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 2012  agosto 10 Venerdì calendario

L’ANIMA DI SCIASCIA SI FA LABORATORIO


L’ha sciolto “con animo turbato”, ripete il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Ha dovuto sciogliere per mafia il consiglio comunale del paese di Leonardo Sciascia. Ma c’è voluta andare a Racalmuto, appena insediati i tre commissari prefettizi, in aprile. E c’è tornata a fine luglio, dichiarandosi “innamorata” di questo centro amato da Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo, frequentato da Giuseppe Tornatore, Beppe Cino e Ferdinando Scianna, Roberto Andò e Matteo Collura, Pietrangelo Buttafuoco e Domenico Cacopardo, Luigi Lo Cascio e Leo Gullotta, Bruno Caruso e Piero Guccione, artisti e scrittori, giornalisti e registi, in gran parte cittadini onorari, spesso calamitati qui dai ragazzi, sempre meno ragazzi, di “Malgrado tutto”, il giornalino bastian contrario caro a Sciascia.
È questa somma di storie e di facce che affascina la Cancellieri tornando fra le “parrocchie di Regalpetra”, ammirando guglie e cupole, il Teatro dell’Ottocento in cui Sciascia mise in scena una commedia di Ugo Betti, poeta e giudice, il Castello chiaramontano con vista mozzafiato sulla valle delle miniere di sale e di zolfo, i circoli dei salinari e degli zolfatari, il Circolo Unione dove i soci indicano fieri la poltrona di Sciascia, la vecchia centrale dell’Enel trasformata in Fondazione con biblioteca e pinacoteca, fino alla casa dello scrittore, in contrada Noce, o alla tomba di marmo bianco con l’enigmatica scritta “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.
Tutte poste di un percorso che dovrebbe trasformare Racalmuto-Regalpetra in una sorta di laboratorio, nel cuore di un distretto turistico, culturale ed economico a dieci minuti dalla Valle dei Templi, come ripete il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante: «Non c’è bisogno di una fabbrica, la fabbrica di Racalmuto è la sua storia, la sua cultura, il suo territorio, le sue miniere, i suoi monumenti...».
A Montante, a Ivan Lo Bello, a Giuseppe Catanzaro, ai protagonisti del nuovo corso di una Confindustria che a Caltanissetta, mezz’ora da Racalmuto, ha coniato il suo primo codice etico, si erano rivolti in molti, a scioglimento compiuto, perché dopo tante parole si passasse a un esperimento concreto sul campo. Una sfida raccolta. Contatti immediati. Tre mesi di lavoro. E il 24 luglio rieccoli tutti con il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi, con il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, per la firma dei primi protocolli: il teatro che riapre e diventa scuola dei mestieri dello spettacolo, la Fondazione Sciascia sempre più proiettata verso medie e superiori, pronta a ospitare master per laureati a Milano e Padova, fondi per i giovani, a cominciare da quelli per una piscina comunale con le mattonelle divelte, mai inaugurata e subito distrutta, poi ristrutturata, ancora una volta saccheggiata e mai utilizzata.
Emblematica quest’ultima storiaccia per cogliere il disastro di un’economia che non potrà certo essere rivitalizzata, se non si tranceranno vizi antichi.

IL PAESE
“Il paese del sale, il mio paese che frana...”
(Sciascia, Due cartoline dal mio paese, 1952)
Si può ripartire dalle “parrocchie di Regalpetra” per immaginare un viaggio da offrire al visitatore nella terra di Sciascia, a due passi dalla Porto Empedocle di Pirandello e Andrea Camilleri. Si può cominciare da una pagina di questo libro scolpita sul curvone che dalla Fondazione allunga lo sguardo sui tetti di Racalmuto, fino alle miniere. Poche righe di amara ironia scalpellata sulla pietra bianca: «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione».
Con la stessa autoironia, a due anni dalla morte dello scrittore, nel luglio 1991, qualcuno provò infatti a candidare Racalmuto “paese della ragione”, come fu chiamata una manifestazione che portò nella piazza fra la Matrice e il Castello pure Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, qui per dire che Sciascia era stato loro maestro, al di là di ogni polemica sui “professionisti”. Tutto annullato una settimana dopo da una strage con quattro morti nella stessa piazza e da una sequela di violenze mafiose seguite da inchieste che hanno finito per soffocare ogni sano entusiasmo. Un progetto strozzato, un calvario culminato 21 anni dopo nel provvedimento della Cancellieri. Con l’effetto del tutti a casa, elezioni sospese e tre commissari all’opera per rimettere in sesto il paese.
Subito scoprendo che il “laboratorio” è un micromondo permeato da quei vizi. Un Comune dove basterebbero 100 impiegati in meno rispetto ai 250 in servizio. Specchio di una sorta di malinteso welfare foraggiato, per quanto riguarda i cosiddetti precari, dal sostegno di una Regione con le casse vuote. Il disastro è anche un asilo con 21 bambini e 18 operatori. Un privato fallirebbe. Il disastro è l’edificabilità dei terreni agricoli dove il limite massimo dello 0,03 con un magico colpo di penna diventa 0,20. La motivazione è sempre quella di costruire o ripristinare la casa del fattore, servizio all’agricoltura. Mentre si sono tirati su ville e orrendi castelletti. Con l’effetto di ritrovarsi oggi con 6 mila abitanti e 900 seconde case di cui 200 in vendita, ma senza compratori, come si lamenta chi non ha soldi per pagare l’Imu.
Eredità di un’era dominata dall’allora capo dell’ufficio tecnico, l’ingegnere Delfino, soprannominato “il Codice”. A qualsiasi richiesta rispondeva che bisognava consultare “il Codice”. Cioè, lui stesso. Sparì di lupara bianca. Adesso, denunciate le irregolarità, rischiano grosso proprietari e burocrati. Fra lo stupore dei commissari che trovano alla guida della Ragioneria un geometra. Titolo atipico per far di conto. Meravigliati che la segretaria comunale lanciasse gare per gli appalti cui partecipava l’impresa del marito. Roba di poche migliaia di euro. Ma sintomo di una mentalità pervasiva, stando alle prime impressioni della commissaria Gabriella Tramonti, del suo esperto in bilanci, Emilio Buda, e del terzo componente scelto dal Viminale, Enrico Galeani, un viceprefetto letterato, 12 mila volumi nella biblioteca di casa, a Catania.
Anche loro “innamorati” di Racalmuto, seppure scrutati con diffidenza da tanti, mentre a rompere la crosta, a cercare di stabilire un dialogo provvedono i ragazzi di “Malgrado tutto”. Gli stessi guidati da Egidio Terrana e raccontati da Gaetano Savatteri, un intreccio di vite parallele con i loro coetanei divenuti mafiosi, a cominciare dai fratelli Di Gati, uno in carcere pentito, l’altro suicida, un altro ancora appena licenziato da impiegato comunale, tutti, il bene e il male, protagonisti de I ragazzi di Regalpetra.

CIRCOLO UNIONE
“Questi circoli sono pieni di personaggi che stanno tra Pirandello e Brancati...”
(Sciascia, La Sicilia come metafora, 1979)
Un viaggio a Racalmuto può cominciare dalla piazza della Chiesa Madre. Dentro, le tele di Pietro D’Asaro, il “monocolo” di Racalmuto. Fuori, Sciascia a passeggio. Una statua come quella di Pessoa a Lisbona. E, proprio sopra la sua testa, i balconi del Circolo Unione dove si sentivano echeggiare “acute intelligenze”, ma pure chiacchiere e voci di notabili che, “come unico segno del loro passaggio sulla terra”, lasciavano “l’affossatura nella poltrona”, scriveva Sciascia trasformando sempre in metafora cose e uomini della sua terra. Tappa consigliata dal giovane segretario, Salvatore Picone, felice d’aver trovato lettere, dediche e una tessera mai consegnata, la numero 32 del 1989, l’anno della morte, quando Sciascia aveva già pagato “lire 50.000” senza ritirarla.

MINIERE E CARUSI
“Le saline... alte come cattedrali, sonanti di echi, ricche di sprazzi e rifrazioni”
(Il sale della terra, Il Sole 24 ore, 1988)
È questo ragazzo di Regalpetra ad aver salvato dal falò di una discarica i banchi dell’aula in cui insegnò Sciascia fino al 1957. Un’aula fedelmente ricostruita nella scuola Macaluso, altra tappa con i cimeli del tempo, la vecchia lavagna, i banchi dei “carusi” che il maestro di Regalpetra perdeva quando venivano inghiottiti come schiavi in miniera. E adesso Picone, con Gigi Restivo, altra colonna di “Malgrado tutto”, è impegnato a ricostruire in un libro la storia di quelle sofferenze con Francesco Morgante, il titolare della più antica miniera di salgemma, oggi Italkali, una industria produttiva, in regola, tre turni di lavoro nei mesi invernali, una teoria di camion diretti verso le autostrade della Germania. Un formidabile business evocato dal vegliardo imprenditore coetaneo di Enrico Cuccia e Vito Guarrasi, Mimì La Cavera ed Emanuele Macaluso, mille storie, tante vite incrociate.

TEATRO REGINA MARGHERITA
“E in quel teatro, incantevole di stucchi, ori, velluti e allegorie, ho visto il più bel teatro della mia vita”
(Sciascia, Occhio di capra, 1984)
Lo salvò Sciascia il teatro dove approdavano grandi compagnie e si proiettavano i primi film in bianco e nero. «E mi incantava il leggere, nei camerini e nell’atrio, le scritte autografe che attori famosi avevano lasciato...», raccontava Sciascia cercando di dare una spinta al recupero del gioiello dove aveva scoperto anche il cinema, perché lì si proiettarono le prime pellicole americane con i “baci” di Hollywood poi raccolti da Tornatore in Nuovo cinema Paradiso.
Quarant’anni di rovina, la chiusura nel 1964, trent’anni per riaprirlo, la prima rinascita con Camilleri alla guida e visite eccellenti come quelle dei due presidenti arrivati qui, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Si ricomincia. Stavolta con tutti i visti a posto, seppure con qualche poltrona in meno perché bisogna trovare 25 mila euro per una uscita d’emergenza.

FONDAZIONE SCIASCIA
“...perché si tratta di cose che riguardano la nostra vita e non soltanto l’attività di uno scrittore, che domani può anche essere dimenticato”
(Intervento per la stipula del passaggio della centrale Enel al Comune, 1987)
Quando l’Enel trasferì al Comune di Racalmuto i locali della centrale del paese e si fece una cerimonia per intitolare la Fondazione a Sciascia, fu lo stesso scrittore, con qualche scongiuro, a suggerire di non intestarla a lui: «Si fa con chi non c’é più», disse. E suggerì il nome di Fra Diego La Mattina, il frate eretico di Racalmuto torturato dall’Inquisizione, finito nelle segrete dello Steri a Palermo, dove, durante un interrogatorio, uccise il suo inquisitore, Cisneros. Storia evocata in uno dei libri che amò di più. Non a caso scattò quel richiamo al frate colpevole, sosteneva, di un’eresia sociale. Peccato ricorrente nel polemista. Stimolo per chi guida la Fondazione, il suo fraterno amico Aldo Scimè, insieme con i generi di Sciascia, Salvatore Fodale e Nino Catalano, quest’ultimo padre di Vito, giovane scrittore, e Fabrizio, regista, per tre anni direttore artistico del teatro.

LA NOCE
“Tra quelle siepi di ficodindia, in quella vecchia casa scialbata a calce e dalle travature scoperte ho cominciato a parlare e, più tardi, ho cominciato a scrivere”
(Sciascia, Contrada Noce)
Tutti personaggi che si possono incontrare alla Noce. Il buen retiro a sei chilometri dal paese dove campeggia ancora la vecchia casa di famiglia. Approdo estivo di uno scrittore che fuggiva da Palermo, “teatro di uno spettacolo indecoroso con l’immondizia che arriva alle ginocchia e la mafia alla gola”. E in quell’eden, i pini di fronte, i vigneti distesi come pennellate di Van Gogh, dalle otto del mattino a mezzogiorno, se ne stava davanti alla Olivetti portatile per raccontare e interpretare il mondo. Come un impiegato part-time. Se questo può azzardarsi di un intellettuale che continuava a macinare informazioni e opinioni tutto il giorno nelle letture e nelle riletture, nella conversazione con i tanti che lo andavano a trovare o che gli telefonavano. Con difficoltà. Perché allora non esistevano cellulari e linee private, ma solo una cabina pubblica, attrezzata dentro una stalla di una dimora vicina a quella di Sciascia, come indica l’ultimo agricoltore rimasto in questa campagna sempre più spopolata, Toto Cicero. E come si danna per il deserto in cui abita Nico Patito, 85 anni, ultima sentinella della Noce, il “contadino filosofo” di Sciascia. Così lo definì Enzo Biagi ascoltando le sue massime e scoprendo che viveva senza radio e Tv, rifiutate come simboli di un progresso tenuto alla larga. Come ancora accade. E come constatò Renato Guttuso, incrociando Nico con la sua mula e quattro grandi brocche riempite d’acqua fresca alla fontana di Garamoli, a metà strada fra paese e contrada Noce, fulminato da un’espressione che ancora echeggia come aneddoto: “Si l’America arriva a Garamuli iu nun ci vaiu” (Se l’America, simbolo del progresso per definizione, arriva alla fontana di Garamoli, io non ci vado).

SOLFATARI E LANTERNA
Sono questi personaggi che hanno dato linfa vitale a Sciascia e al paese che potrebbe costruire nuove operose stagioni, come sperano ministri e commissari e come si augurano, però sospettosi, gli stessi vecchi solfatari che, davanti all’uscio del loro circolo, mostrano una lapide con un altro aneddoto di Sciascia. Tratteggiato per ricordare cosa accadde quando un politico si presentò in quel circolo, ascoltò le lamentele dei minatori sulle loro sofferenze e disse che, perdio, bisognava fare qualcosa sferrando sul tavolo un pugno tanto violento da far volare una lampada, caduta a terra, in frantumi. Il politico andò via e ai minatori toccò ricomprare una lampada nuova. Metafora riproposta per ministri e commissari. E per un viaggio che ha bisogno di vecchie e nuove lampade.
Felice Cavallaro