Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 04 Sabato calendario

Dieci anni di tormenti I fondi d’investimento bruciano 90 miliardi - «Investitore fai-da-te? Ahi, ahi, ahi»,si diceva una volta parafrasan­do un noto slogan pubblicitario

Dieci anni di tormenti I fondi d’investimento bruciano 90 miliardi - «Investitore fai-da-te? Ahi, ahi, ahi»,si diceva una volta parafrasan­do un noto slogan pubblicitario. Il consiglio per gli acquisti era sem­pre il solito: affidate i vostri rispar­mi a professionisti, a gente capace di destreggiarsi con la disinvoltura di un Messi tra gli ostacoli dei mer­cati e di portare sempre a casa il risultato. Ma è davvero così? Non proprio, al­meno a giudica­re dal corposo dossier che Me­dio­bancahade­dicato all’indu­stria italiana del risparmio gestito, quella cioè che fa capo soprattutto ai fondi comuni. In un profluvio di cifre e confronti, gli analisti di Piazzetta Cuccia giun­gono­alla conclusione che un ever­green come il Bot dà maggiori sod­disfazioni in termini di rendimen­to rispetto ai fondi. Anche nel mez­zo della tempesta del debito sovra­no, anche tra i flutti alti dello spread, il vecchio Buono del Teso­ro a 12 mesi ha garantito nel 2011 un guadagno (al netto delle impo­ste) dell’1,8%. Modesto fin che si vuole, ma certo più rassicurante della perdita del 2,2% accusata da un ipotetico portafoglio composto da tutti i fondi in circolazione. Si tratta di una media, beninteso: qualche gestore avrà senz’altro ot­tenuto performance superiori, co­sì come qualche altro sarà incappa­to in risultati ancor più deludenti. L’analisi di Mediobanca sfata un altro mito, quello secondo cui l’in­vestimento nei fondi va giudicato sul medio-lungo periodo. Ebbene, dalla loro nascita (1984) al 2011 so­no passati ben 28 anni. Abbastan­za per un giudizio non condiziona­to dalla crisi dei mutui subprime e da quella attuale. Così, mentre il so­lito Bot ha offerto un rendimento annuo del 6,2%, i fondi non sono andati oltre il 5,6%. Ciò si traduce, ricorda lo studio, «in una perdita di oltre una volta il patrimonio inizia­le (aumentato nel periodo di sole 3,5 volte contro le 4,6 dei Bot). Da qui il verdetto, pesantissimo, di Me­diobanca: l’industria dei fondi con­tinua a rappresentare un elemento distruttivo di ricchezza per l’econo­mia italiana. Tradotto in cifre, sia­mo nell’ordine dei 52 miliardi nel­l’ultimo decennio, valore che sale a 90 miliardi se si tiene conto del premio al rischio per la componen­te azionaria. Da tempo, peraltro, i fondi non rappresentano più per i risparmia­tori quella irresistibile attrattiva che erano stati negli anni d’oro.Il fe­nomeno dei riscatti, cioè dei disin­vestimenti, ha provocato negli ulti­mi otto anni un’emorragia di 228 miliardi di euro, di cui 27 miliardi solo lo scorso anno. E nei primi tre mesi del 2012, i rimborsi al netto delle sottoscrizioni sono stati pari a 3,5 miliardi, quando invece afflus­si netti di non lieve consistenza si sono visti in Irlanda (31,1 miliardi), Lussemburgo (29,1) e Francia (24). Sotto il peso della fuga di mas­sa, il patrimonio del nostro sistema si è come prosciugato, passando dal top di 376 miliardi del 2004, quando l’Italia era al quarto posto nella classifica di settore (ora è sci­volata al 13esimo), a 188 miliardi. In questo modo, i fondi rappresen­tano oggi solo il 12% del Pil (8,3% se si considerano solo i fondi aperti ar­monizzati) contro il 63% della me­dia europea e rispetto al massimo del 42,2% toccato nel 1999. Dietro a queste cifre, in particola­re quelle relative al fenomeno dei rimborsi, c’è l’incapacità di offrire rendimenti adeguati. Questa è la prima molla che induce il rispar­miatore a dire addio a un fondo. Spesso si tratta di una decisione sofferta e ponderata: a nessuno piace uscire da un investimento in perdita. Ma c’è anche un altro aspetto: i fondi italiani costano. Troppo, se paragonati all’indu­stria finanziaria Usa. Il volume del­le c­ommissioni addebitate ai sotto­scrittori è stato pari nel 2011 a 2,4 miliardi, con punte del 2,2% per gli azionari e dell’1,6% per i bilancia­ti, contro lo 0,79% degli azionari statunitensi. «Sugli azionari grava­no oneri quasi tripli- scrive Medio­banca- , mentre gli obbligazionari costano in media il 70% in più». Venduti a caro prezzo, ma non so­lo. Il rapporto va anche a colpire un’altra abitudine italiana, quella della continua movimentazione del portafoglio. Un tourbillon a 360 gradi: riguarda sia i titoli di Sta­to, la cui rotazione avviene ogni ot­to mesi, sia le azioni (rigiro ogni set­te mesi). «Visioni di brevissimo pe­riodo, se raffrontate alla media americana, pari a poco meno di due anni». Questa filosofia potreb­be far pensare alla mancanza di una precisa linea gestionale, ma il fatto certo è uno: una rotazione ec­cessiva porta a maggiori oneri di negoziazione. E, dunque, a minori rendimenti.L’analisi riserva l’ulti­ma stoccata allo spostamento al­l’estero - principalmente in Lus­semburgo- di una quota significa­tiva dei patrimoni in gestione. La trasparenza nel Granducato è infe­riore a quella in Italia. Questi fondi sono chiamati roundtrip e alla fine del 2011 costituivano il 52% del pa­trimonio dei fondi aperti seguiti da gestori italiani.