Sergio Romano, Corriere della Sera 06/08/2012, 6 agosto 2012
VELENI DEL PASSATO, NUOVI SARCASMI. NELLA CRISI FINANZIARIA C’E’ LA STORIA - I
diplomatici (ho fatto parte della famiglia per parecchi anni) sanno che nel passato dei rapporti fra due Paesi vi è, letteralmente, di tutto: le guerre, le alleanze, gli interessi comuni, l’ammirazione, l’invidia ma anche gli odi, i tradimenti, l’ironia, il sarcasmo, le rappresentazioni caricaturali. Quello della memoria è un magazzino in cui le società, le classi politiche e i ceti dirigenti possono sempre trovare ciò che può maggiormente servire alle loro esigenze del momento. Mario Monti non è un diplomatico, ma il lungo tirocinio di Bruxelles gli ha certamente insegnato che l’indice della memoria, vale a dire la quotazione dei ricordi sul mercato della pubblica opinione, non è meno importante dell’indice del prezzo del petrolio e di altre materie prime. Nella lunga intervista al settimanale tedesco Spiegel vi sono tutti gli argomenti che il presidente del Consiglio ha già illustrato ai suoi interlocutori stranieri nel corso degli ultimi mesi. L’Italia ha messo ordine nei suoi conti, ha fatto molte delle riforme necessarie alla sua crescita, non chiede aiuti finanziari e insiste sullo scudo contro lo spread soprattutto perché ritiene, nell’interesse comune, che occorra contrastare con un energico segnale l’isterismo dei mercati finanziari. Nulla di nuovo, quindi? No. La novità è nel tono di una intervista in cui i tradizionali temi tecnici hanno ceduto il passo ad altre riflessioni. Per la prima volta in questi mesi Monti ha detto ai tedeschi che il problema non è soltanto economico. È anche storico e culturale.
Un passo indietro. Durante la crisi abbiamo già assistito in molte circostanze al palleggio dei luoghi comuni. Abbiamo letto e riletto, nelle sue diverse varianti, la favola della cicala e della formica. Abbiamo appreso che i Paesi del Sud sono, per i Paesi del Nord, spendaccioni, corrotti, bugiardi e inclini a rimangiarsi la parola data. Abbiamo appreso che il Nord, per il Sud, è arrogante e imperioso. Ci è stato detto che la Germania, dopo le due grandi guerre del Novecento, avrebbe addirittura sferrato il suo terzo assalto al potere mondiale. E sappiamo che i Paesi della fascia meridionale dell’Unione sono, per le società del Nord, partner infidi che non meritano di essere aiutati. Ho sperato che questo acido brontolio fosse soltanto l’inevitabile effetto della crisi economica e ho constatato con piacere che i governi, alla fine del negoziato, riuscivano a trovare una intesa. Molti osservatori italiani hanno riconosciuto che la Germania aveva qualche buona ragione per negoziare duramente: se avesse ceduto troppo presto, gli Stati indebitati avrebbero probabilmente annacquato la politica del risanamento. Molti osservatori stranieri hanno reso omaggio allo stile di Monti e a molte virtù italiane: il risparmio, il lavoro, la pazienza. Le soluzioni sono giunte quasi sempre troppo tardi, ma la crisi ha avuto anche il merito di costringere i governi europei a interrogarsi sul futuro dell’Unione. Senza i rischi che abbiamo corso negli ultimi mesi, non avremmo il Patto fiscale, non avremmo cominciato a parlare di Unione fiscale e la Banca centrale europea continuerebbe a comportarsi come se la stabilità della moneta fosse la sua sola preoccupazione.
Da qualche tempo, tuttavia, il clima è diventato più velenoso. Quando un importante uomo politico tedesco (il segretario della democrazia cristiana bavarese) lascia intendere che la politica di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, sarebbe ispirata dalla sua nazionalità, la soglia del pericolo può considerarsi raggiunta. Quando un uomo politico italiano fa del mediocre umorismo sul fisico della signora Merkel, la soglia del cattivo gusto è oltrepassata. Parlo dell’Italia e della Germania, naturalmente, ma credo che lo stesso possa essere detto di quello che sta accadendo in molti altri Paesi europei. Sappiamo che le ragioni sono quasi sempre elettorali e che i governi temono per la loro sorte. Parlano «europeo» quando vanno a Bruxelles e devono accordarsi sul futuro della Ue; parlano la lingua nazionale, o addirittura il dialetto, quando devono indirizzarsi ai loro elettori. Ma non sembrano accorgersi che in questo modo stanno soffiando sul fuoco del nazionalismo e dell’eurofobia, stanno scavando la fossa in cui l’Europa e la loro politica rischiano di affondare.
La constatazione diventa ancora più amara per coloro che ricordano quale fosse il clima europeo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli italiani, i francesi, i belgi e gli olandesi avrebbero potuto rinfacciare alla Germania l’occupazione, le rappresaglie, i campi di concentramento, la docilità con cui la società tedesca aveva eseguito gli ordini di Hitler. A molti rappresentanti della Repubblica federale avremmo potuto chiedere dov’erano e che cosa facevano negli anni del regime nazista. Ai loro partner europei i tedeschi avrebbero potuto ricordare il Diktat di Versailles, le ingiuste condizioni economiche imposte al loro Paese dopo la fine della Grande guerra, i cedimenti delle democrazie di fronte a Hitler nel settembre del 1938. A noi, in particolare, i tedeschi avrebbero potuto rinfacciare il tradimento dell’8 settembre; e avrebbero potuto ricordare, con rabbia e disprezzo, che lo stesso era accaduto, in altre circostanze, quando l’Italia aveva abbandonato la Triplice nel 1915 e dichiarato guerra alla Germania nel 1916. Non vi era uomo politico europeo, allora, che non avesse nella sua storia personale e in quella della sua famiglia gli argomenti per opporsi alla pacificazione e al progetto d’integrazione europea lanciato da due francesi — Robert Schuman e Jean Monnet — nel giugno del 1950. Ma i leader politici di allora adottarono una linea completamente diversa. L’uomo che rappresentò l’Italia alla prima conferenza sul piano Schuman, a Parigi, si chiamava Paolo Emilio Taviani e aveva difeso la sua città durante le cruciali giornate dell’aprile 1945, quando i tedeschi minacciavano di fare saltare in aria, prima della ritirata, il porto di Genova. Ma nei suoi interventi non vi fu alcuna traccia di animosità e di rancore. Il tedesco Adenauer, l’italiano De Gasperi, il francese Schuman e il belga Spaak parlarono del futuro dell’Europa come se il passato non esistesse. Lo avevano forse dimenticato? No, sapevano che ogni polemico riferimento al passato avrebbe alimentato le resistenze nazionali e reso la ricostruzione dell’Europa ancora più difficile. Erano forse poco democratici? No, erano consapevoli delle loro responsabilità e preferivano essere criticati da una parte dei loro connazionali piuttosto che essere condannati dalla storia per avere mancato una grande occasione. Monti, Merkel e gli altri leader dell’eurozona sono per molti aspetti nella stessa situazione: devono scegliere fra le convenienze presenti e gli interessi del futuro. Per il tecnico Monti la scelta è più semplice di quanto non sia per Angela Merkel. Il presidente del Consiglio italiano può permettersi di dire allo Spiegel che vi sono circostanze in cui i governi, nelle loro relazioni con i parlamenti, devono disporre di una maggiore libertà di manovra. La cancelliera tedesca non può permetterselo. Ma sono entrambi consapevoli dei rischi che l’Europa sta correndo e di ciò che occorre fare per evitarli. Al punto in cui siamo, il problema non è più la moneta: è la politica.
Sergio Romano