Giovanna Grassi, Corriere della Sera 03/08/2012, 3 agosto 2012
LA MIA MARILYN —
«Con la sua grazia e il suo humour infantile, Marilyn era riuscita a infrangere a Hollywood la regola che una donna bella e sexy non poteva essere una attrice brillante. Non aveva atteggiamenti da vamp con gli amici. Ha aperto la strada anche a me, che mostravo le gambe, ma sapevo far ridere».
Shirley MacLaine, 78 anni, premio Oscar, racconta la sua Marilyn. Il 5 agosto di mezzo secolo fa la bionda più desiderata del mondo fu trovata morta in circostanze misteriose. Un dolore per tanti. Una grande sofferenza per l’attrice, oggi protagonista sugli schermi Usa con Bernie, in tv con Downtown Abbey, autrice di dieci libri. L’American Film Institute le ha appena reso omaggio.
«Un tributo che era toccato anche a lei — ricorda — E mi fa piacere. C’era sempre stata tra di noi una sorta di affinità da ribelli... Lei non è stata una santa, ma neppure io lo sono stata, né lo sono malgrado i miei interessi spirituali».
Qual è il suo ricordo più vivo?
«Angie Dickinson, Marilyn, May Britt, Lauren Bacall e altre eravamo le mascotte del gruppo di amici che faceva capo a Frank Sinatra, Peter Lawford, Dean Martin, Sammy Davis: quelli del Rat Pack. Ma Marilyn, con il suo estremo bisogno di capire la vita e se stessa, conservava sempre, anche nelle nostre scorribande, timidezza e spontaneità».
Lei ha scritto della Monroe nei suoi libri e ha confessato anni fa di parlare con il suo spirito... Perché Marilyn è così profondamente radicata nell’immaginario dell’America?
«Perché l’America è una nazione affascinata dalla sensualità, ma non ha con il sesso un rapporto sereno per tabù radicati. Marilyn, la ragazzina che aveva subito abusi, la donna che parlava con gli uccelli, si batteva contro ogni forma di razzismo e che Frank Sinatra per la prima volta aveva portato a Las Vegas, non era attirata dal potere, dal denaro o dalla politica (a esempio come me che ho persino fatto anni fa in California la campagna per Bobby Kennedy), ma dalle sue emozioni».
Chi erano i veri amici della Monroe?
«Pochi lo sanno, ma Marilyn ha avuto un mentore e un idolo, Elia Kazan. Robert Mitchum le fu molto vicino, Dean Martin la difese contro chi l’aveva licenziata dalla Fox, disse che non avrebbe fatto alcuni film se la Monroe non fosse ritornata nei cast. Nessuno la voleva per ruoli drammatici, le preferivano Betty Grable».
Perché era più affascinante di tante altre dive?
«Aveva qualcosa di naïf e genuino, a differenza di Jane Mansfield e di altre bionde. Non era eterea come Audrey Hepburn. Con quella sua innocenza e vitalità vulnerabili, continua a raffigurare, per uomini e donne, stilisti della moda e del cinema, il bambino che è in tutti noi. Con le sue attese e sue pene. Tanti anni dopo, io ho conosciuto Mastroianni e anche lui aveva lo stesso candore che tutto poteva contro il cinismo del cinema».
Alla serata dell’American Film Institute lei ha detto che alla prima di «L’appartamento», Marilyn aveva aperto il soprabito e... non aveva nulla. Si è scatenato un dibattito sul web...
«Chi non era alla serata non ha capito che avevo concluso con una sola parola: Marilyn. La memoria ha il diritto di impossessarsi come vuole dei ricordi. Considero Marilyn il mio angelo e con lei ho sempre avuto una confidenza "al femminile"».
Scriverà ancora di lei?
«Sì, nel mio prossimo libro, What If. Di lei mi piaceva la curiosità infinita. Parlava spesso di libri, forse perché sapeva di non avere una cultura della quale voleva impossessarsi come una spugna. E poi Marilyn, come me, era attirata dalla psicoanalisi. Ma come diceva Lauren Bacall «Aveva una logica tutta sua, non facile da capire». Perché anche nel suo dolore e nella solitudine di cui Hollywood è maestra ha insegnato che è importante fare solo ciò che non incrina la tua anima».
Altrimenti?
«Le conseguenze possono essere irreparabili. Io e Debbie Reynolds, che come me ancora lavora tanto, purtroppo abbiamo seppellito tanti amici. Con Marilyn prima e molto dopo con Liz Taylor se ne è andato un mondo che non c’è più. La vita è breve, anche se ci sembra a volte lunga. E bisogna ballare spesso. A me e a Marilyn piaceva molto. Lei non si stancava mai di andare a scuola di danza ed era così felice di interpretare Il principe e la ballerina dopo che io avevo portato in teatro una storia simile, The Sleeping Prince.
In quel mondo, secondo lei asservito ai «moguls», che cosa ha rappresentato Marilyn?
«Vorrei dire che non finiva mai gratuitamente nella braccia dell’eroe di turno, cosa che a Hollywood succede ancora oggi. Al di là di ogni fragilità e ferita, la rivoluzione sessuale di Marilyn è stata autentica e non può essere clonata».
Giovanna Grassi