Paolo Mastrolilli, la Stampa 8/8/2012, 8 agosto 2012
L’IRAN AFFONDA STANDARD CHARTERED
Per ora, i suoi affari con l’Iran sono costati alla banca britannica Standard Chartered 17 miliardi di dollari. Tanto ha perso ieri sui mercati, dopo che sono diventate note le accuse ricevute dal Department of Financial Services di New York, sulle transazioni condotte con Teheran in violazione delle sanzioni internazionali. Lo scandalo però è appena esploso, e potrebbe portare anche più lontano, fino alla cancellazione della licenza per lavorare negli Stati Uniti.
Secondo le autorità bancarie di Manhattan, SCB ha portato a termine oltre 60.000 operazioni, per riciclare 250 miliardi di dollari incassati dalla Repubblica islamica attraverso la vendita di petrolio. Le transazioni sono passate tutte attraverso la sede di New York, e sono avvenute nell’arco di dieci anni, a partire dal 1995. Quello è l’anno in cui il presidente Clinton aveva imposto alcune sanzioni all’Iran, che sono state regolarmente aggirate, per far arrivare soldi a Teheran che potrebbero essere stati impiegati poi per sviluppare il programma nucleare, o anche finanziare attività terroristiche. L’atto di accusa del Department of Financial Services è molto duro, perché in sostanza accusa la banca britannica di complicità con un nemico dei paesi occidentali. I manager avrebbero usato la filiale di New York «come lo strumento per affari proibiti con l’Iran, che hanno senza dubbio sostenuto una minaccia globale alla pace e alla stabilità». Tutto questo, sempre secondo le autorità bancarie della Grande Mela, fa meritare a Standard Chartered la qualifica di “rogue institution”, cioé “istituzione canaglia”, secondo il linguaggio che si usa in diplomazia per criticare i paesi che non si attengono alle regole internazionali. Attività simili, infatti, sarebbero avvenute anche con Myanmar, la Libia e il Sudan. Il problema non sta solo nelle transazioni condotte, ma nelle tattiche adottate apposta per mascherarle. Infatti SCB era arrivata a dare un nome in codice, “Project Gazelle”, a queste operazioni, e aveva distribuito tra i suoi manager un manuale che spiegava come nasconderle. L’opuscolo si chiamava “Quality Operating Procedure Iranian Bank Processing”, e tra le altre cose suggeriva di non usare mai i nomi dei clienti per evitare che potessero essere identificati. Nell’ottobre del 2006 il capo delle attività in America aveva mandato una mail ai superiori di Londra, avvertendoli che queste transazioni potevano avere «seri effetti legali», e quindi provocare «un danno catastrofico alla nostra reputazione». Uno dei direttori gli aveva risposto così: «Voi fottuti americani. Chi siete per dire a noi, al resto del mondo, che non possiamo concludere affari con gli iraniani?». Nonostante questo, la banca aveva avviato una verifiche delle operazioni attraverso la società di revisione Deloitte & Touche, ma anche i controllori avevano finito per omettere la verità, quando si erano imbattuti in informazioni giudicate «politicamente troppo delicate».
La banca ha risposto di essere sorpresa dalle accuse, anche perché stava discutendo da mesi la questione con il Department of Financial Services, e aveva trovato operazioni discutibili per soli 14 milioni: tutte le altre rientravano nelle eccezioni previste dalla cosìddetta regola “U-turn”, che consentiva di muovere capitali di Teheran se originavano e finivano a istituzioni non iraniane.
Il ceo Peter Sands ha interrotto le vacanze per preparare la difesa, visto che le autorità di New York hanno convocato la banca il 15 agosto per chiarimenti. Nel frattempo però i mercati hanno già cominciato a punirla, svendendo le sue azioni.