Franco Brevini, Corriere della Sera 05/08/2012, 5 agosto 2012
LA LEGGENDA DELLA CIMA CANCELLATA DALLE MAPPE
All’inizio del mito del Monte Bianco c’è un buco nero fatto di rimozione e di maledizione. Per secoli, a dispetto della mole, il Monte Bianco non è esistito. È un vuoto geografico e cartografico, una dismissione dell’immaginario. Nessuno lo vede e nessuno ne parla. I romani battezzano i colli che lo circondano, Courmayeur è frequentata prima per le miniere d’oro e d’argento, poi per le acque minerali e con Chamonix i vescovi di Ginevra fanno la spola nel ’700 per impartire esorcistiche benedizioni ai ghiacciai in devastante avanzata nel corso della cosiddetta «piccola età glaciale». Ma del Monte Bianco, che è la più poderosa e la più complessa montagna delle Alpi, non troviamo traccia.
Il suo debutto avviene nel ’500 ma all’insegna del diabolico e del teratologico. Lo racconta Carlo Passerin d’Entrèves. Un Mystère, conservato nella cattedrale di Aosta, ricorda la spedizione di San Bernardo per scacciare i demoni, che infestavano il Mont Joux, l’odierno passo del Gran San Bernardo. Alle deformi creature, emblemi del paganesimo, il santo ordina di gettarsi nei crepacci del «Monmalet», di cui si preoccupa perfino di fornire la posizione: tra le diocesi di «Oste, Genève, Tarenthèse et Lyon». Il Bianco esordirà sulle carte geografiche solo a partire dai primi del ’600. Diversi saranno i toponimi ma identico il riferimento: Mont Malet, Mont Malay, Mont Maudit, Montagne Maudite. Una maledizione destinata a riconvertirsi in una benedizione per l’economia delle vallate circostanti. Ma pronta e essere riesumata a ogni incidente alpinistico.
Il nome Monte Bianco compare solo a metà del XVIII secolo ed è un nome di importazione. Lo impiega l’ottico Pierre Martel di Ginevra, raccontando la spedizione alla Mer de Glace compiuta da due inglesi, Windham e Pococke, nel 1741. Con loro l’alta montagna e i ghiacciai entrano nella cultura dell’epoca, anche se la vera consacrazione arriverà vent’anni dopo con la Nouvelle Heloïse di Rousseau. Il Monte Bianco è stato un’«invenzione» di cittadini, i quali si sono accorti di lui solo nel ’700, nonostante lo sguardo di chi nelle belle giornate passeggi sulle rive del lago di Ginevra corra sulla catena scintillante dei suoi ghiacci.
La sua fama crebbe nel secondo ’700, associata al primato della vetta più alta. A promuoverne la prima ascensione fu nel 1760 il naturalista ginevrino Horace Bénédict de Saussure. Fece affiggere sulle parrocchie della valle di Chamonix un bando, in cui prometteva un cospicuo compenso a chi avesse scoperto un itinerario per raggiungere la cima più alta. L’impresa riuscì 26 anni dopo a un montanaro di nome Jacques Balmat e al medico della valle, che si chiamava Michel Gabriel Paccard. Tutti poterono rendersi conto allora che non c’erano né diavoli, né folletti a infestare l’alta quota e le anime dei trapassati non turbavano i silenzi azzurrini dei ghiacci. Ai cacciatori di camosci e ai cercatori di cristalli, per secoli i soli che avessero osato spingersi in quelle sterili plaghe, si sostituivano le carovane degli alpinisti i quali, se dovevano lottare con dei fantasmi, erano fantasmi tutti interiori: quelli suscitati dalla sfida alla sublime, smisurata grandezza dell’alta montagna.
Le Alpi diventano allora un nuovo, affascinante terreno di gioco, inaugurando la più sconvolgente trasformazione economica, antropologica e culturale mai vissuta dalle vallate alpine. Clamoroso il successo di Chamonix, un villaggio ai piedi del Monte Bianco, pressoché sconosciuto a metà del ’700, oggi visitato da oltre quattro milioni di persone all’anno. Al Montenvers salì nel 1860 la coppia imperiale francese e al rifugio Torino si inerpicò nel 1888 la Regina Margherita. Alla grande montagna dedicarono poesie quattro fra i maggiori lirici dell’età romantica. Oltre a Coleridge, autore del poema lirico Hymn before Sunrise in the Vale of Chamouny, Shelley scrisse Mont Blanc. Lines written in the Vale of Chamouni, Wordsworth incluse una descrizione del massiccio nel sesto libro del Preludio, mentre Byron lo tratteggiò nel I atto del Manfred. Una scena del Frankenstein di Mary Shelley è ambientata sulla Mer de Glace, mentre Carducci, durante i suoi soggiorni a Courmayeur, avrebbe immortalato il Dente del Gigante. A un tratto la caligine ravvolta / intorno al Montebianco ecco si squaglia / e purga nel sereno aere disciolta: // via tra lo sdrucio de la nuvolaglia / erto, aguzzo, feroce si protende / e, mentre il ciel di sua minaccia taglia, // il Dente del Gigante al sol risplende
Nell’800 il Monte Bianco letteralmente conquistò l’Europa. Albert Smith, un letterato e giornalista inglese, costruì un diorama, in cui raccontava la salita alla vetta. Con il suo show montato su un calesse, Smith girò l’Inghilterra per due o tre anni e nel 1852 ottenne la consacrazione dell’Aegyptian Hall a Piccadilly. Pare che The Ascent of Mont Blanc, cui capitò di assistere anche a Dickens e che, su richiesta della regina Vittoria, venne messa in scena a Windsor per i ragazzi della corte, abbia avuto duemila repliche, fruttando a Smith ben trentamila sterline e contribuendo in modo determinante alla fortuna dell’alpinismo e del Monte Bianco fra il pubblico britannico.
Oggi la piatta cresta ventosa, che alle 18.30 dell’8 agosto 1786 accolse gli infreddoliti ed esausti Paccard e Balmat, è calcata ogni giorno da non meno di trecento persone, salite come tenaci formiche da tutti i versanti. Si aprono gli zaini delle merende e squillano i cellulari. Basta moltiplicare questi numeri per le centinaia di vette del massiccio, per avere un’idea dell’invasione di massa del tetto d’Europa.
Il Cervino, come voleva John Ruskin, è the «noblest cliff of Europe». Ma, appunto, è un grande, stupendo scoglio. Il Rosa esibisce impressionanti distese glaciali, che ricordano la Groenlandia. Ma il Bianco è un mondo. Ed è la Mecca dell’alpinismo internazionale. Nessun’altra montagna assomma tanti itinerari divenuti mitici: la nord delle Jorasses, la Brenva, il Pilone Centrale, le Aiguilles de Chamonix, il Dente del Gigante. Nei due mesi estivi, carichi di adrenalina, gli scalatori di tutto il mondo pongono l’assedio al massiccio, decisi a portarsi a casa il loro frammento di gloria, ripercorrendo le vie di giganti dell’alpinismo come Graham Brown, Gervasutti, Cassin, Bonatti, Rébuffat. Qui si trova il più compatto granito delle Alpi e il sesto grado più alto d’Europa. Ma vi sono anche le grandes courses in altitudine su creste di neve sottili come rasoi e le goulottes ghiacciate, il misto più impegnativo, le nord più tetre e repulsive. Purtroppo la globalizzazione ha declassato anche il monarca delle Alpi, a fronte dell’emergere dei giganti dell’Himalaya, delle torri granitiche della Patagonia, dei colossi di ghiaccio dell’Antartide. Eppure il Monte Bianco resiste, carico di allori, di primati e di folla. Una domestica, testarda icona dell’avventura, che si difende come può dall’assalto di un turismo tristemente specializzato nel banalizzare ogni destinazione.
Franco Brevini