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 2012  agosto 04 Sabato calendario

La crisi mette in crisi il boia - Grande pragmatismo e un pizzico di cinismo. È gra­zie ad alcune delle sue principali caratteristiche che gli Stati Uniti si scoprono alla testa di un trend che lascia qualche speran­za a chi si bat­te per l’abolizione del­la pena capitale nel mondo

La crisi mette in crisi il boia - Grande pragmatismo e un pizzico di cinismo. È gra­zie ad alcune delle sue principali caratteristiche che gli Stati Uniti si scoprono alla testa di un trend che lascia qualche speran­za a chi si bat­te per l’abolizione del­la pena capitale nel mondo. La crisi morde e accade che gli Usa, unico Paese del continente americano a compiere esecuzioni nel 2011 (43 in tutto,contro le 46 dell’anno pre­cedente e le 52 del 2009) cominci a interrogarsi,oltre che sull’opportu­nità del metodo- il 64% degli ameri­cani resta favorevole alla pena di morte - quantomeno sui costi. Ci­fre da capogiro: un condannato in attesa di esecuzione costa 3 milio­ni di dollari l’anno contro il milio­ne di un ergastolano. Se si conside­ra che un detenuto­nel braccio del­la morte aspetta in media quindici­venti anni prima che venga esegui­ta la condanna, i numeri rischiano di diventare insostenibili in questa difficilissima congiuntura econo­mica. Ciò spiegherebbe perché, dal 2000 a oggi, le esecuzioni negli Stati Uniti si sono praticamente di­mezzate. «I budget si restringono e i costi esorbitanti della pena capita­le fanno discutere», ha spiegato al Figaro Richard Dieter, direttore del Centro informazione sulla pe­na di morte. «Tra avvocati, appelli, procedure lente, intere équipe al seguito del detenuto, con paga­menti per ogni lavoratore impegna­to col condannato di circa 120 dol­lari l’ora e almeno 1000 ore solo per preparare il dossier»,il braccio del­la morte costa davvero troppo agli Stati Uniti. Anche in termini di im­magine, come dimostra il caso di Warren Hill, il condannato di colo­re, con problemi di infermità men­tale, la cui esecuzione prevista per il 18 luglio in Georgia, è stata sospe­sa dieci giorni fa dalla Corte Supre­ma dopo una massiccia mobilita­zione internazionale e l’intervento dell’ex presidente Jimmy Carter. Non c’è quindi solo pura contabi­lità a mettere i bastoni fra le ruote al boia«made in Usa».C’è anche qual­che banale ma insormontabile ostacolo tecnico. Nel Paese che vie­ta punizioni «crudeli e inusuali» ­sulla base dell’Ottavo emenda­mento alla Costituzione - l’unica strada percorribile, seppur conte­stata, per eseguire le condanne, è l’iniezione letale. Una pratica resa sempre più difficile a causa della penuria di Pentothal, il farmaco mortale utilizzato per le esecuzio­ni. L’unica casa farmaceutica auto­rizzata a produrlo e a venderlo ne­gli Stati Uniti ha prima trasferito la sua linea di produzione in Italia, an­che per la scarsa richiesta del mer­cato americano, e l’ha infine chiu­sa definitivamente l’anno scorso dopo il pressing delle organizzazio­ni contrarie alla pena di morte. An­che il suo sostituto, il Pentobarbi­tal, sta cadendo in disuso. Succede così che il combinato disposto del­la crisi economica e della crisi delle sostanze principe per eseguire le condanne rilancia il dibattito sul­l’abolizionedellapenadimortene­gli Usa, a cui negli ultimi cinque an­ni hanno detto addio ben cinque Stati americani, facendo salire a 17 su 50 il numero degli «abolizioni­sti », a cui potrebbe aggiungersi pre­sto anche la California, che voterà a novembre. Un trend positivo, che riguarda l’intero quadro internazionale. La conferma arriva dall’ultimo rap­porto di «Nessuno tocchi Caino».Il macabro pallottoliere delle esecu­zioni compiute nei 19 Paesi al mon­do che hanno applicato la pena di morte l’anno scorso-sui 43 che an­cora contemplano la pena capitale nel proprio ordinamento - conta 5000 morti nel 2011, mille in meno rispetto all’anno precedente. Nu­meri e storie ancora raccapriccian­ti, ma la conclusione dell’organiz­zazione che dal ’93 si batte contro la pena capitale è che ci si trovi di fronte a un’«evoluzione positiva»: un anno prima, nel 2010, le vittime sono state 5946. Uccise con un col­po di fucile al cuore o alla nuca, le mani legate dietro la schiena e le ca­viglie ammanettate, come accade in Cina, ancora prima al mondo per numero di esecuzioni (l’80% del totale, 4mila nel 2011 nonostan­te sia qui che si è registrato il calo di mille esecuzioni, dovuto principal­mente alle recenti riforme in senso garantista). Uccise con un fucile op­pure finite in una pubblica piazza, come sempre più spesso succede in Iran (676 morti), dove le impicca­gioni p­ubbliche sono più che tripli­cate negli ultimi anni. L’Asia si con­ferma il continente- boia: 82 esecu­zioni in Arabia saudita, 68 in Irak, 30 in Corea del Nord, 17 in Viet­nam, praticamente il 98,6% del to­tale. Con l’ultimo inquietante dato dal Giappone. Dopo una pausa lun­ga venti mesi, a marzo il governo di Yoshihiko Noda, premier da meno di un anno, ha ripristinato il ricorso alla pena capitale. Proprio ieri due condannati sono stati impiccati portando a cinque il numero delle vittime nel 2012. E Tokyo fa sapere che non intende affatto abolire la pena di morte-sostenuta dall’85% della popolazione-ma vuole sem­ma­i ricorrere all’iniezione letale in­vece che all’impiccagione. La pro­va che la battaglia contro il boia è ancora tutta da combattere.