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 2012  agosto 08 Mercoledì calendario

NON È UN LIETO FINE


Dice che le interviste di Vanity Fair cominciano quasi tutte in questo modo: «Lei arriva un po’ in ritardo, è vestita così e cosà, si siede e bla bla bla».
Le sue, in realtà, non cominciano così. Non cominciava così – e come avrebbe potuto – quella di due anni fa in cui, a tre mesi dalla morte di Pietro Taricone, spiegava «per la prima e l’ultima volta » la fatica quotidiana di andare avanti senza di lui, il padre di sua figlia. Ma non comincia così neppure questa. Perché Kasia arriva (puntuale) e quasi subito mi racconta di una bambina polacca che passa i pomeriggi – lei unica femmina, e pure piccola – appresso «come una palla al piede» a un gruppo di maschi che giocano alla guerra.
Un grande classico dell’infanzia con, in questo caso, una differenza: che gli amici maschi sono figli di militari, vivono in una base, e alla guerra ci giocano con le armi vere. Niente «bla bla bla» neanche questa volta, dunque: perché quella bambina racconta Kasia Smutniak mille volte meglio del vestito che indossa in questo caldissimo giorno d’estate.
«Non dovevamo immaginarci il carro armato o l’aereo: c’erano. Li avevano messi lì come obiettivi delle esercitazioni e noi ci passavamo le ore. Un gioco poteva durare delle settimane, non mi annoiavo mai. E se mi annoiavo mi inventavo qualcosa di nuovo. Un fazzoletto poteva diventare una bambola: le bambole vere sono arrivate dopo, quando quasi non avevo più l’età per giocarci. La noia è bella perché accende la fantasia. So ancora fare di un fazzoletto una bambola, lo faccio per mia figlia Sophie, per i suoi amici. Rimangono a bocca aperta. Anche i loro genitori, a dire la verità. Abituati come siamo a dare a questi bambini cose e ancora cose».
Con i compagni di guerra, siete rimasti amici?
«Ogni tanto qualcuno del gruppo faceva le valigie e partiva: papà era stato trasferito altrove. Non ho mai sofferto di questi addii, prima o poi mi sarei spostata anche io, e ci saremmo ritrovati: lo sapevo, lo sapevamo tutti. Sono cresciuta così, senza una vera radice che mi legasse a un posto, senza poter dire: lei è la mia amica d’infanzia, perché la mia infanzia è tutta sparpagliata qua e là. Mi sento, ancora adesso, straniera dappertutto, anche qui, con questo nome che mi ritrovo – ho sempre molta tenerezza per quelli che mi chiamano dai call center: “È la signora smu... smutz...?” – ma essere apolide non è una condizione che mi fa soffrire, anzi mi dà un grande senso di libertà. Io posso mettermi in macchina adesso e guidare per 500 chilometri senza fermarmi, senza annoiarmi. Posso andare in moto, scalare una parete, volare sopra le onde».
La maggior parte delle foto che le rubano, infatti, la ritraggono così: a penzoloni su un dirupo, tra i marosi, roba forte.
«Lo so, e penso si sia creato una specie di equivoco secondo cui io adesso farei questa vita folle e adrenalinica, ma la verità è che io l’ho sempre fatta, sempre. Solo che prima non mi fotografavano. Non sto mai ferma, anche se mi piace avere un posto che mi aspetta. Lo è la mia casa, dove mi sono molto impegnata da subito per mettere radici. Ho fatto anche quelle classiche cose tipo comprare una quantità di cornici per le foto. Ma, siccome sono pigra, non ho mai sostituito le finte foto che c’erano quando me le hanno vendute: così, al momento, nella mia camera da letto c’è una famiglia di sconosciuti che mi guarda da dentro le cornici».
Non ce l’ha mai un po’ di paura?
«Certo. Per esempio ho paura di questa intervista, quando la rileggerò penserò – come è successo l’altra volta – che mi sono aperta troppo. Da quando Pietro non c’è più, però, ho meno paura di prima. Ho affrontato una cosa talmente grande che ormai il resto mi sembra tutto piccolo. Tranne una cosa, Sophie. A parte mia figlia e le interviste, del resto non mi spaventa niente. Ho l’ansia di vivere e vorrei provare tutto».
Che cosa non ha fatto che vorrebbe fare?
«Madre santa! Niente ho fatto, tutto c’è da fare. Che cosa vorrei fare? Vorrei camminare su un filo teso tra due palazzi. Vorrei dedicare tutta la vita a fare solo la funambola e averne altre mille, di vite di riserva, per provare altro. Vorrei fare lo scienziato, vivere nel deserto, entrare in un sommergibile».
Domenico Procacci, il suo compagno, sembra seguirla volentieri in questo turbine di attività. Vi siete trovati?
«Le persone non le convinci mai a fare qualcosa che non volessero già fare. Nella vita ci si trova, con gli stessi gusti e le stesse passioni. La cosa più bella dello stare insieme è condividere, raccontarsi. Si può fare anche tutto da soli, ma non è la stessa cosa».
Le dispiace parlare di voi?
«Mi dispiace che si facciano delle semplificazioni, che si tirino conclusioni, che si voglia vedere sempre e a tutti i costi l’happy end. Ci sono già passata. Di me, due mesi dopo la morte di Pietro, si diceva: “Adesso sta bene”, solo perché mi avevano fatto una foto in cui tiravo un sorriso. E poi la gente, che non ti conosce, giudica. Per tante persone che, quando Pietro è morto, mi hanno scritto lettere bellissime e piene d’amore, raccontandomi le loro sofferenze, condividendole con me, ce ne sono state anche altre che mi hanno avvicinato e detto cose brutte. Io devo proteggermi – me, Domenico, mia figlia, la famiglia di Pietro che è la mia famiglia – da queste persone che pensano che la vita sia qualcosa di non vero, un telefilm. Siccome mi vedono al cinema o sui giornali, forse pensano che io sia finta, che viva in un mondo magico in cui, se il cane fa la cacca per terra, io non pulisco. Perché se invece sapessero che sono vera, nessuno potrebbe scrivere che io, a due mesi dalla morte del mio compagno, rido e sto bene».
Ha sofferto molto per queste cose?
«Un po’, anche se devo dire che i giornali hanno sempre avuto delicatezza con me. Ogni tanto si inventano cose incredibili, ma pazienza».
Adesso dicono che vi sposate e fate un figlio.
«Questa è una stronzata».
Il matrimonio è un’idea che potrebbe considerare, nella vita?
«Certo. Ma non quando lo decidono i giornali».
Ed essere di nuovo mamma, le piacerebbe?
«Sì. Non adesso, però. Ho fatto Sophie a 24 anni, la prima di tutte le mie amiche. Poi mi sono vissuta le loro gravidanze. Le prime e anche le seconde. Adesso sono tutte lì con i secondi figli piccoli e io invece, finalmente, fuori dall’incubo. Sono traumatizzata dai figli degli altri. Io voglio tranquillità nella mia vita. Poi un giorno sì che lo farò, perché io sono figlia unica ed è una vita di grande responsabilità: tutto pesa su di te e ti senti veramente sola. Ma con i figli tutto puoi fare fuorché programmarli».
È stato difficile amare di nuovo, dopo che Pietro non c’è più stato?
«È un lavoro quotidiano. Tenere insieme il ricordo e l’amore di chi c’era con quello per chi c’è. Certi giorni viene meglio, certi giorni è più difficile. Rimane tutto del passato, ma la vita apre spiragli in cui le cose entrano e ti danno la forza di andare avanti. Non è un lavoro solo mio, ma anche di Domenico e di Sophie. È un grande sforzo che ha i suoi lati difficili e anche quelli belli, naturalmente. È un flusso, non un lieto fine».
Il lieto fine si giudica solo, appunto, alla fine. Ha paura di diventare vecchia?
«Della perdita della bellezza – che per il mio lavoro qualche volta è anche un problema – non me ne frega niente. Ho paura – questo sì – che il corpo mi tradisca e non mi permetta più di fare le cose. Forse per questo voglio fare tutto adesso».
A parte fare la funambola, il progetto che ha in questo momento qual è?
«Sono contenta dei due film che ho finito di girare (Tutti contro tutti, una commedia diretta da Rolando Ravello, in uscita l’anno prossimo, e una fiction su Domenico Modugno con Beppe Fiorello in cui lei interpreta la moglie di Modugno, Franca Gandolfi, ndr). E dopo che avrò fatto la madrina alla Mostra di Venezia, mi dedicherò completamente a realizzare un sogno che è già sulla buona strada: un progetto di aiuto in Nepal. Ho scelto quel posto perché è stato speciale per me e Pietro. È il primo viaggio che abbiamo fatto insieme».
Era un buon viaggiatore, uno che prende e parte come lei?
«Ha viaggiato tanto, ma non era un buon viaggiatore, lui era tutto casa. Albero, casa, radici. Casa. Casa. Famiglia. Noi».

Silvia Nucini