Guido Ruotolo, La Stampa 6/8/2012, 6 agosto 2012
Tre campanacci appesi alla porta di ferro. È l’unico ricordo dei 605 capi di bestiame della famiglia Fornaro abbattuti perché avvelenati dall’Ilva, dalla diossina dell’agglomerato 2
Tre campanacci appesi alla porta di ferro. È l’unico ricordo dei 605 capi di bestiame della famiglia Fornaro abbattuti perché avvelenati dall’Ilva, dalla diossina dell’agglomerato 2. Vincenzo è il figlio di Angelo. Ha ereditato l’azienda “Carmine” avviata dal nonno nel 1850: cinquanta ettari di terreno, una bella masseria. La fabbrica si vede all’orizzonte, distante un chilometro e mezzo in linea d’aria. «Papà dorme male, si faceva cullare dal suono dei campanacci delle capre e delle pecore e oggi il silenzio è assordante. La masseria non produce più, non possiamo mettere grano o fieno. C’è ancora il divieto di pascolo e di coltivazione. Raccogliamo solo le olive, abbiamo dovuto licenziare i nostri cinque dipendenti». La famiglia Fornaro non avrebbe mai immaginato di diventare il simbolo della Taranto che si ribella ai veleni della fabbrica. «Tutto ha avuto inizio nel febbraio del 2008 quando prese l’avvio la campagna di controllo del latte della Asl di Taranto. Tutti gli allevamenti nel raggio di 5 chilometri dalla zona industriale furono controllati. Le analisi all’Inca di Lecce segnalarono presenza di Pcb e diossine simili maggiori dello 0,3 picogrammi rispetto ai limiti di legge. Ci imposero un vincolo sanitario, gli animali vennero messi in quarantena, venne vietata la commercializzazione del latte e delle carni e derivati. Dopo 10 giorni vennero fatti nuovi prelievi, analizzati questa volta a Teramo. I limiti della presenza del Pcb e delle diossine rientravano nella norma. Ma prima di sospendere i vincoli sanitari vennero fatti i controlli sulle carni». Vincenzo Fornaro è diventato un esperto. «I risultati furono sconvolgenti. Vennero trovati valori altissimi, fino a 114 picogrammi al posto dei 6 previsti. Anche se il primato spettò all’azienda “Quaranta”, che si trova a 500 metri dall’Ilva, con 230 picogrammi». Ha quasi timore a dirlo, Vincenzo. Ha perso la madre nel 2003 per il cancro alle ossa. Aveva 63 anni. E lui ha subito l’asportazione di un rene aggredito da un tumore. «Mangiavamo le carni delle nostre pecore e capre, giammai pensando che un giorno avremmo scoperto che i nostri animali erano contaminati. Era l’erba maledetta la principale colpevole. Abbiamo fatto le analisi registrando i picchi più alti di contaminazione sugli animali più anziani. Per i capi di due anni, 9 picogrammi, 62 per quelli di cinque». Nel maggio del 2008, il bestiame dell’azienda viene “incarcerato”: obbligo di rimanere chiuso nell’ovile, vincolo di pascolo, alimentazione con foraggio esterno. Nel luglio viene deciso l’abbattimento. Il decreto viene firmato il 10 dicembre, l’esecuzione il giorno dopo. Fine di un’azienda. Seguono poi gli abbattimenti degli anni seguenti, fino al dicembre scorso, nelle altre cinque aziende della zona. In tutto 2270 capi, smaltiti come rifiuti radioattivi. «Presentai a nome della famiglia una denuncia contro ignoti. Il pm Buccoliero nominò i suoi periti. Il professor Liberti non individuò i colpevoli della contaminazione. Ricordo a memoria un passaggio di quella perizia: «Non riusciamo a individuare la fonte della contaminazione. Bisogna sempre vedere dove gli allevatori hanno portato a pascolare le loro bestie». Noi nominammo i nostri periti, il professor Raccanelli di Venezia, Vincenzo Cagnazzo ed Emilio Giannicola. Si trovarono 20 tipi di diossine diverse. Ogni diossina ha il suo Dna. E quella che ha contaminato e avvelenato i nostri terreni è prodotta dall’agglomerato 2 dell’Ilva. La nostra perizia finì in Procura». Quella del professorLiberti è la perizia dello scandalo. Sarebbe stata manipolata e falsata perché l’Ilva avrebbe corrotto il suo estensore. Girolamo Archinà, il dirigente dell’acciaieria licenziato l’altro giorno dal presidente Bruno Ferrante, è indagato per corruzione in atti giudiziari.Anche la Provincia si costituì parte lesa e il 2 dicembre del 2010 si svolse l’incidente probatorio. Ricorda Vincenzo Fornaro: «Partecipai anch’io, nel febbraio andammo a visitare tutte le masserie con pascoli. L’incidente probatorio si concluse nel dicembre del 2011, a giugno la Regione si costituì parte civile. Mentre andava avanti l’inchiesta che vede indagati i dirigenti Ilva, il Noe dei carabinieri di Lecce per 40 giorni riprese tutto quello che accadeva in fabbrica. I carabinieri proposero il sequestro dell’acciaieria. Il 17 febbraio scorso si svolse l’incidente probatorio sulla perizia chimica, il 30 marzo si discusse quella epidemiologica». Il resto è cronaca di queste ore.