Liana Milella, la Repubblica 3/8/2012, 3 agosto 2012
“QUEI PM SONO SCORRETTI È CONTRO LA COSTITUZIONE INTERCETTARE IL QUIRINALE”
Ha proprio sbagliato la procura di Palermo su Napolitano e le ormai famose telefonate con l’ex ministro Mancino registrate nell’ambito dell’inchiesta su Stato e mafia. Il suo comportamento ha prodotto «un grave vulnus alle prerogative del presidente della Repubblica, senza tenere di esse alcun conto e alterando in concreto e in modo definitivo la consistenza dell’assetto dei poteri previsti dalla Costituzione ».
L’Avvocatura generale dello Stato non fa sconti ai magistrati di Palermo. Nelle 17 pagine che, per conto del primo inquilino del Colle, argomentano il ricorso alla Consulta e richiedono la distruzione immediata delle conversazioni, è detto espressamente che «sussistono precisi elementi oggettivi di prova del non corretto uso del potere giurisdizionale». I tre avvocati che firmano il ricorso — il capo dell’ufficio Ignazio Francesco Caramazza, il suo vice Antonio Palatiello e Gabriella Palmieri — elencano
meticolosamente gli errori: «Aver quantomeno registrato le intercettazioni in cui casualmente e indirettamente era coinvolto il presidente, averle messe agli atti del processo valutandone addirittura l’irrilevanza, ipotizzare di poter svolgere un’udienza stralcio per ottenerne l’acquisizione o la distruzione». Tutti questi comportamenti, che ignorano la piena immunità del capo dello Stato, configurano «il vulnus» all’istituzione e alla Costituzione. .
È stata fissata per il 19 settembre alla Consulta la camera di consiglio in cui gli alti giudici decideranno se il ricorso del Quirinale tramite l’Avvocatura è ammissibile. L’esisto appare scontato, soprattutto alla luce delle argomentazioni giuridiche del ricorso medesimo. Ruotano tutte intorno all’articolo 90 della Costituzione e all’articolo 7 della legge attuativa
dell’89. Scrivono gli avvocati dello Stato: «Le conversazioni cui partecipa il presidente, ancorché indirette e occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate, trascritte, e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione». Seguire la via opposta, come ha fatto Palermo, provoca «una lesione delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione ». Una «lesione» in crescita esponenziale visto che i pm di
Palermo «hanno valutato la rilevanza delle intercettazioni ai fini di una loro eventuale utilizzazione » e le hanno lasciate nel fascicolo del dibattimento proprio in vista dei confronti con i testi. Per l’Avvocatura tutto l’opposto di quello che si sarebbe potuto fare.
Il capo della procura di Palermo Francesco Messineo, in due diverse interviste a
Repubblica,
si è battuto per la tesi opposta. Intercettazioni indirette e casuali, lette in trascrizione e valutate come irrilevanti, ma sarà il giudice a deciderne la distruzione. Qui l’Avvocatura eccepisce e spiega che cosa è
dovuto al capo dello Stato, in quanto gli è già riconosciuto dalla stessa Costituzione. L’articolo 90 della Carta gli fornisce uno scudo totale, «un’immunità
sostanziale e permanente », perché «il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione». La legge attuativa dell’89 dice altrettanto, il divieto d’intercettazioni è totale. L’immunità garantita al presidente è piena, essa è giuridica, ma anche politica. Se così non fosse, verrebbe messa in crisi e gravemente compromessa «la funzione, attribuita al presidente dalla Carta, di massima rappresentanza a livello internazionale».
Scrive l’Avvocatura: «Fino a quando è in carica, egli non può subire alcuna limitazione nelle sue comunicazioni, altrimenti risulterebbe lesa la sua
sfera di immunità». E ancora: «Se c’è un divieto di intercettazione diretta, è naturale che debba esisterne uno altrettanto assoluto qualora le conversazioni
siano indirette o casuali ». Nessun vuoto normativo per l’Avvocatura, ma la necessità, quando si sfiora il presidente, «di rispettare le sue prerogative costituzionali evitando forme invasive di acquisizione della prova che non si conciliano con la sua assoluta libertà di comunicazione».
Che fare a questo punto? Per l’avvocatura vale in pieno il lodo Salvi — portare al giudice un pacchetto chiuso con le intercettazioni e poi distruggerle — e quindi l’uso dell’articolo 271 del codice di procedura penale che impone di non utilizzare ascolti «fuori dai casi consentiti dalla legge» in generale e per alcuni figure professionali come i sacerdoti nella confessione o gli avvocati al telefono con i loro clienti. Anche qui Messineo non è d’accordo, ma l’Avvocatura all’opposto
non ha dubbi.