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 2012  agosto 03 Venerdì calendario

IL NUOTO MI HA INSEGNATO A SCRIVERE

Quando parla del mare, la voce di Raffaele La Capria s’increspa come un’onda smossa da un affettuoso vento di Maestro. Si può capire. Nel mare è nato, del mare ha scritto, sul mare ha sognato, il mare ha rimpianto una volta partito per Roma («mi svegliavo al rumore del traffico e mi sembrava il mare»). Immergersi era misurare a bracciate l’ampiezza della «bella giornata»: un piacere quasi metafisico. Non a caso nel nuoto trovava il ritmo e la disciplina dello scrivere. Era un rapporto fisico e al tempo stesso psicologico riservato però soltanto al «suo» mare, quello che bagna Napoli e a Capri mostra la vanitosa ricchezza della sua tavolozza. «C’è un colore ogni dieci metri - dice - dall’indaco al blu, dal blu al celeste e poi al verde. Un campionario unico».

Dopo aver licenziato il libro di racconti con cui, a settembre, la Mondadori lo festeggerà per i suoi novant’anni («ma non diciamo il titolo»), l’autore di Ferito a morte e di L’armonia perduta è partito proprio per Capri con il fotografo Renzo Capellini. Adesso, con lui, prepara un libro illustrato. Non un generico libro sull’isola dagli occhi azzurri, ma sullo spettacolo del suo mare. Forse soltanto La Capria può vedere il mare come uno spettacolo.

Lo ha conosciuto prima di ogni altra cosa. Da piccolo, quando lo sguardo ha cominciato a distinguere le cose, lui, dalle finestre di casa, sotto e davanti a sé, altro non vedeva che il mare di Posillipo. La casa, entrata poi come un mito sentimentale nel romanzo Ferito a morte che Vittorio Caprioli trasformò nel film Leoni al sole , è Palazzo donn’Anna avvinghiato a uno sperone di roccia e proteso come un vascello verso il mare aperto. Fu costruito nel Seicento dal viceré spagnolo Don Ramiro Guzmán per la moglie napoletana Anna Carafa. Nel palazzo lasciato incompiuto andò ad abitare la famiglia La Capria e in quelle stanze Raffaele detto Duddù nacque e visse fino alla giovinezza. Perciò il palazzo gli si è conficcato nel cuore come un ramo di corallo. «Se la giornata era bella, al risveglio aprivo felice la finestra e mi buttavo direttamente in acqua, sei metri più giù. Se era brutta m’immalinconivo e mi mettevo a leggere».

Nuotava, pescava, dava corpo all’estetica della «bella giornata». Ma tutto questo – che pure era felicità – non era niente rispetto alla scoperta del «mare di sotto». Avvenne durante la guerra. I giapponesi gli mostrarono l’impensato. Fino a quel momento lui aveva conosciuto e solcato il mare di sopra, il mare come paesaggio. Ne esisteva un altro. Quando vi si immerse, rimase folgorato. «Non c’era la tv che ci facesse vedere i fondali. Non c’erano nemmeno gli occhiali da sub. Perciò non potevo immaginare. Era un altro mondo. Quella scoperta mi fece scrivere Ferito a morte , poiché modificò le mie percezioni. Dentro il mare acquistavo una natura diversa, ero un pesce dentro l’elemento marino, cambiavo le posizioni del corpo. In sostanza, perdevo la natura umana e ne acquistavo un’altra».

Fu così che l’uomo-pesce fece un’altra e non meno meravigliosa scoperta: quella del silenzio assoluto. «Nuotare sott’acqua nel silenzio era come entrare in una cattedrale solenne. Questa esperienza mi ha segnato. Basti dire che nei termini di paragone uso sempre elementi marini. Per esempio: argenteo come la rena del fondo del mare. Oppure, se mi metto davanti all’arte psichedelica, non posso non pensare al sudiciume del mare».

La sporcizia, il degrado: ecco la sofferenza. Per definirla, La Capria ha creato un neologismo: malattia psicoecologica. Si sente profondamente malato di psicoecologismo. «Il diavolo ama il mare» esclama. Che vuol dire? «Vuol dire che il turismo di massa sta distruggendo tutto. Oggi il mare è affollato, le barche di plastica lo hanno sfigurato. Dov’è finita l’estetica delle belle prue e degli ottoni lucenti? Oggi un gommone arriva nei posti che un tempo si dovevano conquistare. Ciò che si ottiene facilmente è del diavolo». Ricorda un suo scoglio solitario a Capri: «Mi ci facevo portare con una barchetta. Partivo con un panino imbottito di salame e un asciugamano. Ci restavo per cinque-sei ore solo come Robinson, e quando il sole mi arrostiva, mi buttavo in acqua e sentivo la pelle sfrigolare». Sarebbe ancora possibile? La Capria riflette. «Oggi, sott’acqua, se la corrente è maligna, scorre un tale minestrone». E’ la monnezza di Napoli. L’ha segnalata con largo anticipo proprio il mare con il suo luridume «che punge l’occhio e mi fa pensare alla fine de mondo».

Perciò, anche se volesse, non azzarderebbe più i suoi famosi tuffi. «Ma quelli sono una leggenda metropolitana! E’ vero. Facevo tuffi da ragazzo. Mi allenavo con Ciccio Ferraris, che nel 1984 ha fatto le Olimpiadi di Los Angeles. Mi ha insegnato a tuffarmi prima dal trampolino poi dai dieci metri della piattaforma. Però i tuffi sono stati importanti per la mia scrittura. Un bel tuffo si fa ad ali spiegate, senza sforzo apparente. Ho capito che dovevo scrivere nello stesso modo, dovevo sembrare naturale e non far vedere lo sforzo e la fatica che ci sono dietro la naturalezza». Insomma, questo suo mare... «E’ parte integrante di me, ma soltanto il Tirreno. Nei suoi confronti ho concepito un’ammirazione estetica. Le Egadi, la Sardegna, la Corsica sono quanto di più vicino all’idea di bellezza». E Capri? «Capri è il momento supremo della bellezza mediterranea. Lì esiste un rapporto vivissimo tra la roccia e il mare. Lì i segni della civiltà sono bene impressi nei segni della natura. Se penso alla villa di Tiberio che si affaccia a strapiombo, davanti ai Faraglioni, riconosco l’unicità del rapporto civiltà-natura». La Capria ha frequentato molto Capri. Per una quindicina d’anni ne ha abitato una casa. «Era isolata sul monte Solaro, lontana dalla folla. Negli Anni 80 ci andavo spesso. Era un luogo magico, lontano dalla mondanità. Ci vivevo come in un eremo, osservando il muoversi delle stagioni e delle ore. Da lassù vedevi finalmente che cos’era un chiaro di luna, che cos’era un’alba. A febbraio vedevi fiorire il mandorlo, a maggio la mimosa». Poi ha lasciato l’eremo. «Non era più il caso». E le nuotate di una volta? «Oggi i dolori reumatici mi fanno stare più attento. Mi bagno soprattutto in piscina con mia vergogna, come qualsiasi signora d’età». E qual è il suo sentimento del mare, oggi? «L’eternità delle onde mi fa apparire l’altra eternità come possibile».