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 2012  agosto 06 Lunedì calendario

HA MAI PROVATO A SENTIRE IL BATTITO DI UNA “A”?


Intervistarlo è come tirare freccette su un bersaglio, però bendati. Al Festival Collisioni di Barolo, nelle Langhe, pendono dalle sue labbra a migliaia: incontrare Don DeLillo faccia a faccia, qualche manciata di minuti più tardi, è un privilegio raro. A 75 anni, «lo sciamano capo della scuola paranoide americana» (così lo definì il New York Times) si diverte a distillare concentrati di saggezza mixati a nonsense. È leggenda il cartellino prestampato che anni fa si era appuntato alla giacca, con cui andava in giro per scoraggiare gli interlocutori potenziali: «I don’t want to talk about this» («Non voglio parlare di questo»); oggi si è un po’ addomesticato, ma continua a detestare le fotografie e gli «eccessivi contatti umani». In ogni caso dice solo quel che vuole e quando vuole. Ripensando al suo debutto da romanziere ha un sussulto e all’improvviso racconta: «Avevo le storie in testa, ma mi mancava l’ambizione. Mi ci è voluto un po’ a diventare uno scrittore serio. Quando ho cominciato, negli anni 70, ero frenetico e convulso: scrivevo la sera tardi o al pomeriggio, senza criterio. Nelle umide notti d’estate mi sedevo per lavorare, poi mi lasciavo distrarre dalle falene. Le uccidevo: non per mangiarle, ma perché il loro ronzio mi faceva impazzire». L’enigmatico scrittore cult di almeno un paio di generazioni spinge l’angolo sinistro della bocca di qualche millimetro verso l’alto: scrutandolo capisco che il suo è un sorriso in embrione. «Sono stato definito acuto e visionario, dunque spesso mi chiedono come sarà il futuro dell’umanità. In una giornata calda come quella di oggi, però, esito ad affrontare il tema dell’estinzione».
Di che cosa vorrebbe parlare, allora?
Mi affascina riflettere sul senso del tempo. E di come abbia subito una sorta di accelerazione a causa del denaro. In altre parole: il tempo scorre più veloce se lo osservi attraverso il filtro del denaro che guadagni, che perdi, o che semplicemente utilizzi per vivere.
In Cosmopolis, manifestanti indignati contro la «finanza pescecane» usano, per provocazione, «il topo come unità monetaria».
Proprio così. Fantapolitica, ma fino a un certo punto. In tutto il romanzo, di fatto, è il denaro a creare il tempo. Per questo motivo il protagonista, il milionario Eric Packer, vive tutta la sua vita in un giorno. Il che lo distrugge.
Una storia complessa da portare sullo schermo, però David Cronenberg l’ha fatto ugualmente. Che ne pensa?
Cronenberg ama le sfide e detesta i compromessi: il risultato mi ha davvero colpito, specie considerando che gran parte della storia si svolge all’interno di una limousine. E sul finale, i 22 minuti di lotta verbale e psicologica tra Robert Pattinson e Paul Giamatti, rispettivamente il milionario e lo stalker che lo perseguita, sono folgoranti: come un cortometraggio all’interno del film.
Le piacerebbe portare al cinema un altro dei suoi romanzi?
Farei meglio a non parlarne: dall’inizio di un progetto alla sua effettiva realizzazione ci può volere moltissimo tempo. Ma ci sono già un regista e un produttore, italiani, interessati a una trasposizione.
E la sua nuova raccolta di racconti (uscirà in Italia all’inizio del 2013, ndr)?
S’intitola Angel Esmeralda: non sono inediti, ma è la prima volta che vengono tradotti in Italia. Li ho scritti tra il 1979 e il 2010 e non hanno un filo conduttore che li unisce, se escludiamo il fatto che li considero i migliori della mia produzione. Come nella migliore tradizione americana hanno un’aria di sospeso, di non finito.
In quel che scrive c’è sempre qualcosa di inquietante: sembra che lo faccia apposta per creare ansia. Come se non volesse lasciare in pace il lettore.
Non scrivo con l’ambizione di curare o di guarire. E al lettore, a dire il vero, penso poco. Solo quando il libro viene pubblicato mi viene in mente la vaga immagine di uno straniero solitario, un po’ triste come me, che se ne sta seduto da qualche parte in mezzo al nulla con uno dei miei romanzi in mano. Ma nel momento in cui scrivo, penso solo alla pagina che ho davanti.
Usa ancora la macchina per scrivere?
Sì, una con i tasti molto grandi. Ho un estremo bisogno di sentire il rumore che fa ciascuna singola lettera quando colpisce il foglio.
Pensavo fosse sempre uguale.
Una “i” non avrà mai lo stesso peso di una “p”. Sono molto attento ai dettagli, e col mio lavoro cerco di creare una lingua che possieda l’anatomia della bellezza, a due diversi livelli: quello delle parole, certo, ma pure quello delle lettere.
In qualche modo sta dicendo che il fascino di ogni frase dipende anche dalla quantità di “s”, di “n” o di “o” che contiene?
Certamente. Ha presente il concetto di cacofonia? E più o meno la stessa cosa. Ma la cacofonia fa riferimento al suono, e io mi concentro anche sull’aspetto visivo di una parola. Se lei dissocia le parole dall’oggetto che descrivono, se le ripete o le rilegge, compongono una danza simile a un esperanto di livello superiore. In questo senso l’angloamericano mi offre una serie di deliziose possibilità.
La fa sembrare una cosa sensuale.
Alla mia età, scrivere resta una delle attività più eccitanti che mi siano concesse. La scrittura è una forma concentrata di pensiero. Aiuta a fissare l’attimo, ferma lo scorrere del tempo.
Di nuovo la questione del tempo...
È un tema molto attuale, sa? Oggi qualcuno è convinto che non sia più necessario morire. E una possibilità che personalmente trovo spaventosa.
Non punta all’immortalità, dunque.
(Accenna un sorriso, ndr) Mi basterebbe non morire tra un romanzo e l’altro.

Paola Maraone