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 2012  agosto 13 Lunedì calendario

IL POST FUTURISTA

Futurologi arrivano a una certa età e si accorgono, all’improvviso, della loro mortalità. Lo ammette anche William Gibson: «Quando i giovani mi chiedono consigli non so mai cosa dire: non sono così aggiornato». Gibson ha debuttato nel 1984 con Neuromante, che lo ha fatto diventare una delle voci più influenti della fantascienza. Ma anche lui ha subito i suoi rifiuti: in questa intervista racconta del manoscritto (di Johnny Mnemonic) e della sceneggiatura (perAlien 3) che gli sono stati cestinati, di come ha causato una crisi diplomatica con Singapore e del perché è passato dal collezionare orologi rari a twittare come un disperato. E ricorda anche quella volta che a Beverly Hills fu scambiato per Mel Gibson… Ha immaginato cowboy muoversi attraverso praterie virtuali. William Gibson, 64 anni, è comunemente considerato il papa del cyberpunk. È, insomma, una delle icone del mondo Wired.
Il tuo nuovo libro (non ancora uscito in Italia, ndr) si chiama Distrust That Particular Flavor. Cosa significa questo titolo?
«È una frase presa dal mio saggio Time Machine Cuba. Le parole "particular flavor", gusto particolare, si riferiscono a quello stato d’animo, tipico di certi visionari, da immediata post apocalisse, roba tipo: "II mondo sta finendo ora, quindi ascoltatemi". Mi è venuta pensando a H.G. Welis (il celebre autore britannico che scrisse La guerra dei mondi e L’uomo invisibile, ndr), uno che ha toccato quel tasto in modo particolarmente evidente. È il genere di cosa che mi balza all’occhio quando leggo scrittori di fantascienza, perché di solito è un brutto segno. I futurologi arrivano a una certa età e tutto a un tratto riconoscono la loro mortalità. Spesso decidono che quello che sta accadendo è tutto incasinato, mentre nella loro gioventù sembrava tutto migliore. È un’attitudine antica e in qualche modo universale. Credo che anche gli antichi greci lo facessero. Si sa: "Tutto quello che è andato, è andato. Questi giovani sono incapaci di produrre arte, jeans o qualsiasi altra cosa". È un luogo comune così radicato... Ma tendo a pensare che non sia mai stato vero. Ho sempre diffidato di tutte queste "età dell’oro"».
Il libro apre con una foto del giovane William Gibson. Quando è stata fatta quella foto, e perché hai deciso di includerla nel libro?
«Dovrebbe essere stata scattata nei tardi anni ’80 o a inizio anni ’90. Mi è piaciuta perché era emblematica del fatto che anche bellissime donne possono sposare uomini che assomigliano ai grotteschi personaggi di Dr. Seuss (il fumettista americano che ha inventato Il Grinch, ndr)».
Hai scritto molti articoli per Wired. Come hai iniziato a collaborare con la rivista?
«Ho conosciuto Kevin Kelly al Global Business Network, poi Kevin e gli altri hanno aperto Wired. All’inizio era un prodotto indie un po’ fuori di testa. Non ricordo bene, ma sono sicuro che Kevin mi abbia chiamato. Era divertente lavorare per loro perché non avevano alle spalle un grande editore, quindi consigliavano cose pazzesche a lettori improbabili...».
Il mondo dei media è cambiato molto da quando hai esordito. Se dovessi iniziare a lavorare oggi, pensi che useresti strumenti come i podcast, YouTube o i webcomics?
«Quando i giovani mi chiedono consigli non so mai cosa dire, perché non sono cosi aggiornato sulle novità. Quando ho iniziato sapevo più o meno cosa era possibile fare con quello che c’era a disposizione. Oggi no. È uno dei motivi per cui gli scrittori affermati da un po’ di tempo non possono dare molti consigli ai colleghi più giovani. Le cose sono troppo cambiate».
A proposito dei tuoi lavori iniziali: hai avuto subito successo, o hai dovuto subire molti rifiuti prima di cominciare a vendere?
«Ho scritto la mia prima storia durante una lezione di critica alla fantascienza. Quando gli altri l’hanno letta mi hanno praticamente obbligato a inviarla a qualche editore. L’ho girata alla rivista più piccola che conoscevo, ed è stata subito acquistata. La storia era Frammenti di una rosa olografica ed è stata pubblicata da un piccolo giornale chiamato Unearth (in Italia è compresa nella raccolta la notte che bruciammo Chrome, ndr). La rivista accettava solo storie di esordienti, quindi la seconda volta che ho spedito un racconto mi fu cestinato. Era una prima versione di quello che poi sarebbe diventato Johnny Mnemonic (racconto da cui, nel 1995, è stato anche tratto un film con Keanu Reeves, ndr). Subire il rifiuto fu scoraggiante: per un po’ non ho più scritto. Poi un mio amico, molto più aggressivo e ambizioso di me, se ne andò a New York a fare pressioni alla casa editrice Omni. Mi disse che pagavano molto bene e che ero uno stupido a non presentarmi. L’idea di scrivere per un mercato più grande, però, mi metteva molta ansia: riscrivevo le storie più e più volte. Comprarono il racconto. Praticamente passai da una rivista che pagava circa 27 dollari a una casa editrice che ne pagava 2700 per una storia della stessa lunghezza. Per cui ho fatto di tutto per restare in quel mercato. Ho comprato per mia moglie un televisore e per me un biglietto aereo. Destinazione New York, per incontrare le persone che mi firmavano quegli assegni. Si è dimostrato un buon investimento. Dopo questo episodio credo che i miei testi fantascientifici non siano stati mai più cestinati. Omni pagava così tanto, rispetto a tutte le altre case editrici, che non mi è mai venuta voglia di cambiare».
Anni fa, sulle pagine di Wired, hai definito Singapore una "Disneyland con la pena di morte" e da quelle parti non l’hanno presa per niente bene. Venne fuori un casino... È capitato altre volte che qualcuno si arrabbiasse per quello che hai scritto?
«No, quella è stata l’unica volta che le mie parole hanno causato una lamentela formale all’editore da parte di un governo nazionale... E una censura della rivista per un po’ di tempo!».
Pare che uno dei tuoi hobby sia collezionare orologi antichi comprati su eBay. Che razza di passione è?
«Già, la questione degli orologi... Alla fine ho capito che era tanto per possedere un oggetto non necessario, ma con un qualcosa di esoterico. Il punto non era accumularne un gran numero, ma entrare in un universo oscuro. Attraverso questa passione ho incontrato persone straordinariamente strane. Gente che se ne usciva con frasi tipo: "Be’ ho questo orologio raro a cui manca un piccolissimo pezzo, dove lo posso trovare?". Al che un altro tizio iniziava a fissare il vuoto, poi recitava un indirizzo al Cairo, spiegando: "Devi andare nella stanza sul retro. Il nome del tizio è Alii: non vende, ma lo scambierebbe sicuramente se tu avessi questo o quest’altro pezzo". E non stava dicendo cazzate. Era una specie di universo magico. Molto divertente. Però arrivati a un certo punto... Il viaggio era finito. Forse un giorno userò quelle esperienze per un libro».
Hai scritto un copione per Alien 3, che però non è mai stato usato. Cosa pensi della piega che ha preso la serie? Andrai a vedere Prometheus quando uscirà?
«Oddio, forse. Non so. Lo confesso: non ho mai visto Alien 3 (ride, ndr). Ho visto i primi due. Comunque sono sempre curioso di vedere cosa fa Ridley Scott. Sono più interessato al lavoro di Ridley che alla saga di Alien in generale».
Quando sento un aneddoto divertente che ti riguarda non sono mai sicuro che sia successo veramente. È vera la storia di tè che entri in un albergo dicendo: "Salve, sono Mr. Gibson" e tutti restano perplessi?
«Si. Era il Beverly Hills Hotel, ero andato lì mentre lavoravo alla sceneggiatura di Alien 3. Credo che qualcuno avesse fatto per me tutta la parte burocratica di prenotazione della stanza. Quindi arrivo lì e mi accorgo che tutti sono scontrosi. Non capivo cosa stesse succedendo. Quelli della reception avevano un’aria sbalordita e molto contrariata. Il fattorino mi porta in una suite molto lussuosa, entro e c’è un tavolo con vini, liquori, fiori e un biglietto: "II Beverly Hills Hotel è lieto di dare il benvenuto a Mel Gibson". Ops!».
Recentemente hai scritto qualche altro articolo che consigli?
«No, l’unica cosa che faccio ultimamente è twittare. Potete trovarmi cercando Faccount @GreatDismal. Io ci sarò».
Ma un paio di anni fa un tuo racconto è stato pubblicato nell’antologia Darwin’sBastards, giusto?
«Sì, è vero. E sai, spererei che qualcuno lo ristampasse, perché mi è piaciuto molto. Era da tipo vent’anni che non scrivevo un racconto. È molto diverso da tutti quelli che ho fatto prima. È dentro un’antologia canadese, una bella antologia, ma non mi sembra che sia andata molto lontana».
Di cosa parla la storia?
«Si chiama Dougal Discarnate. Parla di un tizio che si droga a Vancouver, in un dormitorio hippie, tra tardi anni ’60 e inizio anni ’70. Dopo una bella botta si separa dal suo corpo e non riesce più a tornarci. Nel frattempo la sua metà terrena è curata in un ospedale. Una volta ripresa conoscenza diventa un agente di Borsa o un venditore di immobili».
E lo spirito che fine fa?
«E lo spirito senza corpo resta a infestare un quartiere di Vancouver, che per un misterioso motivo non riesce a lasciare. C’è una sorta di barriera invisibile che glielo impedisce. Io sono un personaggio della storia, scopro questo tizio senza corpo e ci faccio amicizia, portandolo al cinema eccetera. Diventa mio amico. Comunque il resto della storia è su come viene salvato e finisce pure che si sposa e va a vivere (più o meno) felicemente a Okinawa. Ok, è un po’ uno spoiler, ma puoi scriverlo lo stesso nel pezzo. Forse incoraggerà qualcuno a comprare Darwin’sBastards».