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 2012  agosto 08 Mercoledì calendario

Era una signora borghese per bene, parlava con garbo, con competenza del suo lavoro; gesti, voce, tratto erano quelli educati della classe media di Milano, restia ad alzare la voce, a esibirsi

Era una signora borghese per bene, parlava con garbo, con competenza del suo lavoro; gesti, voce, tratto erano quelli educati della classe media di Milano, restia ad alzare la voce, a esibirsi. Il paradosso straordinario della grande giornalista di moda Anna Piaggi, per anni colonna di «Vogue», scomparsa ieri a 81 anni di età, era la scissione tra arte e vita, tra ciò che creava, e ciò che era. Perché quella stessa signora che misurava le parole e viveva in una casa gaddiana signorile e vecchiotta, quella stessa signora vestiva però in maniera inconcepibilmente vistosa, surreale, «impossibile», e ogni volta che usciva di casa, la gente restava imbambolata a guardarla. Anna Piaggi usava se stessa per le sue invenzioni estetiche, per le sue esplorazioni vestimentali, e nulla era più sconcertante del contrasto tra l’opera e l’autore, riassunti nella stessa persona. Il paragone con Carlo Emilio Gadda, per Anna Piaggi, regge benissimo, al di là dell’analogia tra le case dei due, ombrose, piene di vecchi mobili. Discreta nella vita come l’Ingegnere, come lui è stata barocca e spregiudicata nell’estro. Incurante di codici stabiliti, Anna ne inventava continuamente di nuovi, accostando sul proprio corpo «pezzi» d’abbigliamento all’apparenza incongrui, un abito da marinaio anni Trenta portato con in testa una parrucca femminile del Settecento, una gonna di tweed con una cotta di maglia quattrocentesca (Anna, che fu la prima a adottare e lanciare il «vintage», era rigorosa sull’autenticità, e percorreva chilometri di mercati e mercatini per rintracciarla). Nel 1986 Anna Piaggi scrisse un libro, «Anna-Cronique, un diario di moda». Le illustrazioni, sketch delle performance vestimentarie dell’autrice, erano dovute alla matita di Karl Lagerfeld, devoto e costante ammiratore. Dopo un inizio precario («Traducevo libri gialli - mi raccontò - e m’arrangiavo con molti mestieri. Ho fatto perfino la telefonista, e l’impiegata in una raffineria di petrolio»), Anna trovò un lavoro a «Grazia» e infilò la strada che, di giornale in giornale, l’avrebbe infine portata a «Vogue», dove arrivò nel 1968, l’anno ideale perché la sua fantasia scatenata e intemerata potesse esplodere dalle pagine. Nel frattempo si era sposata col fotografo Alfa Castaldi, e i due formarono per molti anni una coppia eminente nella Milano che s’avviava a diventare - e divenne - una capitale della moda (Alfa morirà nel 1995). E pensare che all’inizio degli anni Cinquanta, quando esordisce nel lavoro, Anna, viso tondo, gran naso, capelli sulle spalle, vestiva in gonna e camicetta! «Nessuno era preparato all’Anna Piaggi di là da venire - mi disse -. Nemmeno io, probabilmente».