Andrea Malaguti, la Stampa 5/8/2012, 5 agosto 2012
L’ADDIO DI PHELPS, IL PIÙ GRANDE “MA RESTERÒ SEMPRE UNO DI VOI”
Ci sono molti modi per finire un grande viaggio. Zinedine Zidane lo fece con una testata alla sua storia. Michael Fred Phelps II, nato a Baltimora il 30 giugno del 1985, vincendo con la staffetta USA la sua ventiduesima medaglia olimpica. Il diciottesimo oro personale. Nessuno come lui. «Sono uno di voi. Non uno di me». L’Aquatics Centre esplode. «Michael, Michael, Michael». I compagni della 4x100 misti si inchinano. Terza frazione perfetta. Giappone risucchiato. C’è un dio che si ritira. E ha un sorriso estatico che sembra vagargli sul volto per la prima volta. Perché si può rinascere quando si lascia tutto e solo in quel momento si capisce il senso. «E’ stato bellissimo. Ma è tempo di fare altre cose».
Come è stata la sua vita? Lo immergevano in acqua. Come se fosse un sottomarino. Poi gli dicevano nuota. «Quanto?». «Per sempre». Lui allungava le braccia, divorava gli avversari - li faceva sparire come se fosse un mago, «ma non erano lì di fianco?» - toccava, salutava, prendeva la medaglia. Tutti in piedi e inno americano, lo stesso che riempie l’aria adesso. Programmato. Isolato. Imbattibile. «Il più grande di tutti», come ha twittato Le Bron James? Chi lo sa. La fama del nuoto in genere resta chiusa in piscina. E lì non ce n’è mai stata per nessuno.
Braccia più lunghe del corpo. Due metri contro un metro e novantatré. Ali. Un’anomalia decisiva. Non una beautiful mind. Certamente un beautiful body. Scolpito, armonico, di una sostanza divina. Diverso da quella testa che secondo i medici era balenga. Deficit di attenzione con iperattività, ADHD. Andava alle elementari. Negli Stati Uniti basta che guardi le farfalle nei prati perché ti prescrivano il ritalin.
Prendilo, fa bene». In ogni caso sembrava una croce. Invece era la chiave per diventare il migliore. «Volevo essere come Michael Jordan. Ce l’ho fatta. Mi sono preso tutto prima dei 30 anni. Era il mio obiettivo».
Ne aveva sette quando il padre mollò la famiglia. «Mi avete rotto, ho un’altra donna». Rapporti chiusi. Ci ha pensato Debby, la mamma, a tirarlo su. «Io lavoro, tu nuoti». Stessa frase ripetuta alla sorella Hillary. Era lei che doveva sfondare. Michael era sufficiente che non facesse guai. Lo affidò al genio di Bob Bowman. «Il mio vero padre». E mentre Hillary rimaneva incagliata negli scogli dei suoi sogni il Pesce Diverso diventava il più giovane nuotatore olimpico americano. A quindici anni si era infilato sottopelle le sconfitte casalinghe - il divorzio, la frustrazione della sorella - e le aveva trasformate in potenza. «Vinco per te, mamma». E anche qui, a gara finita, Debby va da lui, lo abbraccia e gli dice: «Vieni piccolo, ti ho preparato il timballo di carne». Può dare l’idea di un sentimentalismo grottesco. Invece, a guardarci bene, quella cosa lì è una famiglia. In piscina passi giorni a fissare il fondo. Guardi le lucine intermittenti di questa improbabile discoteca sommersa. Spingi con le gambe e vai. Stesso gesto, stessa sensazione. Si può impazzire. Se in testa non hai l’affetto di chi ti sta vicino affondi. Lui non l’ha mai dimenticato. Eppure, in apparenza, è stato un campione freddo. Se si dovesse cercare un paragone sarebbe Carl Lewis. Un altro che ha dato pubblicamente il cuore solo il giorno dell’addio. Atlanta ‘96. Invece di dire come sempre: «Sono il migliore, nel mio universo sono i bianchi a lasciare il passo ai neri», fece una cosa diversa. Pianse. Era diventato caldo. Ma se quella di Lewis era arroganza, quella di Phelps è sempre stato senso di responsabilità. E stasera piange anche lui.
In Cina, nel 2008, aveva gli occhi fuori dalle orbite. Sembrava un marine sull’ultima collina. «Batti Spitz, entra nella storia». Si possono vincere più di sette medaglie in un’Olimpiade? Phelps ne prese otto. Roba da odiarlo. Spitz, per esempio, lo detestavano tutti. Guardava i rivali con disprezzo. «Chi perde è una pippa». Lo Squalo di Baltimora no. I compagni per lui si farebbero staccare un braccio. Chiedere a Lezak, che quattro anni fa, ormai spiaggiato come una balena anziana, sfiorò l’infarto per non tradirlo nella staffetta. «Michael lo merita». Ucciso il ricordo di Spitz è tornato ragazzo. Lo immortalarono che ingurgitava marijuana. Sospeso tre mesi. Scandalo. Che gli è successo? Niente. Semplicemente la vita. Comunque chiese scusa. Qui a Londra è arrivato sorridendo. Finalmente un bambino, come se avesse fatto le scale al contrario. Il primo giorno fotografava chiunque. Estasiato. Lui. Non gli altri. Vedeva laterra con occhi da neonato. Sono un essere umano, non un atleta. «Che farò ora? Comprerò un cavallo con Bob. E di certo non mi calmerò. Qualcosa mi invento». Lo dice con la tenerezza malinconica che prelude alle separazioni inevitabili, mente l’Aquatics Centre grida il suo nome. E per un istante i suoi occhi accaparrano tutta la vita che sembra essersi ritirata dal resto del suo spettacolare corpo.