The Paris Review vol.I, Fandango Libri, Roma 2009, 9 agosto 2012
ERNEST HEMINGWAY
L’arte della narrazione–
HEMINGWAY
Lei va mai alle corse?
INTERVISTATORE
Sì, qualche volta.
HEMINGWAY
Allora legga il Bollettino delle corse... Quella è la vera arte della narrazione.
Conversazione in un caffè di Madrid, maggio 1954
Nella sua casa a San Francisco de Paula, alla periferia di L’Avana, Ernest Hemingway lavora in camera da letto. Benché abbia uno studio nell’ala sud-ovest dell’edificio, in cima a una torre rettangolare, preferisce scrivere in camera, e salire in studio solo quando i “personaggi” lo spingono ad andarci.
La camera da letto, che si trova al piano terra, è collegata alla stanza principale tramite una porta tenuta aperta da un pesante volume sui Motori areonautici di tutto il mondo. Durante il giorno, le finestre che guardano a est e a sud riempiono di luce l’ampia stanza, i raggi del sole si riflettono sulle pareti bianche e sulle piastrelle ocra del pavimento.
La stanza è divisa in due vani da un paio di librerie appoggiate ad angolo retto sulle pareti opposte. Da una parte troneggia un grande letto matrimoniale con accanto alla testiera due comodini sommersi di libri e, sul fondo, sistemati con cura, pantofole e mocassini sfondati. Nell’altro vano della stanza, il piano d’appoggio di un’imponente scrivania con due sedie ai lati è coperto da un ordinato ammasso di scartoffie e promemoria. Più in là, all’altro capo della camera, c’è un armadio con una pelle di leopardo appoggiata in cima. Le altre pareti sono tappezzate di scaffali dipinti di bianco da cui i libri traboccano fino al pavimento, e si accatastano su vecchi giornali, riviste di corride e fasci di lettere legati assieme da elastici.
Sulla sommità di una di queste librerie sovraccariche di volumi - quella a circa un metro dal letto, vicina alla finestra rivolta a est - si trova il tavolo di lavoro di Hemingway: un metro quadro scarso, assediato su un lato dai libri e sull’altro da manoscritti, opuscoli e pile di fogli coperti da giornali. C’è appena lo spazio per la macchina da scrivere, sormontata da un asse di legno sul quale appoggiarsi durante la lettura, per cinque o sei matite e per un minerale di rame usato come fermacarte quando dalla finestra l’aria entra con prepotenza. È un’abitudine che Hemingway ha fin dall’infanzia, quella di scrivere in piedi: se ne sta lì, nei suoi mocassini sformati di pelle di cudù tutta consunta, e di fronte, all’altezza del petto, la macchina da scrivere e il piano da lettura.
Quando lavora a un progetto nuovo, Hemingway inizia sempre così, scrivendo a matita su fogli di carta velina. In un portablocco con molla a sinistra della macchina da scrivere, sul quale è scritto “Bollette da pagare”, Hemingway tiene una risma di questi fogli bianchi leggeri, e da lì estrae un foglio alla volta man mano che gli serve. Lo mette di traverso sul piano d’appoggio, si china flettendo il braccio sinistro e tenendo il foglio con la mano, e comincia a riempire pagine e pagine con quella sua calligrafia che negli anni si è fatta più grande, infantile, quasi priva di punteggiatura e di maiuscole, e con qualche X a segnalare gli a capo. Una volta completata la pagina, Hemingway la inserisce al rovescio su un altro portablocco che sistema alla destra della macchina da scrivere.
Soltanto quando sente che la scrittura scorre liscia e rapida, o si fa semplice, almeno per lui, come nei dialoghi, allora solleva il piano da lettura e passa alla macchina da scrivere. Giorno dopo giorno annota i suoi progressi — “Tanto per non barare” — su un grosso tabellone ricavato dal fianco d’una scatola da imballaggio e appeso alla parere sotto il naso di una gazzella impagliata. Le cifre sul tabellone indicano il numero di parole tirate fuori ogni giorno, e variano da 450, 575, 462, 512, fino a 1250 per poi tornare di nuovo a quota 512. Certe volte, quando è soddisfatto della giornata di lavoro, Hemingway si concede, senza troppi sensi di colpa, una battuta di pesca nella corrente del golfo.
Uomo abitudinario, Hemingway non usa mai la scrivania che si trova nell’altro vano della stanza. Sebbene sia più spaziosa del pianale su cui scrive, è anch’essa ingombra di cianfrusaglie d’ogni genere: mucchi di lettere, un leone di peluche tipo quelli che si trovano in vendita a Broadway, un sacchettino di tela pieno di denti d’animali carnivori, diverse cartucce, un calzascarpe, statuette di legno di un leone, un rinoceronte, due zebre e un cinghiale — questi ultimi ben in fila sul ripiano del tavolo — e ovviamente libri. Libri impilati sulla scrivania e sui comodini, ammassati sugli scaffali secondo un criterio indefinibile: romanzi, testi di storia, raccolte di poesia, teatro, saggi. Una sola occhiata e se ne capisce la varietà. Sullo scaffale all’altezza delle ginocchia di Hemingway, quando sta al “tavolo da lavoro”, ci sono Il lettore comune di Virginia Woolf, House Divided, The Partisan Reader di Ben Ames Williams, The Republic di Charles A. Beard, Napoleone di Tarle, How Young You Look di una certa Peggy Wood, Will Shakespeare and the Dyer’s Hand di Alden Brooks, African Hunting di Baldwin, Poesie di T.S. Lliot, e due volumi sulla sconfitta del generale Custer nella battaglia di Little Big Horn.
Sebbene a prima vista sembri che nella stanza regni un disordine infernale, a uno sguardo più attento si capisce che chi la abita è piuttosto preciso ma non riesce a buttar via neanche uno spillo, specie se ha un valore affettivo. In cima a uno scaffale c’è una curiosa accozzaglia di ricordi: una giraffa costruita con palline di legno, una piccola tartaruga di ferro, i modellini di una locomotiva, di una jeep e di una gondola, un orsacchiotto a molla con la chiavetta sulla schiena, una scimmietta con un paio di piattini tra le zampe, una chitarra in miniatura e un piccolo biplano di piombo della marina americana (senza una ruota) atterrato tutto sbilenco su una tovaglietta di paglia — il tipo di collezione che un ragazzino potrebbe conservare in una scatola di scarpe in fondo all’armadio. Ognuno di questi oggetti ha il suo valore, e le tre corna di bufalo che Hemingway si tiene in camera sono importanti non tanto per le dimensioni considerevoli che hanno, quanto perché provengono da una battuta di caccia che era iniziata male ma che poi si è risolta per il meglio. “Mi fa piacere vederle lì”, dice.
Hemingway ammette di essere un po’ superstizioso ma preferisce non parlarne, per paura che con le chiacchiere il potere degli oggetti si disperda. E questo riguarda anche la scrittura. Più volte, infatti, durante l’intervista, ha ribadito che non si dovrebbe violare la scrittura esaminandola troppo minuziosamente: “Perché sebbene una parte di scrittura sia solida e resista ai discorsi, ce n’è un’altra molto fragile che, con le parole, si rischia di infrangere”.
Di conseguenza, pur essendo un narratore straordinario con un notevole senso dell’umorismo e una competenza sbalorditiva sugli argomenti che lo appassionano, a Hemingway riesce piuttosto difficile parlare di scrittura — non perché si tratti di un argomento su cui è a corto di idee — ma piuttosto perché ha la netta convinzione che tali opinioni debbano rimanere inespresse, che continuando a fargli domande in merito si finisce per “spaventarlo” (come direbbe lui) al punto da togliergli ogni parola di bocca. A molte delle domande dell’intervista ha preferito rispondere in un secondo momento, sul suo piano di lettura, e il tono stizzito di alcune risposte si deve alla forte convinzione che la scrittura sia un’occupazione privata e solitaria, e che fino a quando il lavoro non è ultimato sia meglio evitare ogni interferenza.
Una tale dedizione nei confronti della propria arte potrebbe rimandare un’immagine molto diversa da quella di uomo giramondo, turbolento, incurante che si ha di lui. La verità è che Hemingway, amando la vita, affronta qualunque cosa con lo stesso trasporto: un atteggiamento di estrema serietà, che rifugge l’approssimazione, la disonestà, le cose a metà.
E in nessun luogo la sua dedizione all’arte potrebbe essere più evidente che in quella stanza da letto dalle piastrelle ocra — nell’assoluta concentrazione in cui Hemingway s’immerge davanti al piano di lavoro, al mattino presto, e da quel piano non si muove più se non per spostare il peso del corpo da una gamba all’altra; coperto di sudore, eccitato come un ragazzino quando il lavoro procede bene, oppure scontroso, afflitto se la vena ispiratrice momentaneamente si perde — schiavo di una disciplina che si autoimpone fino a mezzogiorno, ora in cui, afferrato un nodoso bastone da passeggio, si dirige verso la piscina per il mezzo miglio di nuoto quotidiano.
George Plimpton, 1958
Sono piacevoli le ore che trascorre scrivendo?
Sì, molto.
Potrebbe descriverci il modo in cui lavora?
Quando comincia e se si attiene a orari precisi? Quando lavoro a un libro o a un racconto, comincio a scrivere la mattina, alle prime luci dell’alba. Non c’è nessuno che mi disturbi, e poi fa fresco, talvolta freddo, così mi scaldo lavorando. Leggo quello che ho scritto il giorno prima e siccome m’interrompo sapendo sempre quello che verrà dopo, ricomincio da lì. Scrivo fino a quando arrivo a un punto in cui ho ancora qualcosa che preme per uscire e passare sul foglio, e so che cosa deve succedere, allora mi fermo e cerco di vivere fino al giorno successivo, quando sarà ora di rimettersi al lavoro. Diciamo che se attacco alle sei del mattino posso andare avanti fino a mezzogiorno, qualche volta smetto prima. Quando mi fermo mi sento svuotato, ma allo stesso tempo anche carico, come quando ho fatto l’amore con qualcuno che amo. Non c’è niente che mi possa ferire, niente che mi possa turbare, niente che significhi niente fino all’indomani, quando ricomincio di nuovo. Il difficile è attendere fino ad allora.
Riesce a non pensare al lavoro quando non è alla macchina da scrivere?
Certo. Ci vuole un po’ di disciplina per riuscirci, e questa disciplina va imparata. Ma non c’è altra soluzione.
Quando riprende a lavorare da dove ha interrotto il giorno prima, fa già una revisione del testo oppure aspetta di aver concluso tutto?
Ogni giorno, prima di ricominciare, rivedo il testo fin dove sono arrivato e quando ho finito lo rileggo interamente. Poi posso di nuovo correggerlo dopo che è stato battuto a macchina ed è scritto chiaro. L’ultima occasione sono le bozze. Meno male che ci sono tutte queste opportunità.
E le revisioni che fa sono pesanti?
Dipende. Di Addio alle armi ho riscritto la fine, l’ultima pagina intendo, trentanove volte, prima di trovare una soluzione che mi soddisfacesse.
Cose che non la convinceva?
Non riuscivo a mettere insieme le parole come volevo.
È la rilettura che smuove il flusso creativo?
La revisione ti conduce in un punto in cui non puoi non andare avanti, e questo vuol dire che sei già un passo avanti. Intanto c’è sempre altro che bolle in pentola.
Ma capita che qualche volta l’ispirazione venga a mancare?
È ovvio, ma se ti fermi quando sai cosa accadrà dopo, vuol dire che puoi proseguire. Una volta che hai iniziato, il gioco è quasi fatto, le parole arriveranno.
Sostiene Thornton Wilder che gli scrittori adottano alcuni stratagemmi che li aiutano a concentrarsi e ad affrontare il lavoro di tutti i giorni. Lei gli avrebbe riferito che è sua abitudine fare ‘la punta a venti matite.
Non ho mai posseduto venti matite tutte insieme. Quando arrivo a consumarne sette n. 2 è segno che la giornata di lavoro è stata molto proficua.
Quali sono i luoghi dai quali ha tratto maggiori vantaggi il suo lavoro? Uno deve essere l’albergo Ambos Mundos, a giudicare dai libri che lei ha scritto lì. Oppure l’ambiente influisce poco sulla sua scrittura?
L’Ambos Mundos a L’Avana era un ottimo posto per lavorare. E un luogo meraviglioso, quella Finca, o perlomeno lo era. Ma sono stato bene ovunque, intendo dire che sono riuscito a lavorare nelle circostanze più disparate. Le cose che rendono impossibile lavorare sono il telefono e la gente che passa a trovarti.
È necessario essere emotivamente stabili perché la scrittura sia buona? Una volta mi ha detto che lei riesce a scrivere bene soltanto quando è innamorato. Potrebbe spiegarci meglio questa sua tesi?
Che domanda! Comunque dieci e lode per averci provato. Si può scrivere solo quando la gente ti lascia in pace e nessuno t’interrompe. O meglio, quando si è sufficientemente risoluti a farlo. Sì, sicuramente quando si è innamorati si scrivono le cose migliori, ma se non ha niente in contrario preferirei non scendere in particolari.
E la sicurezza economica? Può essere controproducente in termini di creatività nella scrittura?
Se la si raggiunge presto e si ama la vita quanto la scrittura, allora ci vorrà una buona dose di carattere per resistere alle tentazioni. Una volta che scrivere è diventato il tuo peggior vizio e il piacere più grande, solo la morte potrà fermarti. Da questo punto di vista la sicurezza economica è un grande vantaggio perché ti toglie molte preoccupazioni, e le preoccupazioni distruggono la capacità creativa. La cattiva salute è fonte di preoccupazioni che attaccano il subconscio e annientano le riserve di energia.
Si ricorda il momento esatto in cui decise di diventare uno scrittore?
No, ho sempre voluto fare lo scrittore.
Philip Young, nel libro che le ha dedicato, ipotizza che lo choc di quando nel 1918 lei fu ferito da un colpo di mortaio abbia avuto una forte ripercussione sulla sua scrittura. Ricordo che a Madrid lei accennava a questa teoria dandovi poco credito perché, diceva, l’artista non acquisisce un bagaglio di conoscenze ma, in senso mendeliano, lo eredita.
Evidentemente quell’anno a Madrid non ero granché lucido. Per fortuna mi son limitato a fare qualche accenno al libro di Young e alla sua teoria della letteratura. Forse, in quell’occasione, con la commozione cerebrale e la frattura al cranio mi sono lasciato andare ad affermazioni azzardate. Quello che ho detto, e lo ricordo bene, è che a mio parere l’immaginazione è il risultato di esperienze ereditate, ancestrali. Credo che tra le chiacchiere post-trauma non suonasse affatto strano, ma è una constatazione che va considerata in quel contesto. A ogni modo, fino al prossimo incidente, lascerei stare, d’accordo? La ringrazio comunque per aver omesso i nomi dei parenti che forse avevo tirato in ballo. La cosa divertente di quando si parla è che si va a fondo, ma forse è meglio non mettere per iscritto teorie infondate che poi bisogna difendere. Può darsi che certe cose si dicano per vedere se ci si crede sul serio. Per quanto riguarda la sua domanda, gli effetti delle ferite possono variare molto. Ferite lievi, senza fratture, hanno conseguenze limitate, qualche volta danno perfino sicurezza. Ma quelle che danneggiano le ossa o i nervi non hanno alcun effetto positivo né sugli scrittori, né su chiunque altro.
Qual è secondo lei la migliore preparazione intellettuale per un aspirante scrittore?
Diciamo che dovrebbe uscire di casa e impiccarsi, dopo aver preso atto di quanto sia difficile scrivere bene, anzi forse quasi impossibile. Poi, tirato giù da qualcuno privo di compassione, il poveretto dovrebbe forzarsi a scrivere meglio che può, per tutta la vita. Ma almeno avrebbe la storia dell’impiccagione con cui cominciare.
Cosa pensa degli scrittori che hanno intrapreso la carriera accademica? Crede che la maggior parte di loro, di quelli che insegnano, abbia compromesso la propria attività letteraria?
Dipende da cosa intende lei con compromesso. Intende come quando una donna ha la reputazione compromessa? Oppure si tratta del compromesso dello statista, o del compromesso che si fa col verduriere o col sarto, quando si assicura loro che li si pagherà un po’ di più ma in ritardo? Chi scrive e insegna dovrebbe essere in grado di fare tutt’e due le cose, e molti bravi scrittori hanno dimostrato che è possibile. Io so che non ne sarei capace, e ammiro quelli che invece ci riescono. Però penso che la vita accademica possa limitare l’esperienza esterna e quindi la conoscenza del mondo. Tuttavia la conoscenza richiede molta responsabilità da parte dell’autore e rende più difficile la scrittura. Cercare di scrivere qualcosa che abbia valore permanente comporta un impegno a tempo pieno, anche se la scrittura vera e propria occupa solo alcune ore al giorno. Si può paragonare lo scrittore a un pozzo. I pozzi, come gli scrittori, possono essere di vario tipo: la cosa importante è che abbiano acqua buona, e che se ne tiri su un po’ alla volta, con regolarità, anziché svuotare completamente il recipiente nell’attesa che poi si riempia di nuovo. Forse non ho risposto precisamente alla sua domanda, ma l’argomento non era così interessante.
A un giovane scrittore consiglierebbe il giornalismo? È stato utile per lei lavorare al Kansas City Star?
Per lo Star si doveva scrivere imparando a usare frasi semplici ed esplicative. E questo è utile, per chiunque. Lavorare per un quotidiano non fa certo male a un giovane scrittore, e di sicuro gli può servire, a patto che se ne tiri fuori in fretta. È uno dei luoghi comuni più scontati, e me ne scuso. Ma con domande trite e ritrite come questa, non può che aspettarsi risposte ovvie.
Una volta, sulla Transatlantic Review, ha scritto che la sola ragione per cui valga la pena fare giornalismo è che si viene pagati profumatamente. Lei ha detto: “Quando, scrivendone, distruggete le cose che per voi hanno valore, dovete pretendere che almeno vi diano un mucchio di soldi”. Pensa che la scrittura sia una sorta di autodistruzione?
Non ricordo di aver mai scritto niente del genere, ma un affermazione così stupida e aggressiva potrebbe anche essere uscita dalla mia bocca, perciò è meglio che io non insista e che provi a ribattere qualcosa di sensato. Io non credo che la scrittura conduca all’autodistruzione, nonostante il giornalismo possa essere, da un certo punto in poi, autodistruttivo per chiunque si consideri un autore serio.
Pensa che frequentare altri scrittori sia uno stimolo intellettuale valido?
Certamente.
Nella Parigi degli anni Venti avevate la sensazione di appartenere a un gruppo di scrittori e di artisti?
No, non ci sentivamo parte di un gruppo. Ci stimavamo. Io avevo grande stima di un sacco di artisti, alcuni dei quali erano miei coetanei, altri più anziani: Gris, Picasso, Braque, Monet, che allora era ancora vivo. E anche di certi scrittori: Joyce, Ezra, la Stein dei tempi migliori...
Quando scrive si sente mai influenzato da quello che sta leggendo?
Non da quando Joyce ha scritto 1’Ulisse. La sua non è stata un influenza diretta. Ma in quel periodo, quando le parole che conoscevamo ci erano proibite e dovevamo batterci per ogni singolo vocabolo, il suo lavoro ha cambiato qualsiasi cosa e ci ha permesso di abbattere le limitazioni.
Lei ha mai imparato qualcosa sulla scrittura grazie ad altri scrittori? Ieri mi diceva che Joyce, per esempio, non sopportava di parlare di scrittura.
Quando ci si trova con persone dell’ambiente di solito si parla dei libri degli altri. Più uno scrittore è bravo, meno parla di quello che ha scritto. Joyce era un grande scrittore e avrebbe spiegato il suo lavoro soltanto agli idioti, perché era convinto che quelli di cui aveva una buona considerazione fossero in grado di capirlo semplicemente leggendo i suoi libri.
Negli ultimi anni sembra che lei abbia evitato di frequentare altri scrittori. Perché?
Questa è una faccenda più complicata. Più ci si addentra nella scrittura, più si rimane soli. Gli amici più cari, quelli di lunga data, scompaiono. Altri se ne vanno. Ci si vede raramente, ma ci scriviamo, teniamo i contatti come quando, ai vecchi tempi, ci incontravamo al caffè. Ci scambiamo lettere spassose, talvolta indecorose e irresponsabili, ed è quasi come vedersi per chiacchierare. Ma siamo molto più soli, perché questa è la misura dello scrivere, e il tempo per scrivere si assottiglia sempre di più e quando l’hai perso capisci d’aver commesso un errore imperdonabile.
Quale contributo hanno dato al suo lavoro autori, suoi contemporanei, come Gertrude Stein, Ezra Pound, Max Perkins?
Mi spiace, ma non sono bravo coi necrologi. Allo scopo ci sono i medici legali, letterari o meno. La Stein ha scritto profusamente, e con notevoli inesattezze, su quanto lei avrebbe influenzato il mio lavoro. Le riuscì di farlo dopo che imparò come si scrivono i dialoghi leggendo un libro intitolato Fiesta. Mi piaceva molto, come persona, e fui davvero felice che avesse capito come si faceva. Per me era normale apprendere qualcosa da chiunque, vivo o morto che fosse, e non pensavo che lei potesse avere una reazione così forte. Sapeva già scrivere molto bene altre cose. Ezra invece sapeva parlare con estrema intelligenza di argomenti che conosceva a fondo. Ma queste chiacchiere non l’annoiano? Questi pettegolezzi letterari, questo lavare in piazza panni di trentacinque anni fa, mi disgusta, lo sa? Sarebbe diverso se tentassimo di raccontare tutta la verità, avrebbe qualche significato. Ma qui non posso far altro che ringraziare Gertrude per quello che mi ha insegnato sulla relazione astratta delle parole tra di loro, dire quanto lei mi piacesse, ribadire la mia devozione per Ezra che è un grande poeta e un amico leale, e quanto a Max Perkins, tale era il mio affetto per lui che non sono mai riuscito ad accettare che sia morto. Max non mi ha mai chiesto di modificare nulla di quello che scrivevo, a eccezione di certe parole che a quel tempo non si potevano pubblicare. Lasciavamo lo spazio bianco, e chi sapeva cosa avevamo in mente avrebbe potuto colmare il vuoto da sé. Per me non era solo un editor. Era un amico saggio e un compagno straordinario. Mi piaceva come portava il cappello e quel suo strano modo di muovere le labbra.
Quali ritiene siano stati i suoi padri letterari, quelli da cui ha imparato di più?
Mark Twain, Flaubert, Stendhal, Bach, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov, Andrew Marvell, John Donne, Maupassant, il vecchio Kipling, Thoreau, il capitano Marryat, Shakespeare, Mozart, Quevedo, Dante, Virgilio, Tintoretto, Hieronymus Bosch, Bruegel, Patinir, Goya, Giotto, Cézanne, Van Gogh, Gauguin, San Juan de la Cruz, Góngora — ci vorrebbe un giorno intero per nominarli tutti. Ma poi si potrebbe pensare che invece di ricordare chi ha influenzato la mia vita e il mio lavoro, voglia vantare un’erudizione che non possiedo. Questa non è una domanda ovvia. È un’ottima domanda, ardua, e richiede un esame di coscienza. Ho incluso alcuni pittori, almeno avevo cominciato, perché ho imparato a scrivere da loro quanto dagli scrittori. Lei mi chiederà come. E io per spiegarglielo avrei bisogno di tutta una giornata. Credo, per farle un esempio, che sia evidente che cosa si può apprendere dai compositori studiando l’armonia e il contrappunto.
Ha mai suonato uno strumento?
Un tempo suonavo il violoncello. Mia madre mi fece stare a casa da scuola un intero anno per studiare musica e contrappunto. Pensava che avessi talento, ma la verità è che non ne avevo affatto. Facevamo musica da camera: c’era qualcuno che veniva a suonare il violino, mia sorella suonava la viola e mia madre il pianoforte. Se penso a quel violoncello... lo suonavo peggio di chiunque al mondo. Ovviamente, quell’anno mi dedicai anche ad altro.
Rilegge gli autori che ha citato? Twain, per esempio?
Prima di rileggere Twain bisogna aspettare almeno due o tre anni, altrimenti lo si ricorda troppo. Invece riprendo in mano Shakespeare ogni anno, soprattutto il Lear. E una lettura rinfrancante.
Quindi leggere è un impegno e un piacere costante.
Io leggo sempre, finché ho dei libri. Me li raziono per non rischiare di rimanere senza.
Le capita mai di leggere manoscritti?
A volte, se non si conosce l’autore personalmente, si può anche finire nei guai. Qualche anno fa un tale mi ha intentato una causa per plagio accusandomi di aver copiato Per chi suona la campana da una sceneggiatura inedita che aveva scritto. L’aveva letta a Hollywood, durante una festa, e siccome a suo dire io mi trovavo lì, o almeno c’era un tizio che si chiamava Ernie, gli sembrò ci fossero gli elementi sufficienti per chiedermi un milione di dollari per plagio. Contemporaneamente fece causa anche ai produttori di Giubbe rosse e di Cisco Kid, sempre per essersi indebitamente appropriati della sua sceneggiatura, la stessa. Finimmo in tribunale e ovviamente vincemmo la causa. Alla fine quel tale si rivelò insolvente.
Torniamo all’elenco che ha fatto prima. Prendiamo uno dei pittori, Hieronymus Bosch, per esempio. I suoi paesaggi da incubo, fortemente simbolici, sembrano essere molto lontani da quelli dei suoi libri.
Incubi ne ho anch’io, e conosco quelli degli altri, ma non occorre che li trascriva nei miei libri. Qualunque cosa lo scrittore conosca a fondo, e decida di omettere nel testo, verrà comunque fuori nella parola con tutta la propria forza. È quando lo scrittore omette qualcosa che ignora, che nel testo compaiono i vuoti.
Significa che conoscendo le opere degli scrittori che ha elencato si riempie il pozzo di cui parlava prima? Oppure che la lettura di quelle opere e di per sé un arricchimento che contribuisce a sviluppare la sua tecnica narrativa?
Fanno parte delle cose da cui si impara a vedere, ad ascoltare, a pensare, a percepire e non percepire, e poi a scrivere. Il pozzo è il luogo in cui ribolle la materia. Nessuno sa bene di che pasta sia fatta, quali siano gli ingredienti di quell’ispirazione. L’unica cosa che si sa è di possederla, o di dover aspettare che in qualche modo salti fuori.
Ammetterebbe forse che nei suoi romanzi ci sono elementi simbolici?
Credo che ce ne siano da quando i critici si ostinano a vederli. Ma se non le dispiace, preferirei non parlarne e le sarei grato se non mi facesse altre domande su questo argomento. È già abbastanza difficile scrivere romanzi e racconti, figuriamoci poi spiegarli. E perdipiù significherebbe rubare il lavoro ai critici. Se già ci sono cinque o sei critici che ci lavorano, perché dovrei interferire io? Leggete quello che ho scritto per il semplice piacere di farlo. E qualsiasi cosa ci troverete vi darà la misura di ciò che avevate dentro prima ancora di iniziare la lettura.
Un’ultima domanda su questo tema. Uno dei nostri redattori si è chiesto se esista o meno un qualche parallelismo che avrebbe notato in Fiesta tra le dramatis personae dell’arena e i personaggi del romanzo. Sottolinea che la prima frase del romanzo potrebbe rivelare che Robert Cohn è un pugile: più in là, durante la desencajonada, il toro è descritto come se usasse le corna come un pugile, tirando ganci o diretti corti. Come il toro è attratto e tranquillizzato dalla presenza di un manzo, così Robert Cohn asseconda Jake che proprio come un manzo viene evirato. Mike sarebbe quindi il picador che continua a tormentare Cohn. La tesi del redattore è ancor più complessa, ma quel che lui si domanda è se era sua intenzione dare al romanzo la struttura del rituale tragico della corrida.
Mi pare che questo redattore si sia un po’ bevuto il cervello. Ma chi ha mai detto che “Jake viene evirato proprio come un manzo”? La verità è che è stato ferito, questo sì, ma in tutt’altro modo e le sue palle sono intatte e funzionanti. Ergo, Jake prova tutti i sentimenti che provano gli uomini, ma non può consumarli. La differenza fondamentale è che la sua non è una ferita fisica, bensì psicologica, e non c’è stata nessuna evirazione.
Queste domande che insistono sull’analisi dei libri sono davvero fastidiose.
Le domande sensate non sono né fastidiose né divertenti. Io, comunque, penso che gli scrittori facciano bene a non parlare del proprio lavoro. Scrivono per essere letti e non dovrebbero essere necessario spiegazioni o disquisizioni. Sicuramente nei libri c’è molto di più di quello che si vede a una prima lettura, ma con questo non intendo affatto dire che lo scrittore debba spiegarlo né organizzare visite guidate nelle zone più impervie del suo lavoro.
A questo proposito, ricordo che lei ha anche messo in guardia gli scrittori dal parlare di quello su cui stanno lavorando perché in qualche modo potrebbero “sbriciolarlo”. Come mai? Glielo chiedo perché molti autori, mi vengono in mente Twain, Wilde, Thurber, Steffens, sembra che abbiano limato alcuni loro testi dopo aver sentito il parere delle persone alle quali li avevano letti.
Non credo che Mark Twain abbia mai letto Huckleberry Finn a nessuno, altrimenti è assai probabile che gli avrebbero fatto tagliare le parti meglio riuscite e ampliare quelle mediocri. Wilde, invece, a detta di chi lo conosceva, era molto più abile come oratore che come scrittore. E anche Steffens era più apprezzabile quando parlava. A dire il vero, era difficile credere sia a quello che raccontava sia a quello che scriveva, e nel corso degli anni l’ho sentito cambiare versione molte volte. Per quel che riguarda Thurber, se è bravo a parlare quanto lo è a scrivere, deve essere senz’altro un magnifico oratore, per nulla noioso. Ma tra le persone di mia conoscenza, quello che parla del proprio mestiere nella maniera più affascinante, lucida e sobria, è Juan Belmonte, il matador.
Saprebbe dire quanto il suo stile personalissimo sia frutto di un’elaborazione ragionata?
Questa è una domanda complessa e faticosa, e se impiegassi due giorni per risponderle poi arriverei a un tale livello di autocoscienza che non sarei più in grado di scrivere. Devo dire, però, che quello che taluni critici improvvisati definiscono “stile” in molti casi non è altro che l’inevitabile stonatura di chi si è cimentato in qualcosa che non era mai stata fatta prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici delle epoche precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, . non riuscendo ad accorgersi di altro, è proprio quella stonatura. Così quando si comincia a pensare che le stonature, le imprecisioni, siano un nuovo stile, in molti si mettono a imitarlo. Una cosa deplorevole. Una volta mi ha detto che le circostanze in cui certi romanzi e racconti sono stati scritti possono essere illuminanti. Questo vale anche per GIl uccisori. Dieci indiani e Oggi è venerdì, che ha affermato d’aver scritto in un solo giorno, e forse anche per Fiesta, il suo primo romanzo? Vediamo un po’. Fiesta ho cominciato a scriverlo a Valencia il giorno del mio compleanno, il 21 luglio. Ci ero andato con Hadiey, mia moglie, con largo anticipo rispetto all’inizio della feria, il 24, per esser certo di trovare i biglietti. Tutti, alla mia età, avevano già scritto un romanzo, mentre io non riuscivo neanche a buttar giù un paragrafo. Così cominciai il libro il giorno del mio compleanno, continuai a scriverlo per tutta la. feria, a letto, la mattina, e poi, quando andammo a Madrid, continuai lì. A Madrid, non essendoci la feria, riuscimmo a trovare una bella stanza con un tavolino sul quale io potevo scrivere comodamente, e a un passo dall’albergo, in Pasaje Alvarez c’era una birreria dove faceva sempre fresco. Ma a un certo punto scoppiò il gran caldo, allora decidemmo di spostarci a Hendaye, e laggiù, su quella spiaggia meravigliosa, sconfinata, trovammo un alberghetto nel quale lavorai benis-simo. Poi andammo a Parigi e terminai la prima stesura del romanzo nell’appartamento sopra la segheria, al 113 di rue Notre Dame des Champs: da quando avevo iniziato il libro erano passate sei settimane. Feci vedere quella prima stesura a Nathan Asch, il romanziere, che allora aveva ancora un forte accento straniero, e lui mi disse: “Hem, cosa intente qvando dice che ha scritto un romanzo? Un romanzo. Hem, Lei ha scritto un libro ti fiaggi”. Ma non mi lasciai scoraggiare e quando arrivammo all’hotel Taube di Schruns, nel Vorariberg, lavorai a una seconda versione, mantenendo la parte del viaggio (quella sulla battuta di pesca e Pamplona). I racconti di cui parlava, invece, li scrissi tutti lo stesso giorno, a Madrid. Era il 16 maggio e e’era la corrida di San Isidro, eppure nevicava. Prima scrissi Gli uccisori, sul quale avevo tentato di lavorare anche in precedenza ma senza riuscirci. Poi, dopo pranzo, andai a letto per scaldarmi e scrissi Oggi è vener-. dì. Avevo un tale fermento addosso che pensavo di impazzire, avrei potuto scrivere altri sei racconti. Allora mi vestIl e andai da Fornos, il bar dei matadores, mi feci portare del caffè e una volta tornato in albergo scrissi Dieci indiani. Dopo quel racconto mi sentIl talmente triste che bevvi del brandy e me ne andai a dormire. Mi ero dimenticato di cenare ma un cameriere mi portò del bacalao, una bistecca, patate fritte e una bottiglia di Valdepenas. La proprietaria della pensione, che aveva sempre paura che non mangiassi abbastanza, mi aveva mandato su il cameriere. Ricordo che mi sedetti sul letto e cominciai a mangiare e a bere il Valdepenas. Il cameriere disse che me ne avrebbe portata un altra bottiglia, e che la senora voleva sapere se avrei scritto tutta la notte. Dissi di no, che mi sarei riposato un po’. “Perché non prova a scriverne un altro?”, chiese il cameriere. “Perché ne scrivo solo uno al giorno”, risposi. “Che idiozia”, disse lui. “Potrebbe scriverne anche sei.” “Magari domani”,risposi io. “Lo faccia stasera”, ribattè lui. “Perché crede che la signora le abbia mandato su da mangiare?” “Sono stanco”, gli dissi. “Sciocchezze”, rispose lui (“sciocchezze” non fu esattamente la parola che usò). “E stanco solo per aver scritto tre miserevoli storielle? Me ne traduca una.” “Mi lasci in pace”, gli dissi. “Come faccio a scrivere se lei non se ne va dalla mia stanza?” Così mi sedetti di nuovo sul letto e bevendo il Valdepenas pensai che se la prima storia era bella come speravo, allora ero davvero lo scrittore che volevo diventare. Quando concepisce un racconto, fino a che punto il tema, la trama o i personaggi restano definitivi? Alcune volte la storia è chiara fin dal principio. Altre si sviluppa man mano che ci lavoro e quindi all’inizio non ho idea di quel che ne verrà fuori; andando avanti tutto cambia. E grazie a queste modifiche che si può proseguire nella storia e fare ulteriori modifiche. Talvolta procedo così lentamente che mi sembra di non procedere affatto, ma la verità è che le modifiche ci sono eccome e la storia sta andando avanti. Con i romanzi il meccanismo e lo stesso, oppure prima di cominciare lavora a un progetto a cui poi si attiene rigorosamente? Per chi suona la campana ha preso forma giorno dopo giorno. Sapevo come cominciare, ma il resto l’ho inventato via via che scrivevo. E vero che Verdi colline d’Africa, Avere e non avere. Di là dal fiume e tra gli alberi, in origine erano racconti e solo in un secondo momento sono diventati romanzi? E se e così, si può dire che le due forme narrative sono simili al punto che lo scrittore e in grado di passare dall’una all’altra senza dover cominciare da capo? No, non è così. Verdi colline d’Africa non è un romanzo. È stato pensato con la maggior franchezza possibile ed è stato scritto perché fosse estremamente fedele alla realtà: la mia intenzione era di verificare se un libro così concepito, che descrive un paese e fa la cronistoria di un mese di awenimen-ti, può misurarsi con un’opera che è invece frutto dell’immaginazione. Dopo quel libro scrissi Le nevi del Kilimangiaro e La breve vita felice di Francis Macomber, due racconti nati dall’esperienza di quella stessa battuta di caccia che avevo tentato di raccontare in modo veritiero e dettagliato in Verdi colline d’Africa. Avere e non avere e Di là dal fiume e tra gli alberi sono nati, invece, entrambi come racconti. Riesce a passare con facilità da un progetto all’altro, oppure una volta che ha cominciato a lavorare su qualcosa preferisce portarlo a termine? Il fatto che io interrompa un lavoro serio per rispondere a queste domande dimostra la mia stupidità, e per questo dovrei essere punito severamente. Ma stia certo che lo sarò. Si sente in competizione con altri scrittori? No, mai. Una volta cercavo di scrivere meglio di alcuni scrittori del passato che ritenevo avessero un grande valore letterario. Ma ormai è da molto tempo che tento semplicemente di scrivere meglio che posso. Qualche volta ci riesco, quando ho fortuna. Lei pensa che le capacità di uno scrittore diminuiscano con il passare del tempo? In Verdi colline d’Africa a un certo punto dice che gli scrittori americani finiscono per diventare “Vecchie Mamme Hubbard”. Veramente non lo so. La gente che sa il fatto suo dovrebbe continuare a produrre fino a quando la testa’glielo permette. Se va a controllare nel libro che ha citato, si accorgerà che stavo discutendo di letteratura americana con un austriaco completamente privo di senso dell’umorismo, che insisteva a voler parlare con me mentre io volevo fare tutt’altro. Ho riportato quella conversazione parola per parola. Per evitare dichiarazioni improbabili. Una buona percentuale di quegli scambi di battute sono abbastanza decenti. Non abbiamo ancora parlato dei personaggi. I protagonisti delle sue storie sono sempre ispirati a persone che lei ha conosciuto? Ovviamente no. Questo vale solo per alcuni, certo, ma di solito invento i personaggi sulla base delle mia esperienza, di ciò che conosco e di quanto ho capito della gente. Potrebbe spiegarci il processo che trasforma una persona reale in un personaggio di fantasia? Se le rispondessi, quest’intervista farebbe la fortuna degli avvocati in cerca di cause per diffamazione. Lei distingue, come fa E.M. Forster, tra personaggi “piatti” e personaggi “a tutto tondo”? Quando si prova a descrivere qualcuno, ne esce un’immagine piatta, come una fotografia, e dal mio punto di vista non si è ottenuto niente di buono. Se invece lo si costruisce mettendo insieme tutto quello che si, conosce di lui, il personaggio acquista profondità. A quale dei suoi personaggi ripensa con particolare affetto? Ne verrebbe fuori una lista troppo lunga. Allora le piace rileggere i suoi libri. Non le prende mai la voglia di fare qualche modifica? Qualche volta li rileggo per tirarmi su, quando fatico a scrivere. E allora mi rendo conto che facile non è mai stato, anzi, in alcuni casi mi sembrava addirittura impossibile. Come sceglie i nomi dei personaggi? Meglio che posso. / titoli le vengono in mente mentre sta scrivendo la storia? No. Dopo aver finito il racconto o il romanzo faccio una lista di titoli possibili, a volte arrivo anche a cento. Poi comincio a eliminarne, magari finisco per scartarli tutti. Fa così anche quando il titolo di un racconto e chiaramente contenuto nel testo? Penso ad esempio a Colline come elefanti bianchi. Sì, al titolo penso in un secondo momento. A Prunier, dov’ero andato a mangiare le ostriche prima di pranzo, ho incontrato una ragazza che sapevo aveva avuto un aborto. Mi sono avvicinato e abbiamo iniziato a parlare, non di quello che le era successo, ma poi, tornando, ho ripensato alla sua storia, e quando sono arrivato a casa ho saltato il pranzo e ho passato tutto il pomeriggio a scrivere. Quindi quando non scrive rimane un osservatore, alla continua ricerca di qualcosa che potrebbe tornarle utile. Certo. Se uno scrittore smette di osservare è finito. Però non serve che lo faccia consapevolmente, pensando che potrebbe servirgli. Magari all’inizio è diverso, ma col tempo tutto quello che vede finisce nella grande riserva delle cose che ha osservato o che conosce. Ammesso che possa interessare a qualcuno, io quando scrivo cerco sempre di seguire il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sott’acqua. Tutto quello che conosco lo posso eliminare, tenere sommerso, così il mio iceberg sarà più solido. Diventerà la parte nascosta. Se però lo scrittore omette qualcosa proprio perché non la conosce, allora si noterà un grande buco nella storia. // vecchio e il mare avrebbe potuto essere lungo più di mille pagine, avrei potuto sviluppare la storia degli abitanti del villaggio, come si guadagnano il pane, come sono nati, se hanno studiato, avuto figli, ecc. Ma questa è una scelta narrativa che altri scrittori sanno concretizzare in modo eccellente: quando si scrive, il limite consiste sempre in ciò che altri hanno fatto egregiamente. Per questo ho cercato di provare con qualcosa di diverso. Prima di tutto mi sono sforzato di eliminare il superfluo e trasmettere un’esperienza che il lettore potesse percepire come propria, al punto da credere che sia davvero accaduta. E un’operazione difficilissima, alla quale ho lavorato molto. Comunque sia, tralasciando i dettagli tecnici, in quel casoho avuto grande fortuna e sono riuscito a comunicare in tutti i suoi aspetti un’esperienza che mai nessuno aveva raccontato prima. La mia fortuna era proprio di avere tra le mani un brav’uomo e un bravo ragazzo, quando negli ultimi tempi gli scrittori si erano dimenticati dell’esistenza di personaggi di questo tipo. E oltre agli uomini c’era l’oceano, di cui vale altrettanto la pena scrivere, quindi sono staro fortunato di nuovo. Conoscevo il modo in cui i marlin si accoppiano, per cui ho lasciato perdere. In quello stesso lembo di mare avevo visto un branco d’una cinquantina di balene, e una volta avevo tentato di arpionarne una lunga quasi novanta metri, ma non ce l’avevo fatta. E così anche questa storia l’avevo messa da parte. In pratica ho lasciato fuori tutti i racconti che sapevo sul villaggio di pescatori. Cioè la parte sommersa dell’iceberg. Archibaid MacLeish parlava di un metodo per trasmettere l’esperienza al lettore che lei avrebbe appreso quando si occupava di baseball per il Kansas City Star. // metodo consisterebbe nel comunicare attraverso piccoli dettagli l’esperienza che poi viene trattenuta dal lettore dentro di sé: in questo modo, il lettore ricompone la storia nel suo complesso diventando consapevole di cose che conosceva solo nel subconscio... E un aneddoto apocrifo. Non mi sono mai occupato di baseball per lo Star. Quello che Archie in realtà tentava di ricordare è come, intorno al 1920, a Chicago, io fossi alla ricerca costante di cose che pur passando inosservate scatenano emozioni, come il modo in cui un battitore getta il guanto senza voltarsi a guardare dove va a cadere; lo stridere delle scarpe piatte di gomma del lottatore sul tappeto del ring; il grigiore della pelle di Jack Blackburn, appena fuori dal carcere; e tutti quegli altri dettagli che notavo come schizzi d’un pittore. Prima di conoscere la storia di Jack Blackburn, gli vedevi il colore grigio addosso, le cicatrici e il modo in cuifaceva girare i tacchi a chiunque avesse osato avvicinarlo. Sono questi i particolari che commuovono ancora prima che si sappia la storia. Le e mai capitato di descrivere una situazione della quale non avesse alcuna conoscenza diretta? Che strana domanda che è questa. Per conoscenza diretta intende conoscenza carnale? Perché in questo caso la risposta sarebbe sì. Se uno scrittore è sufficientemente bravo non ha bisogno di descrivere. Quello che fa è inventare o trarre spunto da conoscenze personali, o impersonali, e qualche volta anche da conoscenze d’inspiegabile natura che sembrano legate alla sua esperienza familiare, ancestrale. Chi insegna ai piccioni viaggiatori a tornare al posto dal quale sono partiti? Da dove arriva il coraggio dei tori che combattono? E i cani da caccia, dove prendono quel fiuto? Questa è un’elaborazione, o una condensazione, di quello che ci dicevamo a Madrid quando la testa non mi funzionava granché. Quanta distanza dev’esserci dall’esperienza perché sia in grado di scriverne? L’incidente aereo in Africa nel quale fu coinvolto, per esempio? Dipènde dal tipo di esperienza. C’è una parte di noi che osserva gli eventi con estremo distacco fin dal principio, mentre un’altra ne è coinvolta fino in fondo. Non credo ci siano regole per stabilire quando possiamo scrivere di qualcosa che ci è accaduto. Dipende dall’equilibrio e dalle capacità di recupero di ciascuno. Schiantarsi con un aereo in fiamme è sicuramente una valida esperienza per un bravo scrittore: si imparano parecchie cose importanti e molto in fretta. Che effettivamente gli torneranno Utili lo saprà solo se riuscirà a sopravvivere. E sopravvivere, con onore — che parola fuori moda ma quanto mai essenziale —, è molto difficile ma quanto mai vitale per uno scrittore. Quelli che non ce la fanno sono sempre i più amati, perché nessuno li vede impegnati nella loro lunga, estenuante, inesorabile lotta per fare le cose nella maniera in cui lo ritengono giusto, e concluderle prima di morire. Quelli che muoiono giovani e per delle buone ragioni li si preferisce sempre perché si fa meno fatica a capirli, dato che risultano umani. La sconfitta e la codardia, anche se celata, sono più umane e dunque più apprezzabili. Potrei domandarle in che misura lo scrittore, secondo lei, dovrebbe occuparsi dei problemi sociopolitici del proprio tempo? Ciascuno ha la propria coscienza e non ci sono regole che stabiliscono come debba funzionare. Ma una cosa è certa, che se uno scrive di politica e il suo lavoro è destinato a restare nel tempo, il lettore si vedrà costretto a trascurare tutte le parti intrise di politica. Molti dei cosiddetti autori impegnati cambiano di frequente opinione politica, il che è emozionante, per loro e per le riviste su cui scrivono. Certe volte devono perfino riscrivere quello che pensano... e pure alla svelta. Forse potremmo considerarla una forma di ricerca della felicità. // peso politico che Ezra Pound ha avuto sul segregazionista Kasper l’ha condotta a cambiare parere circa il fatto che il poeta dovrebbe essere rilasciato dall ‘ospedale psichiatrico St. Elizabeth^ Assolutamente no. Io sono convinto che se Ezra acconsentisse a sottoscrivere l’impegno ad abbandonare ogni attività politica, bisognerebbe rilasciarlo e consentirgli di dedicarsi alla poesia in Italia. Sarei ben felice di vedere Kasper in galera al più presto. I grandi poeti non fanno necessariamente bene alle piccole esplorarne! ne ai boyscouf, e non esercitano neanche una magnifica influenza sui giovani. Per citarne alcuni, Verlaine, Rimbaud, Shelley, Byron, Baudelaire, Proust, Gide. Non li si poteva certo rinchiudere per impedire ai Kasper del momento di scimmiottare il loro pensiero, i loro comportamenti o la loro morale. E sono sicuro che tra dieci anni bisognerà aggiungere una nota a questo paragrafo per spiegare chi era Kasper. Potrebbe affermare che il suo lavoro ha un qualche intento didattico? Didattico è una parola che è stata usata impropriamente e che ora si è svuotata di significato. Morte nel pomeriggio è un libro istruttivo. Qualcuno ha detto che gli autori affrontano volutamente solo una o due idee nei loro libri. Potrebbe dire lo stesso anche per i suoi romanzi? Chi l’ha detto? Mi sembra un po’ troppo semplicistico. Forse l’ha detto qualcuno che ha solo due idee in testa. beh, mettiamola così, allora: Graham Greene ha detto che una passione dominante da a uno scaffale di romanzi l’unità di un sistema. E mi pare che lei stesso abbia detto che la grande scrittura nasce da un senso di ingiustizia. Lei ritiene importante che uno scrittore si senta spinto da una passione così trascinante? Greene sa fare dichiarazioni con una facilità che proprio non mi appartiene. Per me riuscire a generalizzare su uno scaffale di romanzi, su uno stormo di beccaccini o su un branco d’oche è impossibile, comunque ci proverò. Uno scrittore che non possieda il senso di giustizia o ingiustizia farebbe meglio a compilare l’annuario di una scuola per bambini superdotati, invece di scrivere romanzi. Ecco un’altra generalizzazione. Vede? Non sono poi così difficili, se sufficientemente ovvie. La cosa importante, per uno scrittore, è di sviluppare un merdadetector a prova d’urto. È un radar per scrittori che tutti i più grandi avevano. Conluderei con una domanda fondamentale: in quanto scrittore creativo, quale pensa sia la funzione della sua arte? Perché proprio una rappresentazione della realtà, e non la realtà stessa? Perché sorprendersi? Con tutto quello cne ci è accaduto, che esiste intorno a noi, che conosciamo e che non possiamo conoscere, inventiamo qualcosa che non è soltanto una rappresentazione ma una creazione totalmente nuova e più reale di qualunque altra realtà viva ed esistente, e così la rendiamo pulsante, e se riusciamo a farlo bene diventa immortale. Ecco perché scriviamo, e per qualche altra ragione forse che ci è del tutto sconosciuta. Ma quanti altri motivi ci saranno che noi non sappiamo? Numero 18. 1958