Luca Piana, L’Espresso 10/8/2012, 10 agosto 2012
Galeotto fu il foglietto– Uffici a ridosso del Teatro alla Scala, portone d’ingresso direttamente sulla piazza intitolata al fondatore Enrico Cuccia, libri antichi e arazzi alle pareti
Galeotto fu il foglietto– Uffici a ridosso del Teatro alla Scala, portone d’ingresso direttamente sulla piazza intitolata al fondatore Enrico Cuccia, libri antichi e arazzi alle pareti. Se ci si ferma alla superficie, Mediobanca sembra avere tutto il fascino che si addice a una potente banca d’affari, teoricamente in grado di risolvere qualsiasi problema dei capitani d’industria che chiedono il suo aiuto. Poi si scopre che un pezzo grosso dell’azionariato, l’imprenditore fallito Salvatore Ligresti, si era ridotto a far scrivere in stampatello su un foglio di carta le richieste per liberare Mediobanca dalla sua ingombrante presenza: voleva soldi, una tenuta alle porte di Roma, una casa per i week-end nella campagna milanese, posti di lavoro per i figli e vacanze gratis in un resort sardo che era stato suo. E si scopre pure che quella carta, portata in Procura da un avvocato che la teneva piegata in otto nel portafoglio, neanche fosse la lista dei regali di Natale, era stata siglata dal numero uno dell’istituto, Alberto Nagel, un banchiere che sta giocando un ruolo chiave nelle tante battaglie del capitalismo nostrano, dal controllo della casa editrice del "Corriere della Sera" al futuro di due colossi come Telecom Italia e le Assicurazioni Generali. È di questi giorni la notizia che per quella firma Nagel è finito sotto indagine per ostacolo alla vigilanza da parte del pubblico ministero Luigi Orsi. La Consob, la commissione che vigila sui mercati, ha infatti chiesto che il salvataggio della compagnia di assicurazioni Fondiaria-Sai da parte della concorrente Unipol, operazione sostenuta da Mediobanca, avvenga senza che nemmeno un euro vada in favore del suo proprietario uscente Ligresti, la cui gestione è considerata all’origine di tutti i guai. Per "Mister 5 per cento", come lo chiamavano nella Milano da bere per la capacità di mettere un piedino ovunque, l’accordo manoscritto è però ancora valido: «Con Mediobanca basta la parola», ha detto, come se si aspettasse denari, ville e vacanze. Per Nagel, invece, la firma era solo la presa d’atto dei desideri che l’anziano imprenditore, spintosi fino a minacciare il suicidio, andava ripetendo da mesi. Lo proverebbero diversi fatti, a cominciare dalle date: la riunione dove il documento segreto fu sottoscritto si era tenuta prima che arrivasse l’ultimo e definitivo alt della Consob. Che, così, ha troncato ogni ulteriore rivendicazione. Una posizione che, se non fosse creduta dalla Consob, al di là degli effetti giudiziari potrebbe rimettere in discussione tutti i termini del salvataggio della Fondiaria. Qualunque siano le conclusioni a cui arriveranno magistrati e commissari, l’affaire Ligresti è interessante se lo si inquadra nelle schermaglie di potere che segnano Mediobanca. Una lotta che Nagel, 47 anni di età, da nove al vertice dell’istituto, sta combattendo correndo il rischio, ad esempio, di scontentare persone con le quali ha sempre detto di condividere lo stesso modo di pensare, come l’imprenditore Diego Della Valle. O, in altri casi, incrociando le armi con avversari con i quali si è già trovato su fronti opposti, come il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera. Quando era a capo di Intesa Sanpaolo, Passera si dannò per unire la fallita Alitalia alla traballante AirOne, un’operazione dalla quale Mediobanca si tenne alla larga. Cercò poi di costituire una cordata per difendere l’italianità della Parmalat, mentre Nagel finì per schierarsi addirittura con il nemico, la francese Lactalis (i cui rapporti con Mediobanca sono ora al centro di un’indagine della Consob). Infine, da quando è ministro, si racconta che Passera veda di buon occhio la scalata effettuata dal costruttore romano Pietro Salini all’Impregilo. Una scalata per ora vincente: il nuovo arrivato è riuscito a sfilare la guida del colosso delle costruzioni alla famiglia Gavio, da sempre un fedele alleato di Mediobanca. Se questi sono attriti o poco più, Nagel non si è tirato indietro quando si trattava di tagliare teste pesanti. Se Ligresti si è messo fuori gioco da solo, inabissandosi in una gestione colabrodo, in altri casi l’intervento del banchiere e dei suoi alleati è stato decisivo. Il primo a capitolare è stato, nella primavera del 2011, il presidente delle Generali, Cesare Geronzi. Lo scontro è stato memorabile e pieno di sottintesi. Geronzi, alleato con il finanziere francese Vincent Bolloré, aveva messo nel mirino la gestione della compagnia da parte dell’amministratore delegato Giovanni Perissinotto. Alcune critiche erano azzeccate e, ad esempio, avevano spinto la Consob a costringere le Generali a fare chiarezza sugli accordi fra la compagnia e il socio Petr Kellner, un tycoon ceco che ha venduto a caro prezzo al gruppo triestino le sue attività nell’Est Europa. Geronzi, accusato di voler destabilizzare la compagnia e sospettato di farlo per imporre nuovi assetti di comando a lui più favorevoli, è stato allontanato. Un anno dopo, però, è toccato a Perissinotto essere sostituito, con un blitz che ha spinto Della Valle a dimettersi dal consiglio Generali ma che è stato condiviso da diversi altri amministratori, dal costruttore Francesco Gaetano Caltagirone a Lorenzo Pellicioli del gruppo De Agostini. In questo caso il licenziamento è stato motivato con una gestione troppo seduta ma è probabile che abbia pesato anche un’altra critica: quella di utilizzare i soldi della compagnia per stringere accordi di collaborazione che portavano in consiglio persone troppo vicine allo stesso Perissinotto. Il quale, così, otteneva il beneficio di blindare la sua poltrona e sottrarsi all’influenza di Nagel & C. Fatto curioso: tra i motivi che oggi sembrano preoccupare di più gli azionisti Generali c’è il contratto che, nel 2014, potrebbe spingere Kellner a chiedere alla compagnia 2,5 miliardi. L’accordo emerso grazie alla coppia Geronzi-Bolloré. Con chi ha occasione di parlargli, Nagel rivendica da sempre che l’indipendenza del management che in Mediobanca hanno ricercato lui e il presidente Renato Pagliaro, da quando hanno avuto mani libere l’hanno concessa nelle società partecipate dell’istituto. Al vertice delle Generali è stato chiamato Mario Greco, molto conosciuto nel settore e reduce da un’esperienza di alto livello all’estero, mentre in Rcs è arrivato Pietro Scott Jovane, che guidava le attività italiane della Microsoft e che è stato individuato grazie a un cacciatore di teste. Proprio la casa editrice del "Corriere" è però al centro di uno degli scontri di giornata con Della Valle, il quale non ha mai fatto mistero di volere una diversa gestione e, uscendo dal patto di sindacato che raccoglie gli azionisti Rcs, ha definito Pagliaro e il presidente della Fiat, John Elkann, un «funzionario e un ragazzino che pretendono di decidere per tutti». È proprio in questo tesoretto di partecipazioni, Generali, Rcs, Telecom Italia, che si trova uno dei fattori più delicati nel futuro di Mediobanca. Con la crisi che ha messo i colossi del credito sulla graticola, l’idea di Nagel è che una banca molto specializzata possa avere chance di fare bene. Allo stesso tempo, però, se resteranno immutate le regole europee che nel giro di qualche anno obbligheranno gli istituti a diminuire il capitale investito in titoli azionari, Mediobanca sarà costretta a ridurre i pacchetti di controllo in società cruciali sia dal punto di vista economico che politico. Con due effetti. Primo: si scateneranno gli antagonisti che vogliono mettere le mani sulle diverse prede, a cominciare da Rcs, dove già l’azionista principale è l’imprenditore lombardo degli ospedali Giuseppe Rotelli. Secondo: più laterale nelle partite di potere, Mediobanca rischia di non interessare più a quegli azionisti che stanno lì proprio perché sperano di contare di più. Così, se il rilancio cercato da Nagel tarderà ad aver successo, il rischio per la banca è spegnersi lentamente, vedendo realizzata la battuta di Cuccia: «È caduto l’Impero romano, figuriamoci a chi può interessare Mediobanca». È in questo contesto ricco di insidie che è esplosa la mina Ligresti. Difficile immaginare che l’ingegnere abbia fatto troppi calcoli sugli effetti della sua sortita o faccia parte di un complotto per destabilizzare l’istituto. Altrettanto difficile, però, immaginare che si aspetti davvero di ricevere i soldi che dice di volere. Basta mettere in fila i fatti. Il foglio manoscritto era custodito da Cristina Rossello, un avvocato che svolge il ruolo di segretario del patto di sindacato che raccoglie i soci di Mediobanca e come legale rappresenta i Ligresti stessi (per curiosità: lavora pure per la Palladio, la finanziaria che contendeva a Unipol il controllo di Fondiaria). A giochi chiusi Jonella Ligresti, figlia di Salvatore, ha registrato di nascosto un colloquio con l’avvocato Rossello dove parlava dell’esistenza del documento e ha portato l’audio in procura. Dopo la perquisizione dei suoi uffici da parte della Procura, la Rossello si è vista costretta a consegnare il documento al pm Orsi. È così che, raccontano, il presunto patto è venuto alla luce, estratto dal portafoglio del legale, piegato in otto. Per i Ligresti, non un modo lineare per esigere il rispetto di un contratto. Ma per tentare di affondare la barca, e favorire le cause che arriveranno, questo certamente sì.