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 2012  agosto 03 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - SU DRAGHI I MERCATI SI RICREDONO


DAGOSPIA
1 - CRISI: SPREAD CHIUDE A 460 PUNTI, BONOS SPAGNA A 535
(ANSA) - Chiude a quota 460 punti lo spread fra Btp e Bund, pari a un rendimento del 6,017% e in forte calo rispetto ai 500 punti di inizio giornata. In deciso ribasso anche il differenziale dei bonos spagnoli, arrivato a 535 punti con il rendimento sceso sotto la soglia psicologica del 7% al 6,7%.
2 - BORSA: CROLLANO GLI SPREAD, MILANO (+6,3%) TRASCINATA DAI BANCARI...
Radiocor - Rialzo super per le Borse europee che, il giorno dopo la delusione per le parole del governatore della Bce Mario Draghi, scommettono nuovamente sull’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale e cavalcano i dati oltre le attese del mercato del lavoro Usa. Cosi’ Francoforte e Parigi avanzano del 4%, Madrid del 6% mentre a Milano l’Ftse Mib chiude a +6,34% con il secondo miglior rialzo giornaliero dell’anno. Fiammata delle banche favorite dal calo dei rendimenti, soprattutto a breve con quelli a due anni passati dal 3,8% a 3,1% e quelli a cinque anni dal 5,4% al 5%; lo spread decennale e’ invece calato a 467 punti base. Cosi’ la migliore e’ Mediolanum (+16%), seguita da Intesa Sanpaolo (+12,5%), galvanizzata anche dalla semestrale oltre le attese. In forte rialzo anche Generali (+8,7%) e Unicredit (+8,4%) mentre tra i titoli meno brillanti ci sono Salvatore Ferragamo (+1,1%) e Tenaris (+1,9%) che ieri avevano retto all’ondata di vendite. Facendo un bilancio da giovedi ’ scorso, quando Draghi aveva dichiarato che la Bce era pronta a tutto per difendere l’euro, l’Ftse Mib ha recuperato oltre il 12%. Intanto, la moneta unica recupera e si attesta a 1,236 dollari mentre il petrolio si rafforza col Wti supera 91 dollari al barile con un balzo del 4,5%

3 - CRISI:RIUNIONE STRAORDINARIA EUROGRUPPO 3 SETTEMBRE...
(ANSA) - Una riunione straordinaria dei ministri delle finanze della zona dell’euro si terrà lunedì 3 settembre. Lo indicano all’ANSA fonti europee, riferendo che i temi principali in discussione saranno la Spagna e il possibile intervento anti-spread del fondo salva stati e la situazione della Grecia sulla base della missione della troika.
4 - WALL STREET: APRE A RAZZO DOPO DATO OCCUPAZIONE, DJ +1,37%
Radiocor - Wall Street ha avviato la seduta di contrattazioni in rally, dopo che la pubblicazione del rapporto sulla disoccupazione ha mostrato che l’economia a mericana ha guadagnato a luglio 163.000 posti di lavoro, oltre le attese degli analisti. Pochi minuti dopo l’inizio, il Dow Jones guadagna l’1,37%, a 13.055,37, il Nasdaq l’1,36%, a 2.949,13, e lo S&P 500 l’1,40%, a 1.384,22. Il petrolio e’ in rialzo: i future a settembre avanzano di 81 centesimi a 90 dollari al barile.

CORRIERE.IT
Mario Draghi, presidente Bce (Imagoeconomica)
Vola Piazza Affari che chiude in deciso rialzo a + 6,34%. Il differenziale tra titoli di stato italiani e tedeschi a dieci anni, che questa mattina si era impennato fino a 518 punti, è infine scivolato a 462 punti base. Così, dopo una partenza al rialzo e un’improvvisa ma brevissima virata in negativo, Milano decolla anche grazie ai dati sul mercato del lavoro Usa. Bene anche il resto d’Europa: subito dietro la borsa milanese troviamo Madrid (+6), che ieri aveva accusato le maggiori perdite insieme a Milano. In rialzo anche Parigi (4,38%), Francoforte (3,93%) e Londra (2,21%). Il forte rimbalzo rappresenta una ritrovata fiducia nei confronti di Mario Draghi. Come ha sottolineato un trader: «Dopo un più attento esame delle parole del presidente Bce, il mercato ritiene forse di averle interpretate in maniera troppo cruenta». Inoltre, dice un altro operatore, l’allineamento dell’Olanda e di altri stati su «una politica di maggior tutela dell’euro e dell’area euro» potrebbe aver dato ulteriore sostegno.
I LISTINI - Nel paniere principale sono le banche a farla da padrone con un’Intesa SanPaolo che incassa il favore per i dati semestrali nonostante la contrazione dell’utile netto e si aggiudica un + 12,58% sfondando quota un euro (1,056). Bene anche Mediolanum (+16%) che si è giovata sia del crollo degli spread sui titoli di Stato a breve termine sia dei dati semestrali, diffusi a fine luglio, con l’utile più che raddoppiato. Guadagni boom anche per Bper (+13,4%). Recuperano l’8% anche Unicredit, nonostante i conti sotto il consensus, Generali, Ubi e il Banco Popolare. Rimbalza anche la galassia Enel con la capogruppo (+6,2%) e con Enel Green Power (+7,8%), quest’ultima al traino delle promozioni degli analisti (Barclays giudica il titolo overweight). In coda al listino, invece, si trovano le azioni che ieri avevano resistito maggiormente alle vendite. Tra queste ci sono Ferragamo (+1,1%), Tenaris (+1,9%) e Campari (+3%). Poco brillanti, rispetto all’indice, anche le utility con Saipem (+3,5%), Terna (+3,7%) e Snam (+3,9%).
I DATI SULLA DISOCCUPAZIONE USA - I positivi dati sulla disoccupazione negli Usa contribuiscono a far decollare i mercati. L’economia americana ha creato 163.000 posti di lavoro in luglio. Il tasso di disoccupazione è salito all’8,3%. Si tratta del maggiore incremento di posti creati dal febbraio di quest’anno. A livello di comparti, in luglio il settore manifatturiero ha aumentato il proprio numero di addetti di 25mila unità mentre nei servizi sono stati assunti 49mila nuovi lavoratori. In crescita inoltre di 12.000 unità il numero di addetti del comparto sanità mentre nel settore utility è stata registrata una riduzione di 8mila dipendenti.
Redazione Online

REPUBBLICA.IT - FMI E SPAGNA
NEW YORK - Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ritiene che non sia stato fatto abbastanza per fermare il diffondersi della crisi dell’area euro. In un rapporto dedicato alle ripercussione che le politiche economiche di cinque economie sistemiche (Stati Uniti, Cina, area euro, Giappone e Regno Unito), l’Fmi ritiene che le azioni prese all’interno dell’area euro, "nonostante i progressi", non sembrano essere state sufficienti per fermare la diffusione dello stress e attenuare le conseguenze del circolo conti-crescita-settore bancario. Ma l’area euro - mette in evidenza il Fmi - non è la sola preoccupazione a livello globale. Gli Stati Uniti devono evitare che vengano a mancare 4.000 miliardi di dollari di sgravi fiscali e scattino tagli automatici alla spesa il prossimo anno.

Il Fmi ritiene che per la Cina la preoccupazione siano investimenti più lenti che, anche se necessari per ribilanciare la domanda, potrebbero avere effetto sui partner commerciali della Cina e sui prezzi. L’elevato debito pubblico è il timore per il Giappone, perché lo rende vulnerabile, mentre il Regno Unito dovrebbe assumere ulteriori iniziative per rafforzare il sistema finanziario e la fiducia nelle banche.

Intanto il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, apre alla possibilità di chiedere un piano di aiuti economici alla Ue: "Farò, come sempre, ciò che ritengo sia nel miglior interesse del popolo spagnolo". Si tratta di un cambio di rotta per Madrid, in quanto l’esecutivo nelle settimane scorse aveva più volte aveva assicurato di non aver bisogno di un salvataggio tout-court come quelli concessi a Portogallo, Grecia e Irlanda. Rajoy ha spiegato che prima di prendere una decisione in merito attenderà che la Bce riveli i dettagli delle misure che intende adottare per contrastare la crisi del debito. Il premier spagnolo ha poi ribadito le forti difficoltà che il paese iberico sta incontrando nel finanziarsi sui mercati: ’’Il maggiore problema del nostro paese è che abbiamo un grande debito e dobbiamo ripagarlo e, al momento, è molto difficile che qualcuno ci presti del denaro o rifinanzi i nostri debiti’’. Rajoy ha poi lodato la ’’svolta importante nella politica della Bce’’, che ieri ha aperto a misure non convenzionali per abbassare gli spread pagati da Italia e Spagna, aggiungendo che ’’l’Eurozona non può accettare, se vogliamo parlare di un progetto comune, che ci siano tali differenze di costi di finanziamento tra uno stato e l’altro’’. Il premier spagnolo ha infine assicurato che l’anno prossimo non intende tagliare le pensioni per ridurre il deficit.
(03 agosto 2012)

ARTICOLI DI STAMATTINA.
I MERCATI che hanno reagito così negativamente all’esito del Consiglio Bce sembrano non aver afferrato fino in fondo la portata della nuova mossa di Draghi. Il presidente della Banca centrale europea non ha fatto nessun passo indietro. Semmai ne ha fatti due avanti mettendo con le spalle al muro non solo i tedeschi, ma anche gli italiani e gli spagnoli ai quali chiede un impegno, formale e sostanziale, che li vincoli alla disciplina di bilancio oltre il prevedibile orizzonte politico. Una mossa che ha nel mirino soprattutto l’Italia e le incertezze sul dopo-Monti.
Vediamo in dettaglio il senso delle decisioni prese ieri a Francoforte. Rispetto al discorso di Londra, tanto apprezzato dai mercati, in cui annunciava l’irreversibilità dell’euro e la determinazione a fare «tutto il necessario » per salvaguardare la moneta unica, Draghi ha ottenuto il consenso unanime (non scontato) del board e del Consiglio dei governatori. Rispetto alla prospettiva di un intervento della Banca centrale
sul mercato dei titoli per limitare lo spread, il presidente ha incassato una larghissima maggioranza: hanno votato a favore perfino due “falchi” come i governatori olandese e finlandese (e in questo ci potrebbe essere lo zampino di Monti e della sua visita a Helsinki). La Bundesbank dissente, è ovvio, ma è in nettissima minoranza e anche l’altro esponente tedesco nel board della Bce, Asmussen, designato dalla Cancelliera, ha dato parere positivo. Dunque l’intervento si potrà fare, quando e come la Bce lo riterrà opportuno. In più Draghi ha anche ottenuto un via libera a utilizzare «mezzi non convenzionali», come nuove facilitazioni di credito alle banche, che ora sono allo studio e potrebbero essere messi in campo nelle prossime settimane.
Ma ieri la Bce ha ulteriormente alzato il tiro rispetto al discorso di Londra, coerentemente con le premesse di Draghi secondo cui l’azione
di Francoforte deve andare in parallelo con l’impegno dei governi a fare le riforme e a proseguire nel risanamento dei bilanci. In sostanza, la Banca centrale ha lasciato capire che il suo intervento sarà condizionato all’attivazione del meccanismo anti-spread del fondo Efsf, e successivamente dell’Esm. Non è forse quello che avrebbero voluto i politici italiani, che speravano in un intervento della Bce per evitare di chiedere aiuto al fondo europeo e accettarne le condizioni. Ma Monti, probabilmente, aveva già capito da qualche tempo dove si andava a parare e lo ha lasciato intendere quando da Helsinki ha accennato alla possibilità di attivare lo scudo antispread.
In sostanza, la Bce dice: noi siamo pronti a intervenire per ridurre gli spread, conservare la cinghia di trasmissione della politica monetaria e annullare quella parte di divergenza dei tassi che è dovuta alla sfiducia
nella sopravvivenza della moneta unica. Ma per farlo vogliamo una garanzia tangibile da parte dei governi a rischio sul fatto che le politiche di risanamento non verranno modificate neppure in futuro.
La richiesta è legittima, soprattutto viste le incertezze del quadro italiano, dove una parte consistente del mondo politico critica, apertamente o velatamente, le scelte del governo Monti e dove i partiti in nove mesi non sono riusciti a varare neppure una riforma elettorale credibile. In questo momento, oggettivamente, l’Italia non è in grado di garantire né all’Europa né ai mercati che la politica di rigore e risanamento continuerà anche nei prossimi cinque-dieci anni, che è l’orizzonte temporale necessario per varare la federalizzazione dei bilanci europei.
Per ottenere garanzie sul futuro, dunque, la Bce chiede che il suo intervento sia preceduto dalla richiesta
dei Paesi sotto attacco di attivare il meccanismo anti-spread, con le condizionalità che questo comporta. È proprio ciò che Monti avrebbe forse voluto evitare. Ma, nella sua crociata per salvaguardare una piena sovranità sulle politiche di bilancio, non è certo stato aiutato né dall’opposizione né da una consistente fetta della maggioranza che lo sostiene.
Intendiamoci, grazie alla battaglia condotta dall’Italia al vertice di giugno, l’attivazione dello scudo anti-spread non comporterà nuove condizioni aggiuntive (come era successo per Grecia, Irlanda e Portogallo). Semplicemente Roma si impegnerà a rispettare, ora e in futuro, le stringenti linee guida che ha concordato con Bruxelles. E che dovrà continuare a concordare anno dopo anno, governo dopo governo, nel corso del cosiddetto “semestre europeo” in cui ciascun Paese sottopone i suoi progetti di bilancio all’approvazione
di Bruxelles. La garanzia in più per gli europei, e per i mercati, verrà dal fatto che nessun futuro governo potrà ottenere carta bianca per bilanci meno che rigorosi e per politiche economiche che non rilancino la competitività. E che una ipotetica violazione degli impegni assunti sul fronte europeo non sarà solo punita con le procedure di infrazione e le multe, già previste nei trattati, ma verrà immediatamente sanzionata dalla sospensione degli interventi anti-spread che ci esporrebbe ad un rischio imminente di bancarotta.
Porgendoci una cima di salvataggio, Draghi si vuole assicurare che, una volta salvati, non torneremo a far rovesciare la barca europea con comportamenti irresponsabili. Ed è proprio questa mossa che gli ha garantito ieri l’appoggio, tutt’altro che scontato, della Cancelliera e delle banche centrali del Nord.

ARTICOLO DI ANDREA TARQUINI SU REPUBBLICA
dal nostro inviato ANDREA TARQUINI
BERLINO
È STATA certamente la riunione più difficile da quando esiste la Banca
centrale europea. MA L’ESITO di quanto accaduto dietro le quinte dell’Eurotower, almeno stando alle ricostruzioni che arrivano da fonti attendibili, avrebbe più che soddisfatto il presidente Mario Draghi, contrariato solo dall’interpretazione negativa a caldo delle Borse e degli spread. Draghi, che i media tedeschi hanno descritto «in balìa dei mercati e della politica », ha convinto il Consiglio direttivo della Bce a votare sulla proposta di tenersi pronti ad acquistare titoli sovrani “a breve” in quantità illimitate. E solo un membro del board, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha votato contro. Un no che ha evitato, invece, il secondo rappresentante tedesco nel board, quello Joerg Asmussen vicino alla Spd, l’opposizione socialdemocratica, ma voluto dalla cancelliera come esponente bipartisan. La spaccatura tra falchi e colombe che agita la Germania e il resto
d’Europa dunque è arrivata nel cuore della rappresentanza tedesca alla Eurotower.
Per lunghe ore, dalle 9 alle 13, i membri del Board hanno discusso nella sala riunioni in cima alla Eurotower. Nessuno ha negato la gravità della situazione, nessuno ha obiettato sulla necessità di interventi forti. Ma su un punto Weidmann ha espresso le proprie riserve: l’acquisto di titoli sovrani da parte della Banca centrale. E’ vietato dal nostro statuto, ha detto a più riprese. Questa misura può solo incoraggiare gli Stati a contrarre più debiti, può solo foraggiare l’inflazione. L’acquisto di titoli sovrani, ha insistito Weidmann, porta alla distruzione della nostra indipendenza dai poteri politici. Negli ultimi due anni, è ancora il ragionamento del presidente della Buba, ne abbiamo già acquistati fin troppi, duecento miliardi e oltre: non è nostro compito, e l’opinione pubblica pubblica tedesca è stanca di una Germania che paga per tutti.
Sullo sfondo della riunione del board, c’erano le notizie del mattino: esponenti della Fdp, il partito liberale partner di governo di Angela Merkel, e
docenti universitari euroscettici, che giungevano a chiedere o minacciare un’azione legale contro la Bce presso la Corte europea di giustizia o le istanze giudiziarie nazionali, in nome del rispetto della sovranità. Il tentativo era chiaro: cercare di impedire fino all’ultimo la formazione di una maggioranza favorevole alla linea Draghi. Puntando sugli alleati naturali nel board, dal finlandese Liikanen all’olandese Knot, dall’austriaco Nowotny all’estone Hansson. E gettare ovunque il seme del dubbio, invitare a riflettere sul rischio di reazioni nazional-isolazioniste in Germania. Ma se questo tentativo c’è stato, a quanto pare è andato a vuoto. Le controargomentazioni di Draghi sono state evidentemente più convincenti. Cioè che, se da un lato è vero che a lungo termine la Banca centrale europea non può riempire il suo forziere di titoli sovrani, è altrettanto innegabile che un intervento sui titoli a breve può spaventare di più gli speculatori. E che a una simile operazione si può porre il paletto della condizionalità: i Paesi che hanno bisogno di aiuto devono chiederlo formalmente al Fesf (il fondo salva-Stati) e sottoporsi
a condizioni da sottoscrivere. Un patto di rigore caso per caso che impegnerà, per esempio a Madrid o a Roma, non solo gli esecutivi attuali ma anche i governi futuri, euroentusiasti o euroscettici che siano. Quello della condizionalità è stato, secondo fonti di Francoforte, un argomento decisivo. Rafforzato, peraltro, dalla considerazione che ormai gli spread alti determinano differenze rilevanti dal costo del denaro per le aziende nei vari Paesi, una disuguaglianza inaccettabile per l’integrazione europea e secondo i principi del mercato unico.
Soppesando questi argomenti contrapposti si è arrivati al voto. E dei ventidue partecipanti, sedici si sarebbero espressi a favore, solo uno contro, il presidente della Bundesbank appunto, mentre gli altri, tra i quali Asmussen e i rappresentanti finlandese e olandese, si sarebbero astenuti. Insuccesso cocente per la linea Weidmann, e non a caso i media online tedeschi ieri sera rilanciavano gli attacchi a Draghi: «La Bce più s’impegna a comprare bond e più perde indipendenza. La sua indipendenza è un ricordo del passato».

MAURIZIO RICCI SU REPUBBLICA
ROMA
— Non c’è stato il western d’epoca. Chi si aspettava che Mario Draghi e le truppe della Bce intervenissero, come il Settimo Cavalleggeri, per liberare con una carica trionfale i coloni (cioè i Paesi deboli dell’euro) dall’assedio delle sanguinarie tribù indiane (ovvero gli speculatori) è rimasto deluso: il board di Francoforte non comincerà da oggi a rastrellare, in proprio, tonnellate di Bonos spagnoli e Btp italiani per salvare i governi di Roma e Madrid. Non ci sarebbe nulla di eccezionale: a Washington, Tokyo, Londra, le banche centrali lo farebbero in tutta serenità. Ma l’orizzonte in cui si muove la Bce è diverso. Tuttavia, sono rimasti delusi anche i molti che si aspettavano una commedia degli equivoci, con Draghi pronto a rientrare nei ranghi e a rinunciare a qualsiasi pretesa di attivismo della Banca centrale. Ieri, infatti, a Francoforte una decisione storica è stata presa, passando anche sopra l’opposizione di una Bundesbank che aveva rivendicato, per sé, quasi una sorta di diritto di veto: sancire il principio che la Bce può intervenire, anche massicciamente, sui mercati per difendere le quotazioni dei titoli pubblici, limare, alle dimensioni volute, gli spread, assicurare la sostenibilità dei bilanci.
Il problema — e il motivo dello scetticismo di queste ore dei mercati — sono i tempi. Draghi ha fatto capire che, fra il principio e la sua attuazione, passeranno alcune settimane, almeno fino a metà settembre. E, di questi tempi, in Europa, in 40 giorni, può succedere di tutto. Il discorso di Draghi di una settimana fa, a Londra, aveva suscitato molte aspettative. Le frasi forti sul futuro dell’euro e sulla determinazione della Bce di intervenire a difenderlo («e, credetemi, basterà») avevano fatto pensare ad un intervento in grande stile, sul modello Federal Reserve americana, a rastrellare, da subito, titoli pubblici sui mercati. In realtà, il presidente della Banca centrale europea non aveva mai parlato di strumenti specifici, come l’acquisto di titoli (lo ha ricordato ieri). E il passaggio chiave del suo discorso era un altro: il riferimento ad una politica monetaria europea inceppata, dove le decisioni della Bce sui tassi d’interesse non arrivano a destinazione, perché il costo del credito è dettato, invece, dagli spread: il costo di un mutuo in Finlandia o in Spagna non è più determinato dalle scelte di Francoforte, ma dai tassi sui titoli pubblici dei singoli paesi. Per riportare il timone della politica monetaria dove deve stare, cioè a Francoforte, occorre dunque ridurre le differenze fra i rendimenti dei diversi titoli pubblici. E’ la leva che Draghi ha usato ieri per aprire la porta ad interventi cospicui sui
mercati dei Bonos, dei Bot e dei Bund, per riequilibrare i prezzi. Non è la prima volta che la Bce si imbarca in queste operazioni. Lo ha fatto anche un anno fa, con scarsi risultati: ha speso circa 211 miliardi di euro, senza incidere in modo significativo e duraturo sui prezzi. Qual’è la differenza cruciale, questa volta? Un anno fa, gli interventi erano limitati preventivamente nella misura (20 miliardi di euro a settimana) e tenuti abbastanza nascosti. I mercati ne furono scarsamente impressionati. Ora, invece, Draghi annuncia grande pubblicità, per condizionare le aspettative e interventi, finalmente, abbastanza massicci da influenzare in modo determinante le quotazioni: «Dimensioni adeguate a raggiungere l’obiettivo», cioè il ridimensionamento dello spread, ha detto ieri. Se sarà sufficientemente spregiudicata, la Bce si prepara ad acquistare Bot italiani e vendere allo scoperto Bund tedeschi.
In buona sostanza, quel rastrellamento di titoli che, a molti, sembra sfumato ieri, è, invece, ben presente. Ma sottoposto ad
una serie di vincoli politici. Si era, del resto, capito dal momento in cui aveva avuto il via libera, contro la Bundesbank, della Merkel che Draghi si sarebbe mosso nel solco dei recenti compromessi europei. E, dunque, il meccanismo che il presidente della Bce ha fatto intravedere ieri è quello dello scudo anti-spread varato al vertice europeo di giugno. Solo rafforzato. Dunque, un Paese in difficoltà perché chi specula sul crollo dell’euro sta facendo impazzire i tassi sui suoi titoli pubblici, si rivolgerà al Fondo salva-Stati (l’Efsf, già esistente e, in futuro, l’Esm) al quale dimostrerà di rispettare gli obiettivi di bilancio già fissati da Bruxelles, senza bisogno di controlli più occhiuti e specifici. A questo punto, il Fondo interverrà per sostenere le quotazioni, comprando titoli alle aste. Le critiche verso il meccanismo varato a giugno riguardavano soprattutto la potenza di fuoco del Fondo: circa 500 miliardi di euro, giudicati insufficienti a tamponare una crisi di Spagna e Italia. E’ qui che entra in scena la novità varata ieri dalla Bce. Una
volta partito l’intervento dei governi europei, attraverso il Fondo («condizione necessaria » l’ha definita Draghi), potrà scendere in campo, con le sue risorse praticamente illimitate la Banca centrale, comprando e vendendo sui mercati successivi alle aste ufficiali.
La procedura risulta, però, piuttosto macchinosa, se confrontata con i tempi mozzafiato dei mercati, rispetto alle operazioni di mercato aperto della altre banche centrali. E Draghi ha dovuto fare un’altra concessione alla Bundesbank che può indebolire l’efficacia degli interventi Bce. I futuri acquisti di titoli saranno, infatti, concentrati sui titoli con scadenze più brevi: da tre mesi ad un anno, forse due. Evitando le scadenze più lunghe, come i decennali, che sono quelli a cui guardano tutti. In questo modo, Draghi può dimostrare alla Bundesbank che l’intervento Bce punta soprattutto ad influenzare i tassi d’interesse e non a finanziare i deficit di bilancio dei singoli paesi, come potrebbe apparire con un investimento a 10 anni. Contemporaneamente, i singoli governi non hanno più motivo di temere un default e sanno che potranno, comunque, rifinanziarsi, anche se a breve scadenza. Ma è poco più di una boccata d’ossigeno e, sul piano psicologico, lasciare i decennali al loro destino può avere effetti imprevedibili. Lo testimonia l’eco che aveva, ieri, il boom degli spread sui titoli a dieci anni, capace di oscurare il fatto che, contemporaneamente, i rendimenti sui titoli spagnoli e italiani a due anni, sulla scia delle parole di Draghi, risultavano, effettivamente,
in netto calo.

FEDERICO FUBINI SUL CORRIERE
Non capita spesso che qualcuno accusi la Bundesbank (Buba) di infrangere le regole con cui è nato l’euro. Di solito il copione di questa saga prevede il contrario: la Banca centrale tedesca dichiara che le promesse di Maastricht sono state tradite per sussidiare l’Italia, la Spagna o la Grecia, e la conversazione finisce lì. Se dunque ieri Mario Draghi ha riservato una stoccata al suo collega della Buba Jens Weidmann, è perché percepisce che qualcosa è cambiato negli equilibri fra loro due. Nell’Eurotower, che Draghi presiede, oggi non c’è un fronte dei falchi coalizzato attorno alla Bundesbank. Quando ieri si è trattato di avvicinare la Bce al ruolo di «normale» banca centrale che diventa prestatrice di emergenza ai governi, Weidmann è rimasto il solo contrario. Draghi gli ha ricordato: «Nel consiglio direttivo, tutti parliamo a titolo personale». Intendeva dire che la Bundesbank non avrebbe titolo a prendere posizioni «tedesche», come fa sempre più spesso, quasi che la Bce fosse un parlamentino di nazioni. Il presidente della Bce dev’essersi accorto anche che la Buba si esprime con fragore persino nei giorni subito prima delle decisioni, quando lo statuto imporrebbe di tacere e tutti gli altri, nell’Eurotower, lo fanno. Ma appunto, Weidmann scalpita nel mondo esterno forse perché all’interno gli equilibri sono cambiati. Un anno fa votarono contro gli acquisti di titoli italiani e spagnoli i due tedeschi nel vertice della Bce, il governatore olandese Klaas Knot e il lussemburghese Yves Mersch. Ieri Weidmann non aveva alleati: neanche il tedesco del board della Bce Joerg Asmussen. E nei giorni scorsi persino i governi di Berlino o di Helsinki avevano già dato, più o meno implicitamente, il loro via libera. Ma se Draghi è riuscito a ridurre il fronte del dissenso, è perché ha offerto qualcosa in più di prima chiedendo in contropartita molto più di quanto accadde all’inizio di agosto del 2011. Un anno fa, la Bce avviò gli acquisti (limitati) di bond di Italia e Spagna semplicemente dopo aver mandato ai governi una lettera di raccomandazioni che poi sarebbero rimaste in buona parte disattese: gli spread salirono e alla fine la Bce si ritrovò con 100 miliardi di Btp in più in bilancio.
Quest’anno invece Draghi pensa a interventi illimitati (anche se ieri non lo ha detto), probabilmente volti a bloccare entro livelli più o meno fissi i tassi sui Btp e i Bonos spagnoli, forse persino senza ridurre ex post la massa di moneta iniettata nell’economia. L’Eurotower non lo chiamerà così, ma siamo a un passo dal «quantitative easing» praticato dalla Federal Reserve americana. Per arrivarci però Draghi ha anche molto da chiedere. È questo che spiega, insieme alla scelta di comprare solo titoli a breve termine, perché i falchi di un anno fa ora sono con l’ex governatore italiano.
La condizione richiesta è che i politici dei Paesi beneficiati alzino bandiera bianca. Fosse una guerra europea, la si potrebbe definire la firma di una pace separata per accedere ai soccorsi del vincitore. Ma questo non è un conflitto. È la crisi di alcune economie che per decenni hanno camuffato accumulando debito — pubblico e privato — il loro rifiuto di adattarsi al mondo che cambia. Per accedere all’aiuto della Bce, occorre dunque che i due grandi Paesi latini chiedano l’intervento dei fondi salvataggi europei (oggi l’Efsf, da settembre quello permanente dell’Esm). Questi ultimi potranno poi comprare Btp e Bonos a lungo termine all’emissione, mentre la Bce compra titoli a breve sul mercato. Prima però i premier Mario Monti e Mariano Rajoy dovranno sottoscrivere un «memorandum d’intesa» che impegna i loro Stati su un calendario di misure per i prossimi anni e accetta le verifiche periodiche di Bruxelles e Francoforte. La Finlandia, quanto a questo, pretende anche di più: il premier Jirky Katainen vorrebbe che la Spagna e l’Italia garantissero con una parte del loro patrimonio i titoli comprati dall’Efsf/Esm; in caso di default, quel patrimonio passerebbe alla Finlandia.
Visto da Roma o da Madrid, è un commissariamento. Ma visto da Francoforte è solo questione di tempo, anche perché la Bce può avviare la procedura senza che lo Stato coinvolto ne faccia richiesta: l’Esm in vigore da settembre le dà questa autorità, qualora la stabilità finanziaria dell’euro sia in pericolo come ieri Draghi ha spiegato; a quel punto nessuno governo avrebbe più diritto di veto.
I mercati, almeno ieri, non hanno gradito: non si fidano più delle complicate promesse degli europei, vogliono vedere i soldi sul tavolo subito, e non amano l’idea che gli acquisti della Bce siano previsti solo su titoli a breve. Ma il messaggio di Draghi non è solo per loro. È anche per le classi politiche della Spagna e dell’Italia, quest’ultima pronta a infilarsi in una lunga campagna elettorale. Ai partiti di maggioranza e opposizione dell’Irlanda, del Portogallo e della Grecia, prima delle elezioni, l’Europa fece firmare l’impegno a proseguire le misure dei «memoranda» anche dopo il voto. Chiunque vincesse. Ma Pd, Pdl, Sel o il Movimento 5 Stelle firmerebbero mai la loro pace separata?
Federico Fubini

STEFANIA TAMBURELLO SUL CORRIERE
FRANCOFORTE — I mercati ci speravano. Puntavano, con aspettative eccessive, ad un ritorno dell’ Eurotower sui mercati per comprare — tagliando così rendimenti e spread — i titoli pubblici di Spagna ed Italia.
Anche contro il parere della Bundesbank, la banca centrale della Germania prima azionista della Bce. Mario Draghi però ieri non ha voluto forzare la mano. In passato il suo predecessore Jean Claude-Trichet aveva agito diversamente, puntando i piedi ma provocando due clamorose dimissioni dell’ex presidente della Bundesbank, Axel Weber nel marzo 2011 e del componente tedesco nell’esecutivo Juergen Stark nel settembre successivo. Draghi invece ha preferito non creare fratture all’interno, scontando la reazione negativa dei listini e degli spread. Ma è difficile liquidare la sua mossa come una forma di resa all’aut aut della Buba e del suo governatore Jens Weidmann. La scelta di procedere senza strappi cercando il più possibile l’unanimità risponde al carattere di mediatore dell’ex governatore di Bankitalia, ma anche all’esigenza di mantenere compatta la forza d’azione della Bce in una situazione delicatissima e per qualche verso drammatica dei mercati.
Soprattutto nell’ottica di un euro irreversibile, che «c’è e ci sarà sempre». E poi il consiglio direttivo ieri ha approvato le linee guida di un’azione che potrebbe significare la possibilità per la Bce di intervenire sul mercato dei titoli a breve in quantità illimitata. Anche se c’è il condizionale, i tempi sono incerti e non si sa quanto i mercati abbiano voglia di capire e di aspettare. Il numero uno di Eurotower però punta sul fatto che l’impegno è stato approvato con un’unica voce discorde.
La Banca centrale europea a differenza della Federal Reserve americana che è molto più generosa nelle sue comunicazioni, mantiene lo stretto riserbo sui contenuti delle discussioni nel consiglio direttivo. In questo caso però è facile immaginare che a mettersi di traverso sia stato proprio il presidente della Bundesbank Weidman, la cui posizione sull’acquisto dei titoli «è nota» come ha avuto modo di ripetere Draghi. Diversamente non sembra che ci siano stati contrasti nel riaffermare — a Francoforte lo ripetono da tempo — che la politica monetaria non può sostituirsi ai governi. Perché la Bce dovrebbe intervenire quando i Paesi tardano a muoversi? Il problema — e certo Draghi non lo ignora — sono le condizioni connesse all’intervento che, per i Paesi ad esempio che già hanno fatto riforme, tagli e rincari di tasse come l’Italia, potrebbero significare ulteriori pressioni recessive e freni alla crescita. Ma la condizionalità sembra essere un punto fermo non solo per la Bundesbank. Il fatto è che all’Eurotower sono in molti a ricordare che un anno fa, la massiccia azione «temporanea e straordinaria» di titoli pubblici di Italia e di Spagna, avviata ad agosto non è stata seguita da altrettanta rapidità nelle azioni politiche. La Bce è andata avanti spedita e poi quando ha guardato dietro si è ritrovata sola: a Roma il governo Berlusconi adottava misure col contagocce e a Bruxelles non si riusciva a definire un programma che resistesse un mese.
Stefania Tamburello