Notizie tratte da: Silvia Evangelisti # Storia delle monache # il Mulino Bologna 2012 # pp. 282, 26 euro., 6 agosto 2012
Notizie tratte da: Silvia Evangelisti, Storia delle monache, il Mulino Bologna 2012, pp. 282, 26 euro
Notizie tratte da: Silvia Evangelisti, Storia delle monache, il Mulino Bologna 2012, pp. 282, 26 euro.
Per alcuni secoli, a partire dal medioevo, s’intendeva che la vita femminile dovesse seguire due uniche traiettorie: il convento o il matrimonio.
Il convento per le famiglie: un luogo sicuro e onorevole per figlie, sorelle, madri vedove. [11]
Povertà, castità, obbedienza: i tre voti solenni e irrevocabili professati dinanzi ai superiori, il vescovo o il padre superiore dell’ordine religioso. Potevano essere sciolti solo attraverso una complicata procedura legale. [21]
I doveri familiari in conflitto con la devozione. Il caso della mistica Angela da Foligno (1248-1309): «In quel periodo per volere di Dio morì mia madre, che era per me un grande impedimento, e dopo, in breve tempo, cessarono di vivere mio marito e tutti i miei figli. Poiché avevo pregato Dio che morissero, ne ebbi una grande consolazione e pensai che, dopo quei doni divini, il mio cuore sarebbe stato sempre in quello di Dio e il suo nel mio». [23]
Caterina da Siena (1347-1380), dedita a una disciplina di mortificazione del corpo che la portò, già da bambina, ad autoinfliggersi punizioni fisiche estreme. Giunse a sfigurarsi il corpo buttandosi nelle acque bollenti delle terme. [23]
Non sempre la vita in convento isolava completamente dalla famiglia. A volte si ritrovavano a vivere tra le stesse mura sorelle, zie, nipoti e, in qualche caso isolato, anche madri e figlie. [24]
Collocare una figlia in convento incideva molto meno del matrimonio sulle risorse finanziarie della famiglia. Tra il Quattro e il Cinquecento in molte città italiane il valore delle doti conventuali era compreso tra un terzo e un decimo di quello delle doti matrimoniali. Fattore che contribuì ad aumentare drasticamente il numero delle donne che prendevano i voti monastici. [11]
Altra spiegazione dell’aumento del numero delle professioni: la riluttanza della nobiltà a dare le proprie figlie in spose a uomini di rango inferiore (tendenza spagnola). [11]
Le comunità monastiche femminili offrivano una sistemazione conveniente per le figlie dell’élite. E talvolta, per ragioni di carattere economico, la professione era forzata. Arcangela Tarabotti, suora veneziana (1604-1652): «Non danno per ispose a Giesù le più belle e virtuose, ma le più sozze e difformi, e se nelle lor famiglie si ritrovano zoppe, gobbe, sciancate o sciempie, quasi ch’il diffetto di natura sia diffetto d’esse, vengono condennate a starsi prigione tutto il tempo della lor vita». La Tarabotti era la maggiore di cinque sorelle, disabile. Ritenuta poco attraente per il mercato matrimoniale, era l’unica a essere stata destinata al convento. [27]
A Firenze, tra il 1500 e il 1799, il 46 per cento delle figlie dell’élite – su un campione di ventuno famiglie – prende i voti. A Milano lo fanno tre quarti delle figlie della nobiltà. [11]
In convento entravano anche donne attratte dalla vita religiosa perché questa rappresentava un modo per evitare povertà ed esclusione sociale. A partire dal XII secolo aumentano in Europa le istituzioni pensate per offrire rifugio a donne in difficoltà: ex prostitute, vedove, donne maltrattate. [32]
Una giornata in convento: sveglia la mattina presto, orazioni nel coro, lavoro (disbrigo di questioni amministrative e finanziarie e organizzazione della comunità), pausa per il pranzo servito nel refettorio comune, breve riposo, di nuovo lavoro, cena, breve riposo, preghiere prima di coricarsi. Le monache erano tenute al silenzio durante la giornata. I pasti dovevano essere consumati collettivamente, ascoltando la lettura di testi edificanti fatta da una monaca. [34]
L’abito copriva il corpo dalla testa ai piedi, doveva essere di colore neutro e ricavato da stoffa non particolarmente lavorata. I capelli dovevano essere corti per poterli pettinare senza inutili perdite di tempo. Proibiti gli specchi, le decorazioni alle pareti, altri oggetti di lusso come tappezzerie e cuscini sontuosi. [35] Anche se non era sempre così. Nel 1577 a Napoli, nella cella della nobildonna Giulia Caracciolo vengono trovati mobili in ebano e avorio, busti in marmo bianco e nero, un tappeto persiano, una chitarra ecc. [57]
Pur mangiando allo stesso tavolo e indossando lo stesso abito, le monache non godevano tutte di uguali opportunità. Le monache coriste (o velate) provenivano solitamente da famiglie nobili, pagavano la dote piena, potevano essere badessa, vicaria, sacrestana, procuratrice, tesoriera. Le monache converse (o servigiali) erano quasi sempre di umili origini, pulivano, facevano il bucato e il pane, cucinavano, si occupavano dei lavori più pesanti (dai quali erano escluse le coriste). Non potevano imparare a leggere e a scrivere. [37]
Le monache converse dovevano essere «non maggiori di quarant’anni, ne minori di vinti, sane di corpo, et di natura facile all’obedienza» (Prattica del governo spirituale e temporale dei monasteri e delle monache…, 1604, Archivio segreto vaticano). [37]
La distinzione tra coriste e converse è sopravvissuta fino agli anni Sessanta, quando è stata abolita dal Concilio Vaticano II.
I protestanti consideravano la castità particolarmente nociva, perché impediva alle donne di adempiere il proprio ruolo primario di mogli e madri. [39]
La regola di san Benedetto: «Il monastero poi, se è possibile, dev’essere organizzato in modo che tutte le cose necessarie, cioè l’acqua, il molino, l’orto e le officine delle diverse arti si trovino dentro l’ambito del monastero, perché i monaci non abbiano alcuna necessità di andar vagando fuori: ciò che non giova assolutamente alle anime loro». [46]
Le prime regole raccomandavano la clausura sia agli uomini sia alle donne, ma veniva sempre posto un rilievo maggiore sulla clausura femminile che su quella maschile.
Le monache, come spose di Cristo, dovevano mantenere intatta la loro verginità fino al termine della vita e farne dono a Dio unendosi a lui in matrimonio celeste. La clausura assicurava l’eterna purezza del corpo. Nel corso del medioevo la clausura cominciò a essere considerata non più una protezione dai pericoli del mondo, quanto una protezione dal pericolo che le donne – per natura deboli, inclini al peccato e facilmente esposte alle tentazioni – rappresentavano per se stesse. [47]
La verginità come condizione essenziale del monachesimo. Sant’Agnese, santa Caterina, sant’Agata, santa Lucia, morte difendendo la loro castità in onore della fede. [106]
Il Concilio di Trento, pur non creando la clausura ex novo, le diede una rilevanza senza precedenti. La clausura diventa un obbligo per ogni forma di vita religiosa femminile in comune, e nuove magistrature statali vengono istituite per applicarla. Continuano comunque a esistere alcune comunità femminili prive di clausura, per esempio nei Paesi Bassi. [49]
Dopo il Concilio, grandi opere di ristrutturazione nei conventi. La clausura richiedeva un isolamento sia fisico sia visivo: le monache non dovevano poter vedere lo spazio esterno né essere viste da estranei. Per soddisfare tali requisiti le autorità ecclesiastiche davano ordine di costruire e rialzare muri interni ed esterni. Le spese sostenute per queste ristrutturazioni erano spesso accollate alle monache e alle loro famiglie. [51]
L’ideale di clausura perpetua, come formulato dal Concilio, prevedeva che dal momento della professione solenne le suore non potessero più uscire dal convento, se non in caso di guerre e invasioni, incendi, epidemie come la peste o la lebbra. Chi trasgrediva incorreva in severe punizioni: la sospensione dagli uffici e talvolta la prigione. Per gli esterni che entravano in convento senza permesso era prevista la scomunica. [53]
La clausura come apostolato contemplativo: è la regola di Teresa d’Ávila. Combattere gli eretici, aiutare i cattolici attraverso l’esercizio spirituale e la preghiera perpetua. [60]
La portineria dell’abbazia cistercense di Coyroux fino alla metà del Seicento: due entrate poste l’una di fronte all’altra, collegate una con l’esterno dell’edificio, l’altra con l’interno. La chiave dell’entrata interna era custodita dalla badessa, quella dell’ingresso esterno era affidata ai monaci. Per rifornire la comunità del necessario, un monaco lasciava le provvigioni tra le due porte e bussava alla porta interna con un bastone appena prima di uscire dalla porta esterna, che poi chiudeva a chiave da fuori mentre la monca ritirava la merce. [52]
Il parlatorio: doveva essere chiuso e protetto. Visite limitate al minimo (parenti, medici, frati) su licenza esclusiva del vescovo. Gli incontri e le conversazioni avvenivano sotto la sorveglianza delle suore ascoltatrici.
La chiesa del convento: polo devozionale per monache e fedeli, in alcuni casi divisa con un muro in due parti, entrambe fornite di altare. Dal coro e attraverso la finestra che dava sulla chiesa esterna le monache e il resto dei fedeli si univano, celebrando insieme i riti religiosi. «Questa combinazione di separazione e unione all’interno della chiesa conventuale esprimeva isolamento dalla società e, allo stesso tempo, continuità con essa». [56]
La storia delle comunità monastiche femminili è percorsa da una tensione costante tra la clausura e un modello di vita religiosa più aperto e orientato al di fuori della comunità. [13]
In clausura, le monache non potevano più uscire per chiedere elemosine, né andare negli ospedali per prestare assistenza ai malati e fare opere di carità. Non tutte accettarono le leggi tridentine. Alcune cercarono di fondare comunità libere dagli obblighi della clausura. Altre fecero resistenza: le monache del convento bolognese di Santa Cristina, per esempio, che nel 1628 lanciarono sassi e tegole contro i muratori incaricati di rinforzare le mura del convento. [61-63]
Gregorio XIII firma nel 1575 la bolla papale che impone la scomunica a chiunque entri nei conventi delle monache.
Il convento come luogo che incoraggia l’attività intellettuale femminile piuttosto che reprimerla. In Spagna tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento almeno 113 monache autrici di autobiografie e opere spirituali. [75]
Maria di Agreda bruciò su ordine del confessore l’unica copia della Mistica città di Dio. Molti anni dopo, un altro confessore le ordinò di scrivere tutto da capo. Lei eseguì, e l’opera fu pubblicata poi cinque anni dopo la sua morte, nel 1670. E’ considerata uno dei suoi capolavori. [77]
Arcangela Tarabotti, monaca forzata vissuta a Venezia nel Seicento, scrittrice prolifica, denunciava la discriminazione orchestrata dagli uomini a proposito dell’educazione «a pregiudizio delle donne, da loro artificiosamente tenute lontanissime deagli studij acciò alle occasioni non sappiano o vagliano a difenderesi».
Arcangela Tarabotti nel Paradiso monacale: «Sapiasi dunque che sì come le monache forzate provano in questa vita tutte le pene dell’Inferno, come altrove farò vedere, così le volontarie sentono in sé tutte le dolcezze del Paradiso».
Arcangela Tarabotti: «Il padre non deve e non può maritar quella figlia che vol esser vergine; né essa è tenuta ad aderir alla di lui determinazione, si come non può violentarla a monacarsi senza il concorso dela di lei libera volontà». [94]
Già nel medioevo nei conventi si pratica il teatro: le suore scrivono poesie e opere che vengono messe in scena in occasione di festività e celebrazioni religiose. [102]
Le carmelitane scalze, gruppo fortemente animato dallo spirito missionario. Fondate da Teresa d’Ávila, che scrisse al fratello l’intenzione di fondare una comunità religiosa «di non più di quindici monache», che dovevano vivere «in una così stretta clausura da non poter uscire né essere viste senza il velo sul volto, e fermamente radicate nella preghiera e nella mortificazione». [159]
Terziarie o pinzochere in Italia, beghine nei Paesi Bassi, beatas nella penisola iberica: una forma diversa di vita religiosa femminile (fin dal medioevo) che consentiva di entrare in una comunità prendendo solo i voti semplici, anziché quelli solenni professati dalle monache. Voti semplici che erano reversibili e permettevano di mantenere il proprio stato secolare nel mondo. [183]
Anche dopo il Concilio di Trento la Chiesa non riuscì a imporre la clausura universalmente come avrebbe voluto. [183]
Le orsoline, fondate da Angela Merici nel 1536, diedero vita al primo ordine femminile del mondo cattolico dedito all’insegnamento. Un percorso alternativo sia al matrimonio sia all’istituzione monastica. [187] Angela rifiutò l’abito monastico. Gli abiti delle ragazze che entravano nella comunità di Sant’Orsola dovevano essere appropriati allo stato verginale, e quindi «honesti e semplici». Come prescriveva la regola, «ciascuna vada vestita con busti serati […] et sopra portino veli di lino o bambasco non troppo sottile, et per niente trasparenti […]». [190]
Angela Merici, rimasta presto orfana, era entrata in una comunità di terziarie francescane. Negli anni in cui le guerre franco-italiane causavano epidemie e distruzioni, aveva lavorato con un gruppo di donne, soprattutto vedove, all’ospedale di Brescia curando le sifilitiche.
La lotta al protestantesimo attraverso l’educazione femminile: è il progetto perseguito da Mary Ward (1585-1645), nata in un’aristocratica famiglia dello Yorkshire, che nel 1609 con l’aiuto di un gruppo di compagne fonda una scuola, la prima di una lunga serie di collegi per ragazze cattoliche che sorsero in tutta Europa. Gli istituti della Beata Vergine Maria o, com’erano comunemente chiamati, gli istituti delle Dame inglesi. [194]
Mary Ward prese a modello i gesuiti e, per raggiungere gli obiettivi che si era posta, rifiutò la clausura. Papa Urbano VIII dopo aver espresso un certo apprezzamento nei suoi confronti cedette alle pressioni degli oppositori e ordinò lo scioglimento di tutte le istituzioni delle dame inglesi. Mary fu arrestata e dichiarata «eretica, scismatica, e ostinata ribelle contro la Santa Chiesa […], da gettare […] tra le fauci della morte]. Scontò due mesi di detenzione nel convento delle clarisse di Monaco di Baviera, poi continuò la sua attività pedagogica a Roma, come laica. L’istituto delle Dame inglesi fu riabilitato dalla Chiesa, nella sua forma secolare, nel Settecento. [199]
Il «legame perfetto» tra i francesi Francesco di Sales e Giovanna di Chantal («Non ho mai inteso tra noi altra obbligazione se non quella dell’amore e della pura amicizia cristiana», scrisse lui), che portò alla nascita delle visitandine. Giovanna giurò obbedienza a Francesco, prese i voti semplici in sua presenza e lo scelse come direttore spirituale. Francesco pretese che lei praticasse castità, carità e libertà interiore, che comportava la libertà dai legami familiari. Giovanna, vedova con figli da accudire, si separò dai familiari. [202]
«Una donna malata dovrebbe essere preziosa come l’oro. […] Non provo nessuna ripugnanza nell’assistere la mia vicina che soffre delle più nauseanti malattie» (Giovanna di Chantal). Dopo un primo periodo in cui le visitandine potevano praticare la vita contemplativa dedicandosi ad attività caritatevoli, la Chiesa impose loro la clausura. [205]
Vincenzo de’ Paoli e Luisa di Marillac, altra coppia di religiosi francesi da cui nacquero le Figlie della carità. Non classificate come suore, non aspiravano a diventare un vero e proprio ordine religioso. Il reclutamento, a differenza delle visitandine e delle dame inglesi, avveniva in buona parte tra le donne di estrazione medio-bassa, avviate al lavoro di cura dei più vulnerabili. Come affermato dalla loro regola, assistevano poveri, malati, bambini e prigionieri. Riuscirono a evitare la clausura. Nel 1975 il gruppo contava 3.718 case nel mondo e 39.856 membri. [211]