Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 03 Venerdì calendario

E IL FALCO TEDESCO RESTO’ SOLO

Non capita spesso che qualcuno accusi la Bundesbank (Buba) di infrangere le regole con cui è nato l’euro. Di solito il copione di questa saga prevede il contrario: la Banca centrale tedesca dichiara che le promesse di Maastricht sono state tradite per sussidiare l’Italia, la Spagna o la Grecia, e la conversazione finisce lì. Se dunque ieri Mario Draghi ha riservato una stoccata al suo collega della Buba Jens Weidmann, è perché percepisce che qualcosa è cambiato negli equilibri fra loro due. Nell’Eurotower, che Draghi presiede, oggi non c’è un fronte dei falchi coalizzato attorno alla Bundesbank. Quando ieri si è trattato di avvicinare la Bce al ruolo di «normale» banca centrale che diventa prestatrice di emergenza ai governi, Weidmann è rimasto il solo contrario. Draghi gli ha ricordato: «Nel consiglio direttivo, tutti parliamo a titolo personale». Intendeva dire che la Bundesbank non avrebbe titolo a prendere posizioni «tedesche», come fa sempre più spesso, quasi che la Bce fosse un parlamentino di nazioni. Il presidente della Bce dev’essersi accorto anche che la Buba si esprime con fragore persino nei giorni subito prima delle decisioni, quando lo statuto imporrebbe di tacere e tutti gli altri, nell’Eurotower, lo fanno.
Ma appunto, Weidmann scalpita nel mondo esterno forse perché all’interno gli equilibri sono cambiati. Un anno fa votarono contro gli acquisti di titoli italiani e spagnoli i due tedeschi nel vertice della Bce, il governatore olandese Klaas Knot e il lussemburghese Yves Mersch. Ieri Weidmann non aveva alleati: neanche il tedesco del board della Bce Joerg Asmussen. E nei giorni scorsi persino i governi di Berlino o di Helsinki avevano già dato, più o meno implicitamente, il loro via libera. Ma se Draghi è riuscito a ridurre il fronte del dissenso, è perché ha offerto qualcosa in più di prima chiedendo in contropartita molto più di quanto accadde all’inizio di agosto del 2011. Un anno fa, la Bce avviò gli acquisti (limitati) di bond di Italia e Spagna semplicemente dopo aver mandato ai governi una lettera di raccomandazioni che poi sarebbero rimaste in buona parte disattese: gli spread salirono e alla fine la Bce si ritrovò con 100 miliardi di Btp in più in bilancio.
Quest’anno invece Draghi pensa a interventi illimitati (anche se ieri non lo ha detto), probabilmente volti a bloccare entro livelli più o meno fissi i tassi sui Btp e i Bonos spagnoli, forse persino senza ridurre ex post la massa di moneta iniettata nell’economia. L’Eurotower non lo chiamerà così, ma siamo a un passo dal «quantitative easing» praticato dalla Federal Reserve americana. Per arrivarci però Draghi ha anche molto da chiedere. È questo che spiega, insieme alla scelta di comprare solo titoli a breve termine, perché i falchi di un anno fa ora sono con l’ex governatore italiano.
La condizione richiesta è che i politici dei Paesi beneficiati alzino bandiera bianca. Fosse una guerra europea, la si potrebbe definire la firma di una pace separata per accedere ai soccorsi del vincitore. Ma questo non è un conflitto. È la crisi di alcune economie che per decenni hanno camuffato accumulando debito — pubblico e privato — il loro rifiuto di adattarsi al mondo che cambia. Per accedere all’aiuto della Bce, occorre dunque che i due grandi Paesi latini chiedano l’intervento dei fondi salvataggi europei (oggi l’Efsf, da settembre quello permanente dell’Esm). Questi ultimi potranno poi comprare Btp e Bonos a lungo termine all’emissione, mentre la Bce compra titoli a breve sul mercato. Prima però i premier Mario Monti e Mariano Rajoy dovranno sottoscrivere un «memorandum d’intesa» che impegna i loro Stati su un calendario di misure per i prossimi anni e accetta le verifiche periodiche di Bruxelles e Francoforte. La Finlandia, quanto a questo, pretende anche di più: il premier Jirky Katainen vorrebbe che la Spagna e l’Italia garantissero con una parte del loro patrimonio i titoli comprati dall’Efsf/Esm; in caso di default, quel patrimonio passerebbe alla Finlandia.
Visto da Roma o da Madrid, è un commissariamento. Ma visto da Francoforte è solo questione di tempo, anche perché la Bce può avviare la procedura senza che lo Stato coinvolto ne faccia richiesta: l’Esm in vigore da settembre le dà questa autorità, qualora la stabilità finanziaria dell’euro sia in pericolo come ieri Draghi ha spiegato; a quel punto nessuno governo avrebbe più diritto di veto.
I mercati, almeno ieri, non hanno gradito: non si fidano più delle complicate promesse degli europei, vogliono vedere i soldi sul tavolo subito, e non amano l’idea che gli acquisti della Bce siano previsti solo su titoli a breve. Ma il messaggio di Draghi non è solo per loro. È anche per le classi politiche della Spagna e dell’Italia, quest’ultima pronta a infilarsi in una lunga campagna elettorale. Ai partiti di maggioranza e opposizione dell’Irlanda, del Portogallo e della Grecia, prima delle elezioni, l’Europa fece firmare l’impegno a proseguire le misure dei «memoranda» anche dopo il voto. Chiunque vincesse. Ma Pd, Pdl, Sel o il Movimento 5 Stelle firmerebbero mai la loro pace separata?
Federico Fubini