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 2012  agosto 13 Lunedì calendario

QUANDO FU UCCISA LA LUNA

Si presenta come un giallo: ma è un appassionante libro di storia quello che tre storici della scienza hanno dedicato al telescopio di Galileo, alla sua costruzione e alle scoperte che ne nacquero (Massimo Bucciantini, Michele Camerota, Franco Giudice,
Il telescopio di Galileo. Una storia europea,
Einaudi).
Un giallo, si è detto: perché quello che accadde allora fu l’uccisione del cielo, così come lo si contemplava e si credeva di conoscerlo da millenni.
Vittima primaria, la luna: dalla falce lucida e splendente, partecipe della perfezione dei corpi celesti a quella roccia bucherellata che un geniale pittore toscano, il Cigoli, ebbe l’impudenza di mettere sotto i piedi della sua Madonna Assunta nella cappella Borghese di Santa Maria Maggiore, a Roma. Ma ben più grave e intollerabile delitto fu l’aver portato dati sperimentali a dimostrare l’errore di un’umanità che si credeva al centro dell’universo e si vedeva all’improvviso sbalzata dal suo
trono, espulsa dal guscio di un mondo chiuso e scaraventata nell’universo infinito. A secoli di distanza, abbiamo elaborato il lutto della perdita, tanto da immaginare un altro spazio, altri mondi, cercando di studiarli e provando a conquistarli, persino, fino ad arrivare alle spedizioni di oggi, con Curiosity
su Marte.
Ma questo ha coperto di un velo di ovvietà quel che accadde allora: e ci si appassiona (sempre meno) solo alle stanche puntate della “querelle” sul processo dell’Inquisizione a Galileo. Questo libro racconta la storia senza gravarla del senno del poi: un merito raro. Qui la maggior crisi della coscienza
moderna ha trovato chi l’ha saputa ricostruire adeguatamente, indagando risvolti finora trascurati con dati nuovi e con uso nuovo del già noto. Fu, dice il titolo, una storia europea: e tutta l’Europa è percorsa e per così dire scoperta in un viaggio affollato di incontri. Si parte da Middelburg
nella Zelanda, dove un occhialaio, Hans Lipperhey, ha l’idea di mettere in successione in un tubo due lenti, una concava e una convessa: è nato il cannocchiale. Sono tempi di guerre, si prepara la più grande di tutte, quella dei trent’anni: il cannocchiale appena nato viene puntato sulle fortificazioni dei nemici, come mostra un dipinto di Jan Brueghel il Vecchio (l’uso sapiente dell’iconografia è uno dei segreti di questo libro). La notizia circola rapidamente, tocca Parigi e Londra e approda a Venezia. Qui sveglia la curiosità di due amici, Galileo Galilei e fra Paolo Sarpi. I due coltivano studi di ottica e pensano al cielo più che alla terra. È in quella direzione che Galileo punterà per notti e notti di quell’inverno del 1610 lo strumento che intanto si è fabbricato: un cannocchiale ben più potente di quello dell’oscuro Lipperhey, uno strumento che sarà il suo vanto e il motivo di una improvvisa celebrità. Come ci riesce, mescolando
abilità artigianale, scienza e inventiva, è uno dei capitoli più nuovi e divertenti del libro. Nel puntarlo verso il cielo notturno ha in mente una ipotesi avventurosissima, avanzata da un matematico polacco, Copernico, e ampliata e radicalizzata da un monaco eretico che ne aveva pagato il fio su di un rogo
a Campo dei Fiori nel 1600. E già il 7 gennaio 1610 ha trovato la prova che la luna è «aspra et ineguale», in tutto simile «ai monti et alle valli che nella terrestre superficie sono sparse». Altre seguiranno. Le annuncia al mondo dal marzo di quell’anno un libro che di questo libro è il vero protagonista, il
Si-
dereus Nuncius.
Il messaggero delle stelle corre per tutta Europa. E subito divampano gelosia e malanimo, esito inevitabile della vera creatività nel mondo dei dotti o presunti tali. L’approvazione di un grande scienziato, Keplero, tanto generosa quanto isolata, non basterà a tacitarli. Toccherà all’autore viaggiare, persuadere, conquistarsi protettori potenti. La partita è difficilissima ma l’uomo è abile: non per niente ai satelliti di Giove che ha scoperto ha dato il nome di “pianeti Medicei”. Intanto c’è un colpo di scena: Sarpi tace e scompare. Perché? Nessuno se lo era chiesto. È uno dei meriti di questo libro averlo fatto usando coraggiosamente quello che distingue lo storico vero dal piatto cronista: l’immaginazione, il fiuto che segue l’odore della carne umana, lo scandaglio gettato nei silenzi delle fonti. Fu Galileo a sciogliere il rapporto con Sarpi? O fu Sarpi a lasciar cadere un legame che certamente lo aveva preso molto? Un fatto è certo: la svolta coincise con la scelta di Galileo di lasciare Venezia e di farsi strada col suo cannocchiale in una Toscana granducale legata a doppio filo alla Roma papale e alla Controriforma cattolica.
A Roma si gioca la partita decisiva nella primavera del 1611. L’accoglienza trionfale al Collegio Romano convince Galileo di avere vinto. Si inganna. Il dovere dei gesuiti è quello di difendere un mondo tolemaico e aristotelico. Come possono accettare la verità del modello copernicano dell’universo rinunciando a lasciarla nell’empireo inoffensivo delle ipotesi? Optarono rapidamente per un compromesso che lasciava intatta la sostanza del modello tradizionale: i pianeti potevano girare intorno al sole, l’importante era che il Sole girasse intorno alla Terra. E mentre Galileo si illudeva di avercela fatta, al Sant’Uffizio qualcuno decise di riaprire l’incartamento del processo contro il filosofo Cesare Cremonini per cercarvi un nome: il suo. Il sospetto fece il suo corso, come sappiamo. Cominciò un’altra storia, di sospetti, di accuse, di processi. Era anche così che procedeva nel suo cammino la più grande rivoluzione mentale del mondo moderno. Una rivoluzione che intanto usciva dai confini europei: merito, imprevedibilmente, di un altro gesuita, il portoghese Manuel Dias che nel 1615 a Pechino stampò il suo
Tian wen lüe.
Qui si parlava delle scoperte di «un celebre studioso occidentale». Ancora pochi anni e il nome cinese di quello studioso – Chiali- lé-o – cominciava da Pechino il suo lungo viaggio nel mondo.