlieb. Con cui abbiamo parlato, in occasione del lancio del film in blu-ray.
Mr. Gottlieb, una nuova generazione di spettatori potrà godersi Lo squalo in versione restaurata. Come nacque il film?
«Fu un’idea di Peter Benchley, che scrisse il romanzo (
Jaws), da cui poi adattammo il copione del film. Ho scritto un libro intitolato Il diario dello Squalo,
in cui racconto l’intera esperienza».
Si aspettava questo incredibile e duraturo successo?
«In realtà nessuno se lo aspettava. Per fortuna il regista era quel genio di Steven Spielberg. Anche se nessuno, allora, lo sapeva ancora! A parte l’assenza di telefoni cellulari e computer, il film avrebbe potuto essere ambientato l’anno scorso. Ma la cosa più importante è che i personaggi hanno un fascino universale. Il capo della polizia e la sua famiglia, il giovane oceanografo, il pescatore arrabbiato, il patetico sindaco, che commette un errore gravissimo di valutazione per salvare l’economia della sua piccola cittadina che si regge sul turismo balneare estivo. Poi c’è l’odiato squalo, il predatore ossessivo, una forza irresistibile. Mescola questi elementi, ed ecco Lo squalo».
Come fu lavorare con Spielberg?
«Eravamo giovani, non conoscevamo limiti. Personalmente fui impressionato dalla sua capacità di concentrazione sul lavoro, e dalla capacità di nascondere all’intera troupe le sue insicurezze. Aveva anche una conoscenza profonda della tecnica: poche persone della sua età (a quell’epoca aveva solo 28 anni) avevano il totale controllo su lenti, angoli, montaggio, struttura
narrativa».
Lei ha poi scritto due seguiti. Come ha escogitato le nuove trame?
«Sono fiero del lavoro fatto per Lo squalo 2,
che a suo tempo fu uno dei seguiti di maggior successo,
piacque molto al pubblico. Mi sono divertito, tutto qui».
Quanto quel film ha influenzato il suo lavoro successivo?
«Mi ha cambiato la vita, ovvio. Ma subito dopo, nel 1979, ho scritto una commedia di grande successo:
Lo straccione, con Steve Martin. La lezione appresa con
Lo squalo
è semplice: racconta una bella storia, non abbellire troppo, non divagare,
concentrati sui personaggi e sull’azione. È vero per la commedia come per l’azione. Facile a dire, difficile da mettere in pratica, soprattutto oggi».
Come nasce un’idea, e come si sviluppa?
«Le idee vengono dove meno te le aspetti: una notizia, una cosa buffa, un evento storico. Esprimerle è molto più difficile. Scrivere è come camminare in
circolo intorno alla tastiera fino a che non c’è più una via di fuga: allora ti siedi e scrivi. Per me è fondamentale delineare un abbozzo di trama prima di cominciare a scrivere la storia. L’abbozzo è la mappa, necessaria per sapere dove stai andando quando cominci il tuo viaggio».
Cosa pensa dei film di Hollywood
di oggi?
«Non molto. Troppi prequel, sequel, re-boot, adattamenti da fumetti, troppa imitazione e cavolate posticce. I grossi film scemi fanno un sacco di soldi, e lasciano poco spazio per realizzare film più piccoli ma buoni. I giovani li guardano su smartphone o tablet e non hanno idea di cosa sia il cinema di qualità. Oggi sogno di girare un film sui pirati vecchio stampo».