Maurizio Ferrara, Corriere della Sera 13/8/2012, 13 agosto 2012
SE QUESTO NON È UN PAESE PER L’INDUSTRIA
A gli inizi degli anni Settanta, in vista dell’espansione degli stabilimenti di Taranto, la vecchia Italsider chiese ad uno dei maggiori paesaggisti italiani, Pietro Porcinai, di trovare una soluzione «naturale» al problema delle polveri inquinanti. Porcinai propose un sistema di colline frangivento, già sperimentato in Germania nella Ruhr. Non se ne fece nulla e non sappiamo se il progetto sarebbe stato davvero efficace.
Certo è, però, che gli altiforni dell’Ilva continuano a riversare le loro venefiche polveri sulla città e i suoi abitanti.
Produrre acciaio in modo ecosostenibile è oggi una sfida enorme dal punto di vista tecnologico ed economico. Cina, India, Russia, Ucraina producono senza standard ambientali e per le aziende europee è diventato sempre più difficile resistere alla loro concorrenza. Secondo gli esperti, per l’Europa rinunciare all’acciaio sarebbe tuttavia un errore. Il settore può conservare buoni margini di competitività, a patto di mettersi a «correre» e trasformare i vincoli ambientali in stimolo all’innovazione. In altri Paesi ciò sta avvenendo. A Taranto, purtroppo, la corsa non è mai iniziata. Tutti i protagonisti della vicenda Ilva sono rimasti fermi per anni, assecondando una spirale di declino competitivo e degrado ecologico. L’intervento della magistratura ha squarciato il velo dell’irresponsabilità ambientale. Ma non è pensabile superare la crisi chiudendo con una sentenza uno dei più importanti insediamenti industriali del Mezzogiorno, lasciando a casa migliaia di lavoratori.
Per molti aspetti l’Ilva è la punta di un grosso iceberg: quello del ristagno di un sistema industriale che potrebbe ancora essere avanguardia nel mondo e che invece continua a perdere terreno, suscitando sorpresa fra i nostri partner stranieri. Un recente servizio del New York Times ha ben riassunto i principali fattori di questo ristagno. L’inadeguatezza del sistema politico, innanzitutto, drammaticamente incapace di rinnovarsi, di rispondere alle nuove sfide del sistema-Paese e per giunta tenuto sotto scacco da un elettorato monopolizzato da insider, gelosi delle proprie acquisizioni e privilegi. Una burocrazia orientata a proibire più che a promuovere, a imbrigliare più che a facilitare, percepita come minaccia dagli investitori stranieri. Un mercato del lavoro ancora molto rigido, che spinge i giovani di talento ad andarsene, senza essere sostituiti da immigrati qualificati, i quali sono poco interessati a un Paese che non offre chance di mobilità ascendente. E per finire una classe imprenditoriale timida, sospettosa «di chiunque non faccia parte della famiglia», con una bassa propensione al rischio. La cornice entro cui opera la seconda manifattura d’Europa è definita dal quotidiano americano come «antiquata e pittoresca»: un’espressione solo apparentemente benevola, che tradisce una valutazione molto critica e una buona dose di Schadenfreude, di piacere per le disgrazie altrui.
L’emergenza Ilva va risolta subito, con ragionevolezza e responsabilità da parte di tutti: i sigilli della magistratura non sono una soluzione. Il campanello d’allarme di questo agosto infuocato riguarda però un po’ tutta l’industria italiana. Come ha riconosciuto lo stesso ministro del Lavoro, l’autunno sarà duro. I tavoli di crisi sono tanti, altri probabilmente si apriranno. È facilmente prevedibile (e comprensibile) che si parlerà soprattutto di ammortizzatori sociali. In cima all’agenda dovrebbe però esserci anche un altro tema: quali cambiamenti sono necessari perché l’industria italiana torni a correre? E quali per attrarre investimenti e talenti stranieri, che oggi si tengono ben lontani dal nostro Paese? Speriamo che, a fine mese, le schede che Mario Monti ha chiesto ai suoi ministri contengano riposte concrete: non possiamo davvero più permetterci di essere né antiquati né pittoreschi.