Alix Van Buren, la Repubblica 7/8/2012, 7 agosto 2012
NUOVO COLPO PER ASSAD DISERTA ANCHE IL PREMIER “IL POTERE SI STA SFALDANDO”
QUELLA di una nuova defezione, l’ennesima fuga di un uomo di potere. Ma non uno qualsiasi: questa volta a scappare è stato il primo ministro Riyad Hijab, l’uomo al quale Assad aveva affidato il governo da qualche mese. E con lui è riuscita a far perdere le proprie tracce la sua famiglia: «Una vera tribù, farebbe meglio a dire», non si riprende dallo stupore un commensale: «Sette fratelli e due sorelle con schiere di familiari. Come siano passati inosservati, Dio solo lo sa». La preparazione — commentano — dev’essere stata lunga e meticolosa. «Il premier abitava in una casa del governo dalle parti di Malki, una roccaforte del regime. Volete farmi credere che nessuno li abbia visti?», affaccia il sospetto di una collaborazione interna. Quanto sia formidabile la picconata al regime, nessuno lo nasconde. «D’accordo, Hijab non apparteneva al cuore del regime. Però, era una brava persona, riscuoteva la fiducia del presidente ». Un funzionario ricorda i galloni conquistati dal premier quando era governatore di Lattakya, la città costiera abitata da sunniti e alawiti: «Era vicino al popolo, scendeva nelle piazze, ricuciva le tensioni fra le comunità. Davvero, è un duro colpo. Il governo è in panne».
E non importa che i notabili scartino con sarcasmo le parole di Hijab lette da un portavoce: «Non vuole essere parte dei peggiori crimini di guerra, il genocidio, i barbari assassinii, i massacri perpetrati contro cittadini disarmati. Sono stato costretto a fare il premier con la pistola puntata alla testa». «Senza il suo consenso, il presidente non l’avrebbe obbligato», sostengono e dubitano, sprezzanti, della sincerità: «Sarà il prezzo imposto da chi l’ha comprato». Eppure, il coro è univoco: «Il messaggio di questa defezione è chiarissimo: il regime si sta sfaldando. Qui nessuno può fidarsi più di nessuno».
Nessuno è al riparo, tantomeno l’élite. Autisti e guardie del corpo stazionano sull’uscio del ristorante. Porgono ai commensali il cellulare se al telefono arriva un messaggio urgente. Comunicano con posti di guardia in città per aggiornarsi sulla sicurezza dei vari quartieri: per sapere se si può prolungare la cena oppure no, è meglio affrettare. Sanno che l’agguato potrebbe piombare dietro l’angolo. S’è già visto più volte: da una curva sbuca un’auto in corsa, e scarica dai finestrini una gragnola di proiettili.
“Drive-by shooting”, smitragliate di corsa, spiegano. L’altra sera è successo a Mohajreen, pochi chilometri da Malki dove c’è la casa, lo studio privato del raìs e le abitazioni di molti rappresentanti del regime. Ieri notte i ribelli hanno scosso la città dal sonno col tuono biblico di due bombe sonore a Rukn Eddin, appena dietro il centro: come per dire che l’opposizione armata s’annida in città, nonostante l’esercito abbia respinto l’assalto a Datano
e alle periferie.
Il refrain della sfiducia, del controllo che sfugge all’autorità centrale, rispunta con la bomba piazzata ieri al terzo piano dell’edificio della radio televisione di Stato. Qualche danno, pochi feriti, però s’ingigantisce l’interrogativo sospeso
sopra Damasco: «E’ stata l’opera di un infiltrato? Nessuno l’ha fermato?».
Infatti, l’assalto alla tv era prevedibile. La guerra mediatica, ripetono i siriani, fa parte del “Grande Gioco”. La disputa è mortale, se si con-
i giornalisti, fotografi e cameraman delle tv sequestrati e uccisi. Senza contare l’oscuramento della tv di Stato attribuito ai monarchi del Golfo e l’esercito elettronico che pirata i siti avversari: dall’agenzia
Reuters
partono falsi comunicati sulla disfatta dei ribelli ad Aleppo. Una pagina contraffatta di
Al Manar,
l’organo di Hezbollah, sbandiera l’ammutinamento delle Forze speciali mai avvenuto. Un Twitter camuffato da ministero della Difesa ieri annuncia la morte del presidente Assad.
Al Jazeera
e
Al Arabiyaspargono
per un po’ il panico con la notizia, smentita, dell’arresto del ministro delle Finanze siriane e la partenza di altri due ministri «dalla nave di Assad che affonda». «Se vuole sapere chi ha tirato le fila della diserzione del premier, osservi quale tv ha trasmesso la “breaking news”. E’ stata
Al Jazeera,
perciò l’emiro del Qatar. Ma c’è l’impronta anche di Manaf Tlass».
Tlass era finora il più quotato fra i disertori. Figlio dell’eponimo generale Mustafa, storico mimasco
della Difesa sotto il regno di Assad padre, il giovane Tlass comandava un reparto della Guardia repubblicana. Ora che il generale è all’estero, gli occhi restano fissi su di lui. Dai suoi spostamenti i siriani ricavano la trama delle alleanze e il tempo rimasto, nella stima dell’Occidente, prima che il regime si sgretoli, con conseguenze potenzialmente devastanti. Tlass ha iniziato con l’Umrah, il piccolo pellegrinaggio alla Mecca, in ossequio al re saudita; poi l’incontro dell’opposizione nel Qatar; dieci giorni fa, la cena a Istanbul con il ministro degli esteri turco Davutoglu e il capo dell’Intelligence Hakan Fidan. Tlass ha ottenuto il favore di Washington: e negli Usa il tempo stringe. Le ore del regime sarebbero contate. Il Pentagono ha già predisposto «cellule speciali in preparazione della caduta di Assad e di un seguito violento e caotico».
E’ questione di giorni? di mesi? Il Pentagono scommette «entro novembre». I siriani frenano:
«Io non sarei tanto precipitoso», dice un alto funzionario, simpatizzante dei riformisti. Spiega: dopo l’attentato del 18 luglio, l’uccisione di quattro leader della Sicurezza generale, Assad ha rinnovato i vertici «cioè quelli che contano davvero: l’esercito, l’Intelligence. E il regime s’è tolto definitivamente i guanti». Soprattutto, affermano i notabili, il regime non ha ancora schierato le forze più potenti: la Guardia repubblicana e il temuto Fira Raba’a, la Quarta Divisione: è la forza speciale di 150 mila alawiti sotto la guida di Maher, il fratello del raìs.
Uno dei dissidenti più corteggiati dall’Occidente fa eco: «Non lasciatevi ingannare. La fine del regno forse s’avvicina, ma il potere poggia ancora sui pilastri fondamentali: l’esercito, l’apparto della sicurezza, la polizia. La popolazione è divisa fra un terzo che sostiene il regime, un terzo l’opposizione, e un altro terzo che sta a guardare, per vedere come va a finire. Se il regime crollasse rischieremmo il caos iracheno. Innistro
fatti, la “demolizione controllata” promossa dagli americani può “finire molto male”, l’hanno ammesso anche loro».
«Se dovessi scommettere di tasca mia», azzarda uno degli ospiti all’Iftar, «direi che a novembre
Assad sarà ancora al potere». A chiedergli, però, quale cifra sia disposto a puntare, il siriano si fodera di cautela: «In queste condizioni, tutto è possibile. Ma per il momento, a Damasco, la partita resta da giocare».