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 2012  agosto 03 Venerdì calendario

LA GUERRA SEGRETA DEGLI STUPRI NELLA US ARMY


NEW YORK. «Mi ha puntato la calibro 45 alla base del cranio» racconta Lee Le Teff. «Mi ha sbattuto la testa contro il muro e mentre ero a terra sanguinante mi ha stuprata» le fa eco Tia Christopher. «Ho urlato, ma lui mi ha preso a pugni e violentata» aggiunge Kori Cioca. «In due settimane mi ha violentata cinque volte». E questa, è Teah Bedney.
Lee, Tia, Kori, Teah: e le altre soldatesse del gruppo. Un esercito di ragazze in divisa che hanno trovato il coraggio di denunciare i commilitoni. E dopo che le loro denunce sono state insabbiate dai superiori hanno trovato anche il coraggio di raccontare davanti alle telecamere il loro addestramento all’orrore. Succede in un documentario appena uscito nelle sale americane, The Invisible War, la guerra invisibile, che il regista Kirby Dick ha deciso di dedicare al tema. A parlare sono proprio loro: le soldatesse, le vittime finora sconosciute di questa guerra vergognosa tutta interna alle forze armate Usa.
Kori Cioca della Guardia Costiera. Lee Le Teff, Teah Bedney e Valine Demos dell’Esercito. Tia Christopher, Hannah Sewell e Trina McDonald della Marina. Ariana Klay del Corpo dei Marines. Sono loro a raccontare come la violenza sia stata solo l’inizio di un viaggio infernale fatto di minacce, isolamento e paura.
«Ho urlato tutto il tempo. L’edificio era pieno di gente, ma nessuno è venuto ad aiutarmi» racconta Hannah Sewell. «Mi hanno stuprata in gruppo. Dopo poche settimane avevo la gonorrea. Ed ero incinta» dice Valine Demos. «Mi hanno detto chiaramente che se avessi detto qualcosa mi avrebbero uccisa» accusa Trina McDonald.
La devozione alla Patria e al servizio militare di queste donne è stata distrutta nel momento in cui hanno fatto la cosa giusta: segnalare le violenze ai superiori. Hanno ricevuto reazioni altrettanto violente: ostilità, indifferenza, ironia. «La reazione» dice il tenente Ariana Klay «è stata peggiore dello stupro. Si sono comportati da complici del mio carnefice: pronti a coprire quel che era successo».
A convincere queste donne a superare il muro di omertà che era stato costruito, è stato Kirby Dick, un regista che ha alle spalle una carriera di film scomodi, capaci di far indignare l’opinione pubblica. Il suo documentario precedente è quel Twist of Faith che parla di abusi all’interno della Chiesa cattolica. Ancora prima aveva girato Outrage, sui politici gay di destra.
Un regista abituato a far parlare solo i fatti sullo schermo: e infatti The Invisible War è un’impressionante sequela di prove. Che parte, fra l’altro, da statistiche ufficiali fornite proprio del governo degli Stati Uniti, secondo cui il 20 per cento dei veterani donne sono state sessualmente molestate o stuprate durante il servizio, fino ad arrivare alle testimonianze dirette delle vittime e degli ufficiali del Pentagono: che naturalmente smentiscono. Non che il Congresso degli Stati Uniti abbia ignorato la questione: membri di Camera e Senato di entrambi gli schieramenti hanno più volte chiesto conto all’esercito degli abusi. Ma ottenendo, in cambio, solo bugie.
I vertici militari pensano evidentemente che il loro dovere sia proteggere il colpevole e punire la vittima. Chi non ci sta, ne paga le conseguenze: come Andrea Werner, che, dopo aver raccontato lo stupro subito, è stata accusata di adulterio, anche se non era lei a essere sposata ma il suo assalitore. L’inchiesta sulla Caserma Elite Marine a Washington, DC, formulata dal tenente Elle Helmer, è stata chiusa per mancanza di prove: «lui» aveva semplicemente negato tutto. A finire sotto inchiesta, la vittima: per condotta disdicevole. Ad Ariana Klay, stuprata in Afghanistan, è stato detto di fare «ciò che un ufficiale dei marines dovrebbe fare: stringere i denti e andare avanti».
Eppure, solo nel 2010, l’esercito ha catalogato 3.158 casi di violenza sessuale (ma quelli non denunciati sarebbero almeno cinque volte di più) di cui solo 500 arrivati davanti alla corte marziale e per i quali solo 175 soldati semplici e 20 ufficiali sono finiti in carcere. Certo, nel frattempo è stato creato un ufficio, il servizio di Prevenzione degli assalti sessuali, guidato da una donna, il generale Mary Kay Kellogg. Eppure nessuno dei 2.994 casi trasmessi al suo ufficio è stato oggetto d’indagine. Tanto che il consiglio alle commilitone della stessa Kellogg è rivolgersi alla giustizia civile: più efficace di quella militare.
Attenzione però: non tutti gli stupri riguardano donne. Anche se per trovare un testimone il regista ha dovuto scovare Michael Matthews, che nel 1970, mentre faceva parte dell’Air Force, è stato stuprato da due uomini. Le statistiche dicono che gli abusi subiti da uomini - soprattutto durante operazioni militari - superano quelli delle donne di 6 a 1. Insemina, la maggioranza delle vittime sono maschi: 20 mila l’anno. Ma sono le donne stuprate - dicono gli studi ufficiali - a soffrire di più lo «stress post-traumatico».
Racconta il generale di brigata Loree Sutton, psichiatra: «Quando nelle forze armate tutto funziona, si è come una famiglia. Ma se quella fascia di fiducia viene violata, la ferita sconvolge la psiche». Ed è peggio se i cattivi non vengono fermati. Jessica Hinves racconta che il suo aggressore «è ancora nell’Air Force ed è stato fregiato del titolo di pilota dell’anno proprio durante l’indagine per stupro».
Nonostante gli sforzi dell’ex capitano dei Marines Anu Bhagwati, direttrice della Rete d’azione donna in servizio, e l’avvocato Susan Burke, che ha organizzato una class action contro l’esercito per conto di vittime militari, maschi e femmine, lo scorso dicembre un tribunale ha sentenziato che lo stupro è «un rischio professionale di chi indossa la divisa».
Forse a cambiare le cose potrà essere proprio questo film. Che la settimana scorsa, tre mesi dopo aver vinto il premio del pubblico al Sundance Festival, è stato mostrato al segretario alla Difesa Leon Panetta. «Due giorni più tardi» racconta il settimanale Time «il Pentagono ha deciso di perseguire i comandanti di cui si parla».
È il primo atto di riparazione concesso alle vittime che hanno rischiato tutto per ripulire l’esercito. Facendo quello che di solito si chiede ai soldati: comportarsi da eroe. «Meriteremmo il Purple Hearts - cioè la più alta onorificenza attribuita sul campo: per ferite di guerra» dice Kori Cioca alla fine del film.