Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 03/08/2012, 3 agosto 2012
IL DRAMMA DEI POPOLI IN FUGA NELLA STORIA DEL NOVECENTO
Leggendo sul Corriere del 26 luglio la lettera «Kaliningrad ex Königsberg ponte russo verso l’Europa» e la sua risposta, mia moglie è scoppiata in lacrime. È nata a Pillau, oggi Baltysk, quel piccolo porto vicino a Königsberg così tanto importante per i Russi. Ha subito un trauma d’infanzia, dovendo lasciare la sua casa e la patria di punto in bianco, per fuggire con la famiglia a Hamburg, mettendosi in salvo dall’ira atroce e disumana delle truppe dell’Armata Rossa. Si parla di 14 milioni di tedeschi che hanno avuto la stessa sorte. Ma oggi non è ammesso parlare di questo incredibile disastro umanitario. Può spiegare lei perché?
L. Hofmann
hofmann.l@alice.it
Caro Hofmann,
I l numero dei tedeschi fuggiti dall’Est di fronte all’Armata Rossa o cacciati subito dopo la fine della guerra dai territori in cui vivevano da molti secoli (i «vertriebene» della Prussia Orientale, della Slesia, della Pomerania, del Sudetenland cecoslovacco, di alcune regioni ungheresi e jugoslave) fu, secondo gli studiosi, fra i 12 e i 15 milioni. È ancora più difficile stabilire con precisione il numero di coloro che morirono di fame e freddo lungo la via della fuga o furono passati per le armi nella prima fase dell’occupazione. È certamente vero che di questa tragica storia, forse la più grande e sanguinosa migrazione di massa del Novecento, il mondo, per alcuni decenni, ha parlato pochissimo. Ma da qualche anno il sipario del silenzio si è alzato e il dramma è diventato finalmente materia di studi e memorie. Esistono i ricordi prussiani di Marion Dönhoff, editore della Zeit di Amburgo. Esiste il romanzo (Il passo del gambero, pubblicato da Einaudi) in cui Günter Grass ha raccontato l’affondamento, al largo di Danzica, di una nave, la Wilhelm Gustloff, in cui perdettero la vita novemila persone, di cui la metà erano bambini. Esistono il libro di Guido Knopp (Tedeschi in fuga, nella edizione italiana di Corbaccio), quello di Peter Glotz (Die Vertreibung) sui tedeschi della Boemia e molti altri.
Oggi la Germania vuole ricordare e ne ha il diritto. Chi preferisce ignorare quella vicenda o la considera una giusta punizione per i misfatti tedeschi, dimostra di credere che le colpe di un regime debbano essere attribuite a un intero popolo; e questo è razzismo. Aggiungo, caro Hofmann, che molti tedeschi ricordano questa pagina della loro storia con grande equilibrio. Knopp, per esempio, scrive che «la cacciata dalle rispettive terre d’origine è stato un delitto che nel XX secolo ha colpito una immensa moltitudine: nella sola Europa, fra il 1939 e il 1948, quasi cinquanta milioni di persone furono costrette ad abbandonare la loro patria». Nel museo storico di Berlino, fra il dicembre del 2005 e l’aprile del 2006, è stata organizzata una esposizione dedicata a «Flucht, Vertreibung, Integration» (fuga, cacciata, integrazione) in cui il caso dei tedeschi dell’Est è stato ricordato insieme a quello degli armeni, allo scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia dopo la Grande guerra, alle popolazioni polacche cacciate dai territori annessi al Terzo Reich nel 1939 e a quelle ancora più numerose cacciate dai territori annessi all’Urss sei anni dopo. Se quella mostra fosse stata organizzata anche in Italia, caro Hofmann, sarebbe stato giusto dedicare una sala agli italiani cacciati dall’Istria fra il 1945 e il 1947.
Sergio Romano