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 2012  agosto 08 Mercoledì calendario

«IL PESO DI UNA FABBRICA-CITTÀ»

«L’incidenza dell’Ilva sulla nostra economia è abnorme. Secondo una stima della Banca d’Italia l’impianto siderurgico e la costellazione di attività ad esso connesse pesano per il 75% sul Pil della provincia di Taranto e per il 20% sulle esportazioni della Puglia. Se l’acciaieria tutto a un tratto sparisse, la nostra città passerebbe in poco tempo da 250mila a 30mila abitanti». Vincenzo Cesareo, presidente di Confindustria Taranto, è titolare di un gruppo specializzato in impiantistica, carpenteria leggera e ingegneria che fattura 25 milioni di euro e ha 280 addetti.
Nel giorno della decisione dei magistrati Cesareo delinea uno scenario estremamente complesso. La quota monstre di Pil riferibile all’Ilva è un cerchio che ha il suo fuoco nello stabilimento (12.859 dipendenti, di cui 11.454 operai, nell’ultimo dato disponibile) e nei suoi rapporti diretti con un centinaio di aziende, fornitrici di primo livello (tremila addetti e quota di fatturato realizzato con il gruppo Riva sopra il 50 per cento). «È fisiologico - osserva Giovanni Ferri, ex World Bank oggi direttore del dipartimento di economia dell’Università di Bari - che un gigante come l’Ilva abbia tanta parte in un tessuto economico in cui la vocazione industriale, intorno alla siderurgia e alla cantieristica navale, ha dato vita nel Novecento a una rete di Pmi. Vedremo che cosa succederà nei prossimi mesi».
Aggiunge Giampaolo Vitali, segretario del Gruppo economisti di impresa: «C’è il problema del futuro. E c’è la questione del rapporto strategico allacciato, in passato, dalla grande fabbrica con il resto del sistema produttivo locale". Certo, ormai i "cartellinati" sono un ricordo lontano. «I cartellinati - spiega Cesareo - erano i dipendenti di ditte esterne alla vecchia Italsider, che potevano entrare e uscire liberamente dallo stabilimento grazie, appunto, a un cartellino. A un certo punto, se ne saranno contati settemila. L’azienda che li aveva a bilancio e che li cedeva per tutto l’anno all’Italsider poteva anche non possedere una sede. Di solito realizzava il cento per cento del suo fatturato con l’Iri. Peccato che non avesse alcuno stimolo a innovarsi, a cambiare le tecnologie, a migliorare la qualità dei suoi addetti. Ci pensava l’Italsider, ad assorbirli».
Dunque, a parte alcune eccezioni, il tessuto produttivo tarantino, negli anni della decadenza dell’economia pubblica, era debole e sfilacciato. Di fatto, foraggiato da Pantalone. «I Riva hanno eliminato tutto questo - dice Cesareo - e hanno fatto pulizia di qualunque strano business si svolgesse all’interno della fabbrica. Prima ne capitavano di tutti i colori. La cosa minima? Chiunque poteva entrare con la propria macchina in Italsider. A fare che cosa? E chi lo sa». Il repulisti innescato dalla privatizzazione del 1995 ha provocato un trauma che ha costretto il sistema produttivo locale a riconfigurarsi. Antonio Lenoci ha fondato, 36 anni fa, la Stoma. «Vent’anni or sono - ricorda Lenoci - con l’Italsider fatturavo il 90 per cento. Ora la quota, con l’Ilva, è scesa al 30 per cento. Una cosa positiva. È giusto diversificare il portafoglio clienti».
La Stoma produce macchine industriali destinate non più solo alla siderurgia, ma anche all’eolico, al navale, all’aeronautica e alla petrolchimica. Ha un centinaio di addetti e ricavi per 15 milioni di euro, il 5% spesi in ricerca e la metà ottenuti all’estero. «La grande industria ti forma e ti trasmette competenze, poi però devi imparare a camminare con le tue gambe», dice Lenoci. Taranto è l’Ilva. Ma Taranto è anche il suo porto. Che, però, è l’Ilva. Nel senso che, oggi, l’acciaieria incide per il 65% sul volume dei traffici. Il gruppo Riva svolge in proprio alcuni servizi. Cinque imprese esterne, con i loro cento addetti, completano il suo ciclo logistico. L’acciaieria occupa in esclusiva quattro delle sei banchine. Il porto ha progetti di ampliamento nel traffico dei container, per cui si stanno realizzando le infrastrutture. Il budget complessivo di finanza pubblica è di 479 milioni di euro (219 milioni per la piattaforma logistica, 180 milioni per i lavori finalizzati ai nuovi traffici container, 35 milioni per il nuovo nodo ferroviario e 45 milioni per la riqualificazione della banchina pubblica).
«Ilva è dunque fondamentale - rileva Sergio Prete, presidente dell’autorità portuale e commissario straordinario - i suoi problemi non hanno una relazione diretta con i piani di sviluppo del porto, che hanno tempi e logiche proprie. Di certo, però, costituiscono un elemento di perturbazione. Che senso avrebbe fare tutto questo e, poi, da un giorno all’altro ritrovarsi senza il 65% dei traffici?».
Dunque il futuro dello stabilimento, fra il controllo giudiziale e la nomina di Ferrante ad amministratore e custode dell’impianto, avrà tutto intorno ricadute rilevanti. Qualunque cosa accada. Al gruppo Riva, ma anche alla bonifica dell’ambiente per la quale il governo Monti ha stanziato, lo scorso venerdì, 329 milioni di euro pubblici. L’accordo fra esecutivo e enti locali prevede che la cabina di regia sia in capo al presidente della Regione, Nichi Vendola, e identifica in Puglia Sviluppo il soggetto attuatore, per una cifra di 4,5 milioni di euro. «Mi sembra un budget troppo alto - nota Cesareo - è l’1,4% della somma complessiva. E, al di là di questo, mi pare paradossale che, sulla bonifica dei danni provocati dalla siderurgia a Taranto, debba intervenire Bari. Non è campanilismo, il mio. È solo il timore che le imprese locali siano tagliate fuori dai lavori. I nostri imprenditori sono prima di tutto cittadini. Sarebbe un peccato che, dopo avere vissuto quasi cinquant’anni di problemi ambientali, siano esclusi dall’attività di ripristino della normalità».
La scelta di allocazione delle risorse nella politica ambientale è anche una scelta di politica economica. Una delle poche, dati i vincoli finanziari a cui il Paese è sottoposto. Un contesto maledettamente complicato, che non permette più le ingegnerie sistemiche tipiche del modello italiano. Per esempio il mondo del credito non potrà, in caso di una accelerazione della crisi giudiziario-aziendale, avere la funzione sostitutiva dello Stato che ha avuto più di una volta nella storia italiana. «Fino a un minuto prima del crollo di Lehman Brothers - riflette Giovanni Ferri, che è anche presidente della Popolare Bari Corporate Finance - le banche italiane avrebbero potuto, in una emergenza, esercitare la loro tradizionale vocazione di banche di sistema. Dopo la decisione del riesame, vedremo che cosa capiterà in concreto nei prossimi mesi. Certo, se per qualche ragione l’Ilva chiudesse o semplicemente si ridimensionasse, gli spazi di intervento per gli istituti di credito sarebbero molto più ridotti».