Giuseppe Genna, Corriere della Sera 05/08/2012, 5 agosto 2012
TRAFORI. QUELLA LOTTA SENZA TREGUA TRA GLI UOMINI E LE PIETRE
Da quando la specie si è eretta, è in atto tra gli umani e la pietra una lotta senza tregua. Il nostro odio disinteressato verso la pietra è pari soltanto alla venerazione di cui ne facemmo oggetto in tempi lontani. Appena messici su due piedi, frantumammo rocce per lavorare selci. Poi giunse il sacro terrore con cui si usarono pietre per erigere templi divini o elaborare leggende. Come quella di Deucalione e Pirra, variante greca del mito del diluvio universale — è a questa coppia che dagli dei è concesso di ripopolare la terra inondata dalle acque — traforando e lanciando alle proprie spalle massi e pietre. Il mondo torna a vivere, gli uomini incominciano nuovamente a termitizzarlo.
Foriamo la pietra a destra e a manca ma soprattutto in basso, poiché non possiamo scavare in direzione del cielo (ma lo faremo, una volta sbarcati stabilmente sulla Luna o su Marte: è già prevista l’estrazione mineraria). È una corsa impazzita contro la pietra quella del petrolio, l’oro ipogeo che segna col suo marchio oleoso l’era in cui viviamo. Una corsa a trivellare, bucare, scavare per estrarre. Dalle pietre risucchiamo la linfa che spinge all’estremo il nostro impulso inconscio a sfibrare le risorse, a mutare ogni ambiente in un vantaggio e ogni desiderio in una necessità. Ci ferma, noi animali che sbricioliamo pietre, solo un evento inesplicabile e quindi forse divino — se caduta dal cielo, la pietra diviene sacra, come l’Omphalos di Delfi o la Pietra Nera della Ka’aba.
Dopo il mito, l’immaginario e la storia si fanno serbatoi di immagini e memorie. Soltanto trent’anni fa il traforo petrolifero intensivo forgiava l’icona bianca e fulgente del JR di Dallas, ma due generazioni prima di quella caricatura texana gli italiani fecero i conti con il dramma dell’uomo che scava in labirinti instabili e pericolosi, nel delirio crudele che oppone la sopravvivenza al rischio della tragedia.
Nell’agosto 1956, a Marcinelle, in Belgio, presso una miniera di carbone, rimangono vittime 262 minatori, in gran parte nostri connazionali. Quel sacrificio manifesta l’emersione di una figura che emblematizza il rapporto tra l’uomo e la pietra. È il minatore, l’uomo che per lavoro lotta contro la pietra, la cui epica fosca e muta ha il suo inquietante contraltare in un evento del 1935, quando Hitler passò in rassegna i minatori della Saar in festa.
Hitler, con questa sua prima mossa che avrebbe condotto alla guerra, si annetteva la Saar per via delle miniere: metropoli sotterranee dove un popolo annerito di cimici umane scavava nel buio in labirinti di carbone. Complessi di tunnel e gallerie, vuoti a strapiombo, percorsi da ponti instabili di legno, da perforazioni secolari. Qui, come ovunque, l’uomo succhiava la terra. Come gli eroi che scavarono sotto il Monte Bianco e sotto tutte le cime che la modernità ha imposto di penetrare, questi lavoratori sono gli abitanti del girone degli affaticati, non meritano di conoscere l’inferno poiché lo hanno vissuto in terra: nella terra, dentro la pietra.
Che si tratti di greggio o carbone o velocità, i trafori forniscono una materia prima. Nel caso dell’Italia, con ampia risonanza nel mondo, la materia prima è immagine pura: la foto di un bimbo. In un pozzo artesiano scavato abusivamente nelle campagne di Vermicino, vicino a Frascati, cade e muore il piccolo Alfredino Rampi, di anni sei. Muore dopo che, sotto le luci dei riflettori di un’allucinata diretta tv (un record mondiale per durata) macchinari impressionanti, speleologi microscopici e perfino funamboli tentano di avere ragione di quel minimo traforo. Nessuna perforazione obliqua od orizzontale fu possibile, ogni tentativo fallì. Quella morte infantile inaugurava l’immaginario italiano degli anni Ottanta.
Si trattava della dimostrazione che la pietra è e rimane più forte — basti pensare che l’uomo non è riuscito a perforare oltre 12 chilometri la crosta del pianeta su cui abita. Ciò non toglie che, se non può ucciderlo o ferirlo, l’uomo non rinunci a sfregiare il pianeta. Le perforazioni che la Cina realizzerà per erigere una megalopoli da 42 milioni di abitanti a partire da Guangzhou, gli immani lavori di traforo che la Turchia ha messo in atto per realizzare l’immenso sistema idroelettrico con le dighe del cosiddetto GAP, lo scempio in Val di Susa per la linea ad alta velocità Torino-Lione con il tunnel di base da realizzare a 500 metri sotto il livello del mare e sotto dieci cime — sono tutti simboli letterali di questa infaticabile opera di assedio a un pianeta che non appare più imperturbabile come una pietra.
In «2001 - Odissea nello spazio», tra i molti momenti memorabili, ne spicca uno più memorabile degli altri: la scimmia umana si erge trionfante, avendo scoperto lo strumento, il primo, con cui ha ucciso un simile: è un osso, che viene levato in cielo, lanciato nell’etere per trasformarsi, in un salto di millenni, in un veicolo spaziale, che dell’osso ricorda la forma. Prima di scoprire l’arma, il primate scava nel pietrisco. È un momento evolutivo fondamentale a ispirare il nostro antenato nella scelta della prima arma: la visione di una pietra che è venuta dal cielo, un monolito che irradia futuro. Senza quella pietra, l’evoluzione avrebbe tardato. È un monito del regista Kubrick o una verità planetaria? A furia di perforazioni e scarnificazioni, a furia di indifferenza verso la Grande Madre Pietra che è più indifferente di noi, forse presto lo scopriremo.
Giuseppe Genna