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 2012  agosto 06 Lunedì calendario

QUELLA UNO BIANCA E L’ENCOMIO NEL GARAGE

La targa con l’encomio solenne è da qualche parte nel garage, gettata tra i pezzi di ricambio per l’auto. Dimenticata, come il suo proprietario.
Eppure c’è stato un tempo non troppo lontano in cui l’Italia uscì da una paura vera, reale, grazie all’ex sovrintendente Pietro Costanza, oggi un tranquillo pensionato di 56 anni e al suo collega, l’ispettore Luciano Baglioni. Un tempo oscuro nel quale una banda di assassini imprendibili uccideva, rapinava, a bordo di Uno bianca. Una scia di sangue lunga sette anni, 102 rapine e 23 omicidi. Carabinieri, immigrati, semplici passanti.
Erano i fratelli Savi, agenti in servizio alla questura di Bologna. Ma nell’autunno del 1994 ancora non lo sapeva nessuno. I «giustizieri sanguinari» erano ancora in giro, ma a Bologna c’era chi aveva capito tutto. Il magistrato Giovanni Spinosa, che indagava su quei delitti, aveva risolto il mistero. Dietro alla Uno bianca c’era la banda delle Coop, formata da una trentina di mafiosi catanesi, il boss di camorra Marco Medda e tre piccoli delinquenti locali. Li fece condannare a trecento anni di carcere.
C’era solo un piccolo dettaglio che stonava: non era vero niente, si trattava di uno dei più clamorosi errori della nostra storia giudiziaria, poi cancellato dalla Cassazione. Baglioni&Costanza, che non credevano a quello che si rivelò solo un teorema, avevano intanto avviato indagini per conto proprio. Facevano parte della squadra di investigatori creata dalla procura di Rimini. Dopo sette anni di caccia alle ombre, era stata sciolta, con molte ironie sui «poliziotti da spiaggia» che ne facevano parte, desiderosi di confrontarsi con una storia più grande di loro. Baglioni e Costanza, amici dall’inizio degli anni Ottanta, avevano una ragione in più per continuare a cercare. Era anche una questione privata. Il sovrintendente Antonio Mosca era stato il loro maestro all’ingresso in Polizia. Fu crivellato di pallottole in un agguato sotto un ponte dell’autostrada, a Cesena, nell’ottobre del 1987, morì dopo un anno di agonia. Un delitto che sembrava destinato a rimanere senza colpevoli, come tutti gli altri.
C’era solo un identikit, ricavato dall’unica volta in cui Fabio Savi venne ripreso da una telecamera durante una rapina in banca. Baglioni e Costanza lo tenevano nel portafoglio, lo avevano appeso allo specchio del bagno, sul cruscotto della Y10 sulla quale giravano notte e giorno.
«All’inizio ci sembrava un tabù anche pensarlo, una follia. Ma in un angolo della testa c’è sempre stata l’idea che potessero essere nostri colleghi. Poliziotti». Deduzioni, intuizioni, tanti appostamenti. Un giorno incontrano Fabio Savi (nella foto con il fratello Roberto, dietro, dopo l’arresto) davanti alla banca di Santa Giustina, un piccolo paese del riminese. Lo seguono fino a casa sua, a Torriana, dove abitava. Se lo ritrovano accanto al bancone del bar. Da lui risalgono fino a Roberto, il capo della banda. «Andiamo alla questura di Bologna, all’ufficio amministrativo, per fare accertamenti sulle sue armi. A un certo punto l’impiegata tira fuori la scheda di Roberto, e alza la testa. "Che strano" ci disse. "Somiglia da matti a uno che lavora qui al piano di sopra, alla centrale operativa" Mi gelò il sangue nelle vene. Scappammo dalla questura, non volevamo restarci un istante di più». Sette giorni dopo, la sera del 21 novembre 1994, Roberto Savi viene arrestato nel suo ufficio. Confesserà, rivelando anche di essere stato lui a uccidere Mosca.
In pensione dal 2010, Costanza non parla volentieri di quelle che definisce «vecchie storie». La voce è carica di una delusione che non ti aspetti. «Parliamoci chiaro: io e il mio amico abbiamo fatto bene il nostro lavoro, punto e basta. Ma a Bologna, in questura, è impossibile che nessuno sapesse nulla. Non si è voluto indagare fino in fondo su questo aspetto, sulle coperture, sull’omertà. Il ministero non ha fatto nulla, i magistrati si sono accontentati. C’era voglia di mettersi tutto alle spalle. Il caso era risolto, no? Così si è lasciata aperta le porte per le congetture e le ipotesi più strane, che sopravvivono ancora oggi».
Dalla sua casa di Rimini, il pensionato Costanza guarda con distacco solo apparente alle brillanti carriere di colleghi che non si erano accorti di nulla, di magistrati che avevano sbagliato tutto. «Spinosa ha pure scritto un libro, nel quale insiste con certe fumisterie, con questa storia che dietro alla Uno bianca c’era la mafia. Ancora una volta senza lo straccio di una prova. Ma dico, dopo la figura che hai fatto almeno taci, no? E invece trova anche gente che lo sta ad ascoltare. Pazzesco». Anche per quello l’encomio solenne prende polvere in garage. «Mi creda, sono un uomo in pace. Non nutro rancore per nessuno. E’ solo che credevamo nella giustizia, che non deve fermarsi, mai. Noi abbiamo fatto la nostra parte. Gli altri, insomma».
Marco Imarisio