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 2012  agosto 08 Mercoledì calendario

Perché le donne non possono avere tutto (originale in scheda 2210271) Nei miei 18 mesi da prima donna direttore della pianificazione delle politiche al dipartimento di Stato – un lavoro da sogno nel campo della politica estera, una professione le cui origini risalgono fino a George Kennan – mi sono ritrovata a New York, all’assemblea annuale dell’Onu che riunisce tutti i ministri degli Esteri e i capi di stato del mondo

Perché le donne non possono avere tutto (originale in scheda 2210271) Nei miei 18 mesi da prima donna direttore della pianificazione delle politiche al dipartimento di Stato – un lavoro da sogno nel campo della politica estera, una professione le cui origini risalgono fino a George Kennan – mi sono ritrovata a New York, all’assemblea annuale dell’Onu che riunisce tutti i ministri degli Esteri e i capi di stato del mondo. Un mercoledì sera il presidente Obama e consorte hanno ospitato un ricevimento elegante al Museo di storia naturale. Bevevo champagne, riverivo dignitari stranieri, socializzavo. Ma non riuscivo a smettere di pensare a mio figlio quattordicenne, che tre settimane prima aveva iniziato il suo ottavo anno di scuola e aveva già ripreso la sua abitudine di non fare i compiti, saltare le lezioni, andare male in matematica e non degnare di attenzione qualsiasi adulto cercasse di aiutarlo. Durante l’estate ci eravamo a malapena parlati o, più precisamente, lui mi ha a malapena parlato. La primavera precedente avevo ricevuto diverse chiamate urgenti ­– sistematicamente nei giorni di importanti riunioni– in cui mi si chiedeva di prendere il primo treno da Washington, dove lavoravo, per Princeton, in New Jersey, dove vivevo. Mio marito, che ha sempre fatto di tutto per agevolare la mia carriera, si è preso cura di lui e di suo fratello, che ha 12 anni, durante la settimana; al di là di quelle emergenze, io tornavo a casa solo nei week-end. Più tardi a quel ricevimento ho incontrato una collega che ricopriva una posizione di primo piano alla Casa Bianca. Aveva due figli dell’età dei miei, ma aveva scelto di portarli dalla California a Washington, dove lavorava, e questo costringeva suo marito a fare il pendolare. Le ho raccontato di come mi risultasse difficile lo stare lontano da mio figlio quando lui aveva chiaramente bisogno di me. Quindi le ho detto: “Quando questo ricevimento sarà finito, scriverò un articolo dal titolo Le donne non possono avere tutto”. Lei inorridì: “Non puoi scrivere una cosa del genere. Tu, poi...”. Intendeva dire che un’affermazione del genere fatta da una donna che ha avuto una carriera importante – una che è un modello per le altre – sarebbe stato un segnale terribile per le giovani generazioni di donne. Alla fine del pomeriggio mi aveva persuaso, ma per il resto del mio periodo a Washington mi sono resa sempre più conto che le convinzioni femministe su cui avevo costruito la mia carriera mi stavano scivolando fin sotto i piedi. Avevo sempre pensato che se fossi riuscita ad avere un lavoro nella politica estera al Dipartimento di Stato o alla Casa Bianca mentre il mio partito era al potere non avrei mollato finché avessi avuto la possibilità di fare il lavoro che amavo. Ma nel gennaio del 2011, quando si è conclusa la mia aspettativa di due anni dall’Università di Princeton, sono tornata a casa il prima possibile. Al mio rientro ho fatto una dura scoperta. Quando la gente mi chiedeva perché avessi lasciato il governo, io rispondevo che ero tornata a casa non solo per le regole di Princeton (dopo due anni di aspettativa perdi la tua cattedra) ma anche perché avevo il desiderio di stare con la mia famiglia ed ero arrivata alla conclusione che combinare il lavoro di governo ad alto livello con le esigenze di due adolescenti non era possibile. Non ho esattamente rinunciato al ruolo di donna in carriera a tempo pieno: tengo un corso a tempo pieno, scrivo regolarmente articoli di politica estera per la stampa e per il Web, tengo 40-50 discorsi all’anno, sono regolarmente in tv o alla radio e sto preparando un nuovo volume accademico. Ma sistematicamente dalle altre donne della mia età o più anziane ricevevo risposte che andavano dalla delusione (“è un peccato che tu abbia dovuto lasciare Washington”) alla condiscendenza (“non farei della tua esperienza un caso generale, io non ho mai dovuto scendere a compromessi e i miei ragazzi sono venuti su alla grande”). Il primo genere di reazioni, con l’idea sottointesa che la mia scelta era in qualche modo triste o sfortunata, era abbastanza irritante. Ma era il secondo genere di reazioni - quello che si basava sull’assunto per il quale il mio essere madre e/o il mio impegno professionale erano in qualche modo sotto lo standard - che mi scatenavano una rabbia cieca. Improvvisamente, alla fine, il penny è caduto [espressione per definire la situazione in cui qualcuno si accorge di qualcosa di cui tutti gli altri si erano resi conto, ndr]. Per tutta la mia vita sono stata sulla sponda opposta. Sono stata una donna che ascoltava con un sorrisetto di superiorità le altre donne che gli raccontavano di avere scelto di prendersi una pausa o scegliersi una carriera meno competitiva per potere passare più tempo con la loro famiglia. Sono stata un donna che si compiaceva della sua costante adesione alla causa femminista, chiacchierando con aria di sufficienza con la sempre più ristretta cerchia delle compagne di college o della scuola di Legge che hanno raggiunto e mantenuto il loro posto sui gradini più alti della loro professione. Ero quella che diceva alle giovani donne che venivano alle mie lezioni che si può avere tutto e fare tutto, indipendentemente dal campo in cui si lavora. Il che significa che avevo contribuito, seppur involontariamente, a convincere milioni di donne che devono sentirsi in colpa se non riescono a fare carriera alla velocità degli uomini e nello stesso tempo avere una famiglia e un’attiva vita familiare (ed essere anche magre e belle). L’estate scorsa sono andata a tenere una lezione pubblica ad Oxford. Su richiesta di un borsista Rhodes che conosco ho accettato di parlare ai borsisti della conciliazione tra famiglia e lavoro. Ho finito per parlare a un gruppo di una quarantina di uomini e donne alla metà dei loro vent’anni. Ne è venuto fuori un insieme di riflessioni molto franche su come fosse stato inaspettatamente duro fare il lavoro che volevo agli alti livelli di governo ed essere la madre che desideravo essere, in un momento molto esigente per i miei bambini (anche se mio marito, un professore universitario, era disposto a fare la parte del leone nel prendersi cura dei figli nei due anni in cui ero a Washington). Ho concluso dicendo che quel periodo di lavoro mi ha convinto che ulteriori miei impegni di governo sarebbero stati molto improbabili finché i miei figli fossero rimasti in casa. L’uditorio era estasiato e mi ha fatto molte domande intelligenti. Una delle prime l’ha fatta una ragazza che ha iniziato ringraziandomi per “non averci dato un altro inconsistente potete avere tutto”. Quasi tutte le donne nella stanza progettavano di combinare carriera e famiglia in qualche modo. Ma quasi tutte avevano capito e accettato che avrebbero dovuto fare dei compromessi che gli uomini nella loro vita avrebbero avuto meno probabilità di dover fare. La disarmante distanza tra le reazioni che ho avuto da quelle ragazze (e da altre come loro) e le reazioni che avevo ascoltato dalle mie colleghe mi ha spinto a scrivere questo articolo. Le donne della mia generazione sono rimaste aggrappate al credo femminista con cui sono state cresciute, anche se i nostri ranghi sono stati progressivamente assottigliati da irrisolvibili tensioni tra la famiglia e la carriera, perché siamo determinate a non ammainare la bandiera per le prossime generazioni. Ma quando molti membri della generazione più giovane hanno smesso di ascoltare, dal momento che ripetere con disinvoltura “potete avere tutto” è semplicemente cammuffare la realtà, è il momento di parlare apertamente. Continuo a credere fortemente che le donne possono “avere tutto” (e anche gli uomini possono). Credo che “possiamo avere tutto allo stesso tempo”. Ma non oggi, non nel modo in cui l’economia e la società americane sono strutturate attualmente. Le mie esperienze degli ultimi tre anni mi hanno portato ad affrontare una serie di fatti scomodi che vanno ampiamente riconosciuti e rapidamente cambiati. Prima del mio lavoro al governo ho fatto carriera all’università come docente di legge e allora decano della Woodrow Wilson School of Public and International Affairs di Princeton. Erano entrambi lavori esigenti, ma il più delle volte ho avuto l’abilità di gestire la mia agenda. Potevo stare con i miei bambini quando ne avevo bisogno e continuare a lavorare bene. Dovevo viaggiare di frequente, ma ho scoperto che potevo compensare la cosa con periodi più lunghi a casa o in vacanza con la famiglia. Sapevo che ero stata fortunata nello scegliermi la carriera, ma non mi ero resa conto di quanto finché non ho passato due anni a Washinton all’interno di una rigida burocrazia, anche con capi comprensivi come Hillary Clinton e la responsabile del suo staff, Cheryl Mills. La mia settimana di lavoro iniziava alle quattro e venti di lunedì mattina, quando mi svegliavo per prendere il treno delle cinque e mezza da Trenton a Washington. Finiva venerdì, tardi, con il treno che mi riportava a casa. Nel frattempo quei giorni erano affollati di riunioni, e quando le riunioni finivano iniziava il lavoro di scrittura, un flusso infinito di appunti, report e commenti su bozze altrui. Per due anni non ho mai lasciato l’ufficio abbastanza presto per andare in un negozio diverso da quelli aperti 24 ore su 24, che voleva dire che tutto quello che va dalla lavanderia allo shopping natalizio doveva essere fatto nei fine settimana, assieme agli eventi sportivi dei bambini, le lezioni di musica, i pranzi di famiglia e le conference call. Avevo diritto a quattro ore di vacanza per ogni periodo di paga, cioè a un giorno di ferie al mese. E a me andava meglio di molti dei miei colleghi di Washington: il segretario Clinton veniva in ufficio deliberatamente alle 8 del mattino e usciva alle 7 di sera apposta per permettere al suo staff di avere più tempo per le loro famiglie (anche se naturalmente lei lavorava prima e dopo, da casa) In breve, dal momento in cui mi sono trovata a fare un lavoro tipico per la grande maggioranza delle donne (e degli uomini), cioè lavorare per ore sull’agenza di qualcun altro, non ero più in grado di essere sia la madre che la professionista che volevo essere, o almeno non con un figlio che viveva una difficile adolescenza. Mi sono resa conto di quello che sarebbe dovuto essere ovvio: avere tutto, ameno per me, dipendeva quasi completamente dal tipo di lavoro che avevo. L’altro lato della questione è la più dura verità: avere tutto non è possibile in molti tipi di lavoro, inclusi gli alti incarichi governativi, o almeno non per molto tempo. Non sono sola in questa presa d’atto. Michèle Flournoy ha lasciato dopo tre anni da sottosegretario alla difesa per la politica, il terzo maggiore incarico nel dipartimento, per passare più tempo a casa con i suoi tre bambini, due dei quali sono adolescenti. Per amore della sua famiglia Karen Hughes si è dimessa da consigliere del presidente George W. Bush dopo un anno e mezzo a Washington per tornare in Texas. Mary Matalin, che ha passato due anni da assistente di Bush e consigliere del vice presidente Dick Cheney prima di ritirarsi per passare più tempo con le sue figlie, ha scritto: “Avere il controllo della tua agenda è l’unico modo con cui le donne che vogliono avere una carriera e una famiglia possono riuscirci”. Già la decisione di fare un passo indietro da una posizione di potere - per mettere la famiglia davanti al lavoro, almeno per una volta - è direttamente in contrasto con le pressioni sociali prevalenti sui professionisti negli Stati Uniti. Una frase la dice tutta sull’attuale atteggiamento nei confronti del lavoro e della famiglia, almeno tra le élite. A Washington “lasciare per passare del tempo con la tua famiglia” è un eufemismo per dire “essere licenziati”. Questa idea è così consolidata che quando Flournoy annunciò le sue dimissioni, lo scorso dicembre, il New York Times scrisse così della sua decisione: “L’annuncio della signora Flournoy ha sorpreso i famigliari e molti funzionari del Pentagono, ma tutti hanno detto che hanno preso per vera la motivazione delle sue dimissioni, non era la tradizionale scusa usata a Washington per i funzionari che in realtà sono stati cacciati”. “Posso assolutamente e inequivocabilmente affermare che la sua decisione di dimettersi non ha niente a che fare con altro che non sia il suo impegno per la famiglia - ha detto Doug Wilson, un alto portavoce del Pentagono -. Amava il suo lavoro e le persone qui le vogliono bene”. Pensate a quello che implica questa “tradizionale scusa di Washington”: è così impensabile che un funzionario voglia davvero dimettersi per passare del tempo con la sua famiglia che questa deve essere una copertura per qualcos’altro. Come potrebbe qualcuno lasciare volontariamente le cerchie del potere per le responsabilità dell’essere genitore? A seconda del proprio punto di vista, è sia ironico o esasperante che questa convinzione resista proprio nella capitale della nazione, nonostante gli impegni di rito ai “valori familiari” all’interno di ogni campagna elettorale. A prescindere, questo sentimento rende estremamente difficile un vero equilibrio vita-lavoro. Ma non può cambiare finché le donne dei piani alti non lo dicono apertamente. Solo di recente ho iniziato a rendermi conto di quanto molte giovani professioniste si sentano sotto attacco da parte di donne della mia età o più vecchie. Di recente, a New York, alla fine di un mio discorso a New York molte donne tra i 60 e i 70 anni sono venute a a dirmi quanto fossero felici di sentirmi parlare da esperta di politica estera. Qualcuna di loro ha confrontato la mia carriera con il percorso che stanno attraversando le “giovani donne oggi”. Una si è lamentata dicendo che le ragazze di oggi “semplicemente non hanno la voglia di andare la fuori e farlo”. Un’altra, che non conosceva le circostanze del mio recente cambio di lavoro, ha detto: “Pensano di dovere scegliere tra la carriera e la famiglia”. Convinzioni simili si ritrovano nel molto pubblicizzato discorso che Sheryl Sandberg, la chief operating officer di Facebook, ha tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico a Barnard nel 2011, così come nel suo intervento alla conferenza TED, nel quale si è lamentata del tristemente esiguo numero di donne ai vertici e ha consigliato alle ragazze di “non mollare prima di lasciare il lavoro”. Quando una donna inizia a pensare ad avere dei bambini, ha detto Sandberg, “non alza più la mano...inizia ad appoggiarsi all’indietro”. Per quanto espresse come incoraggiamento, le esortazioni di Sandberg contengono molti aspetti di rimprovero. Noi che siamo arrivate in alto, o ci stiamo sforzando di riuscirci, stiamo essenzialmente chiedendo alle donne delle generazioni dopo la nostra: ”Qual è il vostro problema?”. Loro hanno una risposta che noi non vogliamo sentire. Dopo il discorso che ho tenuto a New Tork sono andata cena con un gruppo di trentenni. Mi sono seduta tra due donne brillanti, una che lavora all’Onu e l’altra che sta in un grosso studio legale di New York. Come succede quasi sempre in questi casi, hanno iniziato presto a chiedermi della conciliazione tra la famiglia e il lavoro. Quando ho raccontato loro che stavo scrivendo quest’articolo, quella che lavora nello studio legale mi ha detto: “Cerco dei modelli, ma non riesco a trovarne”. Ha spiegato che le donne della sua organizzazione che sono diventate associate e hanno raggiunto posizioni di vertice hanno fatto sacrifici tremendi, “molti dei quali nemmeno li percepiscono...Si prendono due anni di stacco quando i bambini sono piccoli ma quando tornano in ufficio lavorano come pazze per tornare in pista dal punto di vista professionale, il che significa che vedono i loro bambini quando sono neonati ma non quando sono adolescenti, o quasi non li vedono affatto”. La sua amica annuiva, citando tutte le donne affermate che conosceva, tutte praticamente dipendenti da tate al lavoro 24 ore su 24. Entrambe dicevano molto chiaramente che non volevano quel tipo di vita, ma non riuscivano a capire come combinare il successo e la soddisfazione professionale con un vero impegno per la loro famiglia. So di essere stata fortunata nell’essere nata alla fine degli anni ’50 invece che negli anni ’30 come mia madre, o agli inizi del XX secolo come mia nonna. Mia madre si è costruita una carriera di successo e appagante come artista soltanto dopo che io e mio fratello siamo usciti di casa, e dopo che le era stato detto, quando era ventenne, che non poteva andare alla scuola di medicina dove aveva studiato suo padre e dove avrebbe studiato suo fratello, perché, ovviamente, lei doveva sposarsi. Io ho avuto le mie libertà e le mie opportunità grazie al lavoro pioneristico della generazione di donne che ha preceduto la mia, le donne che oggi hanno sessanta, settanta e ottant’anni e hanno affrontato apertamente un tipo di sessismo che oggi vedi solo quando guardi Mad Men, donne che sapevano che l’unico modo di farcela come donna era comportarsi esattamente come un uomo. Va detto:, i desideri materni sarebbero stati fatali per le loro carriere. Ma proprio grazie ai loro progressi oggi si può fare un discorso diverso. Per le donne nei posti di comando è il momento di ammettere che anche se stiamo ancora segnando percorsi nuovi e rompendo nuove barriere molte di noi stanno anche rinforzando una falsità: quella per cui “avere tutto” è, più di qualsiasi altra cosa, una funzione della determinazione personale. Come hanno scritto Kerry Rubin e Lia Macko, le autrici di “Midlife Crisis at 30”, il loro appello appassionato per le donne delle generazioni X e Y: nella nostra ricerca abbiamo scoperto che mentre la parte positiva dell’equazione è stata fortemente celebrata, c’è stata poca discussione sincera tra le donne della nostra età sulle reali barriere e sugli ostacoli che continuano a esistere nel sistema nonostante le opportunità che abbiamo ereditato. Sono ben consapevole che la maggioranza delle donne americane vive problemi che sono molto più grandi di quelli discussi in questo articolo. Scrivo per il mio gruppo demografico, donne benestanti che hanno studiato e hanno avuto il privilegio di potere scegliere tra i primi posti. Forse non abbiamo scelta sul lavorare o meno, dato che il doppio redito in famiglia è diventato indispensabile. Ma abbiamo scelta sul tipo e sul tempo di lavoro che facciamo. Siamo le donne che potrebbero comandare e che dovrebbero essere equamente rappresentate nei ranghi dirigenziali. Milioni di altre donne che lavorano affrontano circostanze di vita molto più difficili. Alcune sono madri single; molte faticano a trovare un qualsiasi lavoro; altre aiutano i loro mariti che non riescono a trovare lavoro. Molte si trovano ad avere a che fare con una vita lavorativa in cui gli asili non sono disponibili o sono molto costosi, gli orari delle scuole non si sposano con quelli del lavoro e le stesse scuole stanno fallendo nell’educazione dei loro figli. Molte di queste donne non si preoccupano di avere tutto, ma solo di tenere quello che hanno. E nonostante le donne, come gruppo, negli ultimi decenni abbiano ottenuto sostanziali miglioramenti nei livelli di reddito, di istruzione e di prestigio, gli economisti Justin Wolfers e Betsey Stevenson hanno dimostrato che le donne di oggi sono più infelici delle donne del 1972, sia in termini assoluti che relativi, cioè in rapporto alla felicità degli uomini. La migliore speranza per migliorare la sorte di tutte le donne, e per chiudere quello che Wolfers e Stevenson definiscono “un nuovo gap generazionale” – misurato in termini di benessere e di salari –, è chiudere il gap ai vertici: eleggere una donna presidente e 50 donne senatrici, assicurarsi che le donne siano equamente rappresentate ai vertici delle aziende e del sistema giudiziario. Solo quando le donne al potere saranno abbastanza sapremo creare una società che funzioni bene davvero per tutte le donne. Quella sarà una società che funzionerà bene per tutti. (Traduzione di Pietro Saccò)