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 2012  agosto 08 Mercoledì calendario

TRUMAN CAPOTE - L’ARTE DELLA NARRAZIONE


Truman Capote vive in una grande casa gialla a Brooklyn Heights, che è stata recentemente ristrutturata con il gusto e l’eleganza che in genere caratterizza tutto ciò di cui si occupa. Quando sono entrata l’ho trovato intento a esaminare una cassa appena arrivata che conteneva un leone di legno. “Ecco!”, ha esclamato mentre lo faceva nascere da una massa di segatura e riccioli di legno. “Ha mai visto una cosa tanto splendida? Io l’ho visto e l’ho comprato. Adesso è tutto mio.”
“È grande”, ho detto. “Dove lo metterà?”
“Ma nel camino, naturalmente”, ha risposto Capote. “Adesso venga in salotto mentre provvedo a far pulire questo casino.”
Il salotto è in stile vittoriano e contiene la collezione più intima di oggetti d’arte e tesori personali di Capote, che nel modo in cui sono esposti ordinatamente su tavoli lucidati e scaffali di bambù ricordano il contenuto delle tasche di un bambino molto astuto. C’è, per esempio, un uovo di Pasqua dorato che viene dalla Russia, un cane di ferro battuto, una scatolina di Fabergé, alcune biglie, frutta di ceramica blu, fermacarte, scatole Battersea, cartoline e vecchie fotografie. In altre parole e’è tutto ciò che potrebbe sembrare utile o servire in un’avventura intorno al mondo.
Capote stesso si intona benissimo con questa impressione a prima vista. È piccolo e biondo, con un boccolo che insiste a cadergli sugli occhi; e il suo sorriso è improvviso e solare. Il suo approccio a qualcuno che non conosce è di aperta curiosità e di amicizia. Potrebbe essere facilmente ingannato, e in effetti sembra che non aspetti altro. C’è qualcosa in lui, però, che ti fa pensare che, anche se può dare l’impressione di essere ingenuo, sarebbe difficile prenderlo per i fondelli, e che forse è meglio non provarci neppure.
Si è sentito un rumore di passi nel corridoio e Capote è entrato, preceduto da un bulldog dal muso bianco.
“Questo è Bunky”, ha detto.
Bunky mi ha annusata e abbiamo cominciato.
Pati Hill, 1957
Quando ha cominciato a scrivere?
Avevo dieci o undici anni e vivevo vicino a Mobile. Di sabato andavo in città dal dentista e mi ero iscritto al “Sunshine Club” organizzato dal Registro dell’Editoria di Mobile. C’era una pagina per i bambini con concorsi di scrittura e di disegno e ogni sabato pomeriggio davano delle feste con Nehi e Coca Cola gratis. Il premio per il miglior racconto era un cane o un pony, adesso non ricordo: ma io lo volevo a tutti i costi. Avevo fatto caso alle attività losche di alcuni nostri vicini, quindi scrissi una specie di roman à clef intitolato Il vecchio signor Busybody e mi iscrissi al concorso. La prima parte venne pubblicata di domenica, con il mio vero nome, Truman Streckfus Persons. Solo che qualcuno si accorse che stavo descrivendo uno scandalo locale sotto forma di fiction e la seconda parte non uscì mai. Ovviamente non vinsi proprio niente.
Era sicuro di voler diventare uno scrittore?
Mi rendevo conto che volevo essere uno scrittore, ma non fui sicuro che lo sarei diventato fino all’età di circa quindici anni. All’epoca avevo cominciato a inviare senza modestia i miei racconti a riviste e periodici letterari. Naturalmente nessuno scrittore si scorda la prima risposta positiva, ma un giorno a diciassette anni io ottenni la prima, la seconda e le terza tutte nella stessa mattinata. Mi creda, dire che ero eccitato è un eufemismo!
Che cosa scriveva all’inizio?
Racconti. Le mie ambizioni più incontrollabili ruotano ancora intorno a questa forma. Se la si esplora a fondo, la forma del racconto mi sembra la forma più difficile e più disciplinante di prosa. Tutto il controllo e la tecnica che ho acquisito li devo interamente all’esercizio fatto con questo mezzo.
Che cosa intende esattamente per “controllo”?
Intendo mantenere il controllo stilistico ed emozionale sul materiale. Si dirà che sono pignolo, ma secondo me un racconto può essere rovinato dal ritmo sbagliato di una frase — soprattutto verso la fine — o da un errore in un capoverso, perfino nella punteggiatura. Henry James è l’esperto del punto e virgola. Hemingway è uno scrittore di capoversi di prima classe. Dal punto di vista del suono, Virginia Woolf non ha mai scritto una frase fatta male. Con questo non voglio dire che io ci riesca sempre. Ci provo, tutto lì.
Come si fa ad arrivare alla perfetta tecnica del racconto?
Poiché ogni racconto presenta i propri problemi tecnici, ovviamente non si possono generalizzare le regole fornendo un’equazione del tipo due per due uguale quattro. Trovare la forma giusta per un racconto vuol dire semplicemente scoprire il modo più naturale di scriverlo. La prova per capire se uno scrittore ha sublimato la forma naturale del suo racconto è questa: dopo averlo letto, bisogna capire se lo si può immaginare diversamente, o se l’immaginazione ne esce ammutolita e sembra definitivo e completo. Proprio come è completa un’arancia, che la natura ha fatto proprio nel modo giusto. Ci sono trucchi che si possono usare per migliorare la propria tecnica?
Lavorare è l’unico trucco che conosco. La scrittura ha leggi di prospettiva, di luci e di ombre, proprio come la pittura o la musica. Se si conoscono dalla nascita, bene. Altrimenti bisogna impararle. Poi si possono anche sistemare a seconda dei propri gusti. Perfino Joyce, il nostro discolo più estremo, era un grande artigiano; ha potuto scrivere 1’Ulisse perché era stato capace di scrivere Gente di Dublino. Troppi scrittori sembrano considerare lo scrivere racconti come un esercizio per sgranchirsi le dita. In questi casi stanno usando sicuramente solo le dita.
È stato incoraggiato da qualcuno in quel primo periodo, e se sì, da chi?
Buon Dio! Lei si è appena condannata ad ascoltare una storia complicata. La risposta è un nido di serpenti di “no” e qualche “sì”. Vede, non tutta, ma la maggior parte della mia infanzia l’ho passata in luoghi e con persone che erano del tutto sprovvisti di ogni attitudine culturale. Probabilmente, col senno di poi, non è stata una cosa così negativa. Mi ha costretto molto presto a nuotare contro corrente — in effetti in alcuni campi ho sviluppato dei muscoli pari a quelli di un barracuda, soprattutto nell’affrontare i nemici, un’arte necessaria quanto saper apprezzare i propri amici. Ma torniamo al discorso. Naturalmente, nell’ambiente ora descritto pensavano che fossi un po’ eccentrico, e mi poteva anche stare bene, e stupido, cosa che invece mi dava molto fastidio. Odiavo la scuola — o meglio, le scuole, visto che le cambiavo continuamente —e anno dopo anno venivo bocciato nelle materie più semplici per odio o per noia. Non andavo a scuola almeno due volte alla settimana e scappavo spesso di casa. Una volta sono scappato con un amica che viveva dall’altra parte della strada — una ragazza molto più grande di me che più tardi nella vita ha anche ottenuto una certa fama per aver ucciso una mezza dozzina di persone e per essere stata condannata alla sedia elettrica a Sing-Sing. Qualcuno ha anche scritto un libro su di lei. La chiamavano la Killer dei Cuori Solitari. Ecco che divago di nuovo. Bene, insomma, quando avevo circa dodici anni il preside della mia scuola andò a trovare i miei genitori e gli disse che era sua opinione, e anche degli altri insegnanti, che io fossi “sub-normale”. Pensava che sarebbe stato il caso, come azione umanitaria, di mandarmi a una scuola speciale preparata a gestire dei monelli ritardati. Senza mostrare l’aspetto privato dei suoi sentimenti, la mia famiglia si offese ufficialmente e nello sforzo di dimostrare che non ero “sub-normale” mi spedì in una clinica psichiatrica di un’università dell’Est dove dovevano stabilire il mio quoziente di intelligenza. Mi divertii tantissimo e indovinate un po’? — tornai a casa che ero un genio, proclamato tale dalla scienza. Non so chi fosse più sorpreso, se i miei insegnanti, che si rifiutarono di crederci, o la mia famiglia, che non volle crederci — loro avevano sperato che sarebbe venuto fuori solo che ero un ragazzo normale. Ha ha! Ero contentissimo — andavo in giro rimirandomi continuamente negli specchi e tirando dentro le guance e pensando tre me e me: ragazzo, tu e Flaubert — o Maupassant o Masfield o Proust o Cechov o Wolfe, chiunque fosse il mio idolo del momento. Cominciai a scrivere come un pazzo — la mia mente lavorava tutta la notte ogni notte e penso di non aver dormito per bene per parecchi anni. Almeno fino a quando scoprii che il whisky mi rilassava. Ero troppo giovane — avevo solo quindici anni — per comprarmelo da solo, ma avevo degli amici più grandi di me che erano molto gentili da questo punto di vista, e ben presto accumulai una valigia piena di bottiglie, dal blackberry brandy al bourbon. Tenevo la valigia in un armadio. Bevevo per lo più nel tardo pomeriggio; poi masticavo un paio di caramelle e mi sedevo a cena, dove il mio comportamento, i miei silenzi nebbiosi, piano piano diventarono causa di preoccupazione generale. Uno dei miei parenti diceva sempre: “In realtà, se non sapessi che non è possibile, giurerei che è completamente ubriaco”. Ovviamente questo piccolo spettacolo, se si può chiamare così, finì con la scoperta e con un po’ di disastro, e passarono molte lune prima che potessi toccare un altro goccio. Ma sembra che sia di nuovo uscito fuori tema. Voleva sapere dell’incoraggiamento. La prima persona che mi aiutò veramente fu, stranamente, un’insegnante. Una professoressa d’inglese che avevo alle superiori, Catherine Wood, che appoggiò le mie ambizioni in ogni modo, e a cui sarò grato per sempre. Poi, quando ho cominciato a pubblicare, ho avuto tutto l’incoraggiamento che si possa desiderare, soprattutto da Margarita Smith, responsabile della fiction su Mademoiselle, da Mary Louise Aswell di Harper’s Bazaar e da Robert Linscott della Random House. Bisognerebbe essere veramente avidi per volere più fortuna e buona sorte di quanta ne abbia avuta io all’inizio della mia carriera. I tre redattori di cui ha appena parlato l’hanno incoraggiata semplicemente comprando i suoi lavori o le hanno fatto anche delle critiche?
Non riesco a immaginare niente di più incoraggiante di avere qualcuno che compra i tuoi lavori. Non scrivo mai — sono proprio incapace fisicamente di scrivere — qualcosa che non mi verrà pagato. Comunque, le persone che ho nominato prima, ma anche altre, mi hanno sempre dato molti consigli.
C’è una cosa che ha scritto tanto tempo fa che le piace quanto ciò che scrive adesso?
Sì. Per esempio l’estate scorsa ho letto il mio romanzo Altre voci, altre stanze per la prima volta da quando era stato pubblicato otto anni prima, ed era come se stessi leggendo un romanzo scritto da un altro. La verità è che mi sento estraneo a quel libro; la persona che lo ha scritto ha molto poco in comune con quello che sono ora. Le nostre mentalità, le nostre temperature interne, sono completamente diverse. Nonostante un po’ di incertezza, ha un’intensità incredibile, una vera scossa. Sono molto contento di aver potuto scrivere quel libro in quel momento, altrimenti non sarebbe mai stato scritto. Mi piace anche L’arpa d’erba e vari altri miei racconti, eccetto Miriam, che è un fuoco d’artificio e basta. Preferisco Children on Their Birthdays e Shut a Final Door e anche alcuni altri, soprattutto un racconto che non sembra sia piaciuto a molti, Master Misery, che si trova nella raccolta Un albero di notte.
Di recente ha pubblicato un libro sul viaggio in Russia della compagnia di Porgy and Bess. Una delle cose più interessanti del suo stile era l’insolito distacco con cui scriveva, anche in confronto ai reportage di giornalisti che hanno passato anni a registrare eventi in modo imparziale. Si aveva l’impressione che questa versione fosse il più vicino possibile allo “sguardo di qualcun altro”, il che è sorprendente, se si pensa che la maggior parte dei suoi lavori è caratterizzata proprio dalle sue qualità personali.
In realtà io non considero lo stile di questo libro, Si sentono le muse, molto diverso dal mio stile nella fiction. Forse il contenuto, il fatto che si tratta di eventi reali, può dare questa impressione. Dopo tutto Le muse è un semplice reportage, e nel fare un reportage uno si preoccupa della fedeltà e delle superfici, delle implicazioni e non dei commenti — non si possono raggiungere profondità immediate come con la narrativa. Comunque uno dei motivi per cui ho scritto quel reportage era proprio per dimostrare che potevo applicare il mio stile alla realtà del giornalismo. Io credo che anche il mio stile abituale sia molto distaccato — l’emotività mi fa perdere il controllo sulla scrittura: devo liberarmi di tutte le emozioni prima di sentirmi abbastanza cinico da analizzarle e proiettarle e, per quanto mi riguarda, è una delle leggi per arrivare alla vera tecnica. Se la mia fiction sembra più personale è perché dipende dalla parte più personale e rivelatrice dell’artista: la sua immaginazione.
Come fa a liberarsi di tutte le sue emozioni? Si tratta solo di pensare alla storia abbastanza a lungo o implica anche altre considerazioni? No, non penso che sia solo una questione di tempo. Supponiamo che non mangi altro che mele per una settimana. Di certo ti libereresti della voglia di mele e sapresti sicuramente qual è il loro sapore. Quando mi metto finalmente a scrivere una storia può essere che io non la desideri più come prima e che sappia benissimo che sapore ha. Gli articoli di Porgy and Bess non sono rilevanti in questo caso. Quello era un reportage e le “emozioni” non erano molto coinvolte — almeno non quelle del territorio difficile e personale delle emozioni come le intendo io.
Mi sembra di aver letto che Dickens, quando scriveva, si strozzava dalle risate per il suo stesso umorismo e riempiva il foglio di lacrime quando moriva uno dei suoi personaggi. La mia teoria è che uno scrittore dovrebbe asciugarsi le lacrime e esaurire le risate prima, molto prima di cercare di evocare le stesse emozioni nel suo lettore. In altre parole, credo che l’intensità maggiore nell’arte in tutte le sue forme si ottenga usando la testa in modo deliberato, duro e freddo. Un esempio è Un cuore semplice di Flaubert. È una storia coinvolgente, scritta in modo coinvolgente; ma può essere solo l’opera di un artista pienamente consapevole della vera tecnica, cioè delle necessità. Sono sicuro che a un certo punto Flaubert si è sentito molto coinvolto dalla storia — ma non mentre la scriveva. Come esempio più recente si può portare quel meraviglioso romanzo breve di Katherine Anne Porter, Noon Wine. Possiede una tale intensità, da proprio l’impressione che quello che scrive stia accadendo in quel momento, ma la scrittura è così controllata, i ritmi interni della storia sono così immacolati, che ho sentito con una certa sicurezza che la Porter fosse in qualche modo distaccata dal suo materiale.
Le sue storie e i suoi libri migliori sono stati scritti in momenti relativamente tranquilli della sua vita o lavora meglio sotto, o nonostante, lo stress emozionale?
Mi sento un po’ come se non avessi mai avuto dei momenti tranquilli nella mia vita, se si eccettuano quelli indotti dal Nembutal che prendevo di tanto in tanto. Però, adesso che ci penso, ho vissuto per due anni in una casa molto romantica sulla cima di una montagna in Sicilia, e penso che quel periodo si possa definire tranquillo. Dio solo sa quanto fosse calmo quel posto. E lì che ho scritto L’arpa d’erba. Devo ammettere però che una certa quantità di stress, sforzarmi di rispettare una scadenza, mi fa bene.
Ha vissuto all’estero per gli ultimi otto anni. Perché ha deciso di tornare in America?
Perché sono americano e non potrei, ne vorrei, essere altro. Comunque mi piacciono le città e New York è l’unica vera città-città. Tranne che per un periodo di due anni, sono tornato in America ogni anno di quegli otto e non ho mai avuto intenzione di espatriare. Per me andare in Europa è stato un modo per ottenere una prospettiva diversa e un’istruzione, un passo verso la maturità. Però esiste un punto di saturazione e io l’ho raggiunto un paio di anni fa: l’Europa mi aveva dato tantissimo, ma all’improvviso mi sono sentito come se il processo si stesse invertendo — sembrava che mi stesse togliendo qualcosa. Così sono tornato a casa, sentendomi cresciuto e capace di stabilirmi nel posto cui appartenevo — il che non significa che mi sono comprato una sedia a dondolo e che sono diventato di pietra. Proprio no. Continuerò a scappare a piede libero finché le frontiere saranno aperte.
Legge molto?
Troppo. E qualsiasi cosa, incluse le etichette, le ricette e le pubblicità. Ho una passione per i giornali — leggo tutti i quotidiani di New York, le edizioni della domenica e anche le riviste straniere. Quelli che non compro me li leggo davanti all’edicola. In media leggo circa cinque libri alla settimana — un romanzo di lunghezza normale me lo leggo in un paio d’ore. Mi piacciono i thriller e mi piacerebbe scriverne uno un giorno. Anche se preferisco la narrativa di prima classe, negli ultimi anni le mie letture sembrano essersi concentrate su lettere, diari e biografie. Non mi disturba leggere mentre scrivo — voglio dire, non avverto che lo stile dello scrittore che sto leggendo si insinua nelle mie parole. Anche se un volta, in un periodo in cui leggevo tantissimo James, ho trovato che le mie frasi si stavano facendo terribilmente lunghe.
Quali scrittori l’hanno influenzata maggiormente?
Per quanto possa dire coscientemente, non mi sono mai accorto di un’influenza letteraria diretta, anche se molti critici mi hanno informato che i miei primi lavori devono qualcosa a Faulkner, a Welty e a McCullers. È possibile, sono un grande ammiratore di tutti e tre; e anche di Katherine Anne Porter. Non penso però che abbiano molto in comune tra loro o con me, tranne il fatto che siamo tutti nati al Sud. Tra i tredici e i sedici anni: è quella l’età ideale, se non l’unica, per soccombere a Thomas Wolfe — allora mi sembrava un grande genio, e lo penso tuttora, anche se non riesco più a leggerne neanche una riga. Proprio come per altre passioni giovanili: Poe, Dickens, Stevenson. Li adoro nella mia memoria, ma li trovo illeggibili. Ci sono poi gli entusiasmi che rimangono costanti: Flaubert, Turgenev, Čechov, Jane Austen, James, E.M. Forster, Maupassant, Rilke, Proust, Shaw, Willa Carther — ma questa lista sarebbe troppo lunga, quindi finirò con Jarnes Agee, uno scrittore meraviglioso la cui morte è stata una grave perdita. I lavori di Agee, tra l’altro, furono molto influenzati dai film. Penso che molti degli scrittori più giovani abbiano imparato e preso in prestito aspetti del lato visivo e strutturale della tecnica cinematografica. Io l’ho fatto. Ha anche scritto per il cinema, vero? Com’è stato?
Una pacchia. Per lo meno scrivere la mia unica sceneggiatura, per Il tesoro dell’Africa, è stato estremamente divertente. Ci ho lavorato con John Huston mentre il film veniva girato in Italia. A volte alcune scene che stavano per essere girate venivano scritte proprio lì sul set. Il cast era veramente perplesso — certe volte neanche John Huston sapeva esattamente cosa stesse succedendo. Ovviamente le scene andavano scritte in sequenza, e c’erano alcuni momenti in cui andavo in giro con in testa solo lo scheletro della cosiddetta trama. Non l’ha mai visto? Dovrebbe. È uno scherzo fantastico. Anche se ho paura che il produttore non si sia fatto tante risate. Che vada all’inferno. Ogni volta che c’è una retrospettiva io me lo vado a vedere e mi diverto.
Comunque, parlando sul serio, non penso che uno scrittore abbia molte possibilità di imporsi in un film a meno che non lavori nel più stretto rapporto col regista o sia lui stesso il regista. Il cinema ha sviluppato un solo scrittore che, lavorando esclusivamente come sceneggiatore, si può definire un genio cinematografico. Sto parlando di quel contadino timido di Zavattini. Che senso visivo! L’ottanta per cento dei film italiani di qualità è stato costruito da una sceneggiatura di Zavattini — tutti i film di De Sica, per esempio. De Sica è un uomo affascinante, una persona dotata e profondamente sofisticata; nonostante ciò è per la maggior parte un megafono di Zavattini, i suoi film sono creazioni assolute di Zavattini: ogni sfumatura, emozione, ogni parte è chiaramente indicata nei copioni di Zavattini.
Ha delle abitudini quando scrive? Ha una scrivania? Usa la macchina da scrivere?
Sono un autore totalmente orizzontale. Non riesco a pensare se non sono sdraiato, sul letto o sul divano, e con una sigaretta e il caffè a portata di mano. Devo fumare e sorseggiare. A mano a mano che passa il pomeriggio passo dal caffè al tè alla menta allo sherry al martini. No, non uso la macchina da scrivere. Non all’inizio. Scrivo la mia prima versione a matita. Poi faccio una revisione completa, anch’essa a mano. Essenzialmente mi considero uno stilista e gli stilisti possono notoriamente diventare ossessionati con la posizione di una virgola o con il peso di un punto e virgola. Ossessioni di questo tipo, e il tempo che passo a risolverle, mi irritano oltre la sopportazione.
Lei sembra distinguere tra scrittori che sono stilisti e scrittori che non lo sono. Quali scrittori definirebbe stilisti e quali no?
Che cos’è lo stile? “E qual è”, chiede il koan zen, “il suono di una mano sola?” Nessuno lo sa veramente; ma o lo si sa o no. Per quanto riguarda me, se mi permette l’immagine alquanto banale, suppongo che lo stile sia lo specchio della sensibilità di uno scrittore — più che il contenuto del suo lavoro. Da un certo punto di vista tutti gli scrittori hanno uno stile — Ronald Firbank, che Dio lo benedica, aveva poco altro e grazie a Dio se ne rendeva conto. Ma l’avere stile, uno stile proprio, spesso è un impedimento, una forza negativa, non una forza come dovrebbe essere e com’è, per esempio, per E.M. Forster, Colette, Flaubert, Mark Twain, Hemingway e Isak Dinesen. Dreiser, per esempio, ha uno stile — ma, mon Dieu! Così Eugene O’Neill. E Faulkner, per quanto brillante fosse. Mi sembrano tutti dei trionfi su degli stili forti ma negativi, stili che non aggiungono niente alla comunicazione tra lettore e scrittore. Poi ci sono gli stilisti senza stile — cosa molto difficile, molto ammirevole e sempre molto popolare: Graham Greene, Maugham, Thornton Wilder, John Hersey, Willa Carter, Thurber, Sartre (si ricordi che non stiamo discutendo del contenuto), J.P. Marquand e così via. Sì, comunque esistono anche i non-stilisti. Solo che non sono scrittori, sono dattilografi. Dattilografi sudati che anneriscono chili di carta con messaggi senza forma, suono o immagine. Chi sono i nuovi scrittori che sembrano essere coscienti dell’esistenza dello stile? P.H. Newby, Francoise Sagan, in qualche modo. Bill Styron, Flannery O’Connor — scrive delle belle cose, quella ragazza. James Merrill. William Goyen — se smettesse di essere isterico. J.D. Salinger — soprattutto nella tradizione della lingua parlata. Colin Wilson? Un altro dattilografo.
Lei sostiene che Ronald Firbank aveva poco altro oltre allo stile. Pensa che il solo stile possa fare di uno scrittore un grande scrittore? No, non lo penso — anche se ci si potrebbe chiedere che cosa succederebbe a Proust se lo si separasse dal suo stile. Lo stile non è mai stato un punto forte degli scrittori americani. Anche se alcuni dei migliori sono stati americani. Hawthorne è stato un buon inizio. Negli ultimi treni’anni Hemingway ha influenzato, dal punto di vista dello stile, più scrittori di chiunque altro su scala mondiale. Al giorno d’oggi penso che la nostra stessa signorina Porter sappia molto bene di cosa si tratti.
Uno scrittore può imparare lo stile?
No, non penso che si possa arrivare consciamente allo stile, almeno nella stessa misura in cui possiamo decidere il colore dei nostri occhi. Dopo tutto lo stile è la persona stessa. Alla fine la personalità dello scrittore ha moltissimo a che fare con il suo lavoro. La personalità deve essere umanamente presente. “Personalità” è una parola ormai svalutata, lo so, ma rende bene quello che voglio dire. L’umanità individuale dello scrittore, le sue parole o i suoi gesti nel mondo, devono sembrare un personaggio che cerca un contatto con il lettore. Se la personalità è vaga o confusa o solamente letteraria, ça ne va pas. Faulkner e McCullers proiettano istantaneamente le loro personalità.
È interessante che il suo lavoro sia stato largamente apprezzato in Francia. Pensa che lo stile possa essere tradotto?
Perché no? Basta che l’autore e il traduttore siano gemelli artistici. Bene, ho paura di averla interrotta al punto in cui il racconto è ancora scritto a matita. Che cosa succede poi?
Vediamo, eravamo arrivati alla seconda bozza. Poi batto una terza bozza su carta gialla, un tipo molto speciale di carta gialla. No, non esco dal letto per farlo. Mi metto la macchina da scrivere in equilibrio sulle ginocchia. Funziona benissimo; riesco a battere un centinaio di parole al minuto. Quando è finita la copia gialla, metto via il manoscritto per un po’: una settimana, un mese, a volte di più. Quando lo tiro fuori, lo leggo nel modo più freddo possibile, poi lo leggo a voce alta a un amico o due, e decido che cambiamenti voglio fare e se voglio o no pubblicarlo. Ho buttato via svariati racconti, un romanzo intero e un altro mezzo. Ma se va tutto bene ne batto una versione finale su carta bianca ed ecco fatto.
Il libro è già tutto presente e organizzato nella sua testa prima di cominciare a scrivere o si sviluppa, sorprendendola, mano a mano che va avanti?
Entrambe le cose. Ho sempre l’impressione che l’intera trama di una storia, l’inizio, lo svolgimento e la fine compaiano simultaneamente nella mia testa — come se la vedessi in un flash. Ma mentre la scrivo, mentre ci lavoro, mi fa varie sorprese. Grazie a Dio, perché la sorpresa, il guizzo, la frase che arriva al momento giusto dal nulla, sono proprio la conquista inaspettata, quella allegra piccola spinta che manda avanti uno scrittore. Un tempo tenevo un quaderno con degli schemi di storie, ma ho scoperto che così facendo uccidevo la mia immaginazione. Se l’idea è abbastanza buona, se ti appartiene veramente, allora non te la puoi scordare — ti perseguiterà finché non verrà scritta.
Quanto c’è di autobiografico nei suoi lavori?
Molto poco, in realtà. Qualche riferimento mi viene suggerito da avvenimenti o personaggi reali, anche se penso che qualsiasi cosa uno scrittore scriva sia autobiografica. L’arpa d’erba è l’unica cosa vera che io abbia mai scritto, ma ovviamente tutti pensarono che era tutto inventato e che invece Altre voci, altre stanze fosse autobiografico.
Ha qualche idea specifica o progetti per il futuro?
(Pensoso) Beh, credo di sì. Finora ho sempre scritto ciò che mi veniva più facile: adesso voglio provare qualcos’altro, un po’ di stravaganza controllata. Voglio usare di più il mio cervello, usare molti più colori. Hemingway una volta disse che chiunque poteva scrivere un romanzo in prima persona. Adesso so esattamente cosa intendeva.
È mai stato tentato da altre forme d’arte?
Non so se si può considerare arte, ma per anni ho avuto paura del palcoscenico e più di qualsiasi cosa volevo essere un ballerino di tip-tap. Mi esercitavo nei passi in casa fino a che mi volevano uccidere tutti. Poi volevo suonare la chitarra e andare per night club. Così ho risparmiato per comprare la chitarra e ho preso lezioni per un inverno intero, ma alla fine l’unica canzone che riuscivo a suonare veramente era una cosa per principianti chiamata I Wish I Were Single Again ( Vorrei essere di nuovo single). Mi sono talmente stufato di suonarla che un giorno diedi la mia chitarra a un estraneo nella stazione degli autobus. Ero interessato anche alla pittura e ho studiato disegno per tre anni, ma ho paura che la passione, la vrai chose, non e’era.
Lei pensa che le critiche aiutino?
Prima della pubblicazione, e se sono fatte dalle persone del cui giudizio ci si fida, sì, certo che le critiche aiutano. Ma dopo che una cosa è già stata pubblicata, tutto ciò che voglio sentire sono elogi. Qualsiasi altra cosa è una noia, e do cinquanta dollari a chi mi presenta uno scrittore che mi dica onestamente che è stato aiutato dai pignoli cavilli e dalle accondiscendenze dei critici. Non voglio dire che non vale la pena prestare attenzione ai critici professionisti — ma pochi di quelli buoni fanno regolarmente recensioni. Più di qualsiasi altra cosa credo che ci si debba temprare contro i giudizi. Ho avuto, e continuo ad avere, la mia parte di maltrattamenti, alcuni anche estremamente personali, ma ormai non mi fa più effetto. Posso leggere l’articolo più caustico su di me e rimanere completamente calmo. A questo proposito c’è un consiglio che raccomando caldamente: non bisogna mai abbassarsi a rispondere a un critico, mai. Puoi immaginarti di scrivergli delle lettere, ma non bisogna mai metterle per iscritto.
Quali sono le sue piccole manie?
Suppongo che il fatto che sia superstizioso possa considerarsi una mania. Devo sempre sommare tutti i numeri. Ci sono persone che non chiamo mai perché la somma delle cifre dei loro numeri telefonici dà una cifra sfortunata. O magari non accetto una camera d’albergo per la stessa ragione. Non tollero la presenza di rose gialle — che è triste, perché sono il mio fiore preferito. Non permetto che ci siano tre cicche di sigaretta nello stesso posacenere. Non viaggio sullo stesso aereo con due suore. Non comincio o finisco niente di venerdì. La lista di cose che non posso o non voglio fare è infinita, ma divento curiosamente sereno seguendo questi concetti primitivi. Ha sostenuto una volta che i suoi passatempi preferiti sono “conversare, leggere, viaggiare e scrivere, in questo ordine”. Lo intendeva alla lettera?
Penso di sì. Almeno sono abbastanza sicuro che conversare sarà sempre al primo posto per me. Mi piace ascoltare e mi piace parlare. Cielo, ragazza, non si vede che mi piace parlare?

Numero 16, 1957