Luigi Chiarello, ItaliaOggi 2/8/2012, 2 agosto 2012
SERVE IL PARTITO DEL BUON
«Il Pdl e la Lega hanno un problema di marketing. Sono due prodotti da reinventare. Non funzionano più». E il Pd, se sta meglio, «è solo perché la data di scadenza già superata sull’etichetta degli altri due nasconde la decomposizione a sinistra». Del resto «quanto possono stare assieme ancora cattolici e comunisti, soprattutto sui temi etici?». E poi, diciamola tutta, «Fioroni e Rutelli sono molto più compatibili con Galan e Tosi che con Bersani e D’Alema». Anzi, «non è escluso che presto finiscano tutti e quattro nello stesso partito: quello dei moderati italiani». Sono virgolettati irriverenti, parole eretiche rispetto agli schemi incellofanati della politica, come eretico è il personaggio che le pronuncia. Stiamo parlando di Stefano Lorenzetto, il principe degli intervistatori, firma sapiente de Il Giornale e di Panorama, originario di Verona e conoscitore come pochi del Veneto. Lorenzetto, con ItaliaOggi, legge la crisi della politica nelle pieghe di quella economica. Ne emerge la crisi di un paese in cui le spinte centrifughe, tanto a Sud quanto a Nord, non si elidono o si combattono, ma si sommano. Unite dagli stessi argomenti contro il centralismo romano. La via d’uscita? «Una sola: il partito dei buoni amministratori, quelli che non aprono buchi di bilancio e non rubano».
Domanda. Il Veneto ribolle, ma ribolle anche la Puglia, dopo il caso Ilva di Taranto. E anche la Sicilia non è tranquilla, con il movimento dei Forconi. Il paese rischia la disgregazione?
Risposta. Quando, due anni fa, presentai il mio libro Cuor di veneto a Verona, invitai il sindaco Flavio Tosi, l’allora governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo, e l’autore di Terroni, Pino Aprile. Volevo mettere assieme tre galli da combattimento, sperando che si azzuffassero un po’. Niente. Alla fine erano polentoni e terroni in perfetta sintonia, dicevano le stesse cose.
D. Ma guarda un po’_
R. Certo. Perché i problemi del sindaco veneto erano gli stessi problemi di Lombardo. Quest’ultimo rivendicava per la Sicilia il gettito delle raffinerie, i soldi delle accise che finiscono nelle casse dello stato. Spiegava che la Sicilia non ha bisogno dell’Italia. E che la secessione a volerla dovrebbe essere la Sicilia, altro che la Padania.
D. La Sicilia trattiene già buona parte del gettito locale.
R. Con le sole entrate fiscali derivanti dalla raffinazione del petrolio negli impianti di Gela, Milazzo, Augusta, Ragusa, Priolo e Melilli ricaverebbe 10 miliardi di euro l’anno: basterebbero a mantenere la Sicilia insieme con qualche altra regione del Sud.
D. E in Veneto?
R. Qui siamo arrivati al punto che regaliamo allo stato il 69% delle nostre entrate, è quella ormai la tassazione reale complessiva. Per dare un’idea, la Germania è al 47%, il Regno Unito al 37%. Per le imprese venete equivale a competere con le mani legate dietro la schiena. Non occorre tirare in ballo la dottrina etica di Aristotele per stabilire che il giusto mezzo di 100 è 50. Ora, uno stato che non è equo perde il diritto morale di governarmi. Ma perché i veneti dovrebbero continuare a finanziare gli sprechi della Regione Sicilia? Pensi che in Veneto i dipendenti regionali sono 2.811, in Sicilia 14.394. Le dico di più: Lombardo, a Verona, mi corresse. Disse che i dipendenti regionali siciliani sono in realtà 100 mila, contando anche i 28 mila forestali, i 22.500 precari nei comuni e i 10 mila formatori. Tutti assunti. Centomila dipendenti siciliani contro i poco meno di 3 mila veneti. Che sono pure troppi.
D. Quindi?
R. Quindi, chi li paga? Se tutte le regioni sono uguali per lo stato, chi li paga? Se il gettito delle accise della raffinazione del petrolio se lo prende lo stato, chi li paga? Li pagano gli imprenditori e gli operai. Ma il Veneto è in crisi nera. Nel Trevigiano e lungo la Riviera del Brenta ci sono i cinesi che, per pochi euro, cuciono jeans per conto di griffe titolatissime. Capi che finiscono nelle boutique.
D. Cinesi?
R. Sì. I contoterzisti italiani sono saltati tutti, uno dopo l’altro. Sostituiti dai cinesi, che lavorano in nero nei garage 24 ore su 24. Ho intervistato un imprenditore di Pramaggiore, Giancarlo De Bortoli, che produceva capi d’alta moda per Armani, Gucci, Valentino, Prada, Max Mara, Etro, Fendi, Emanuel Ungaro. Prima di fallire, s’è venduto perfino la casa nel tentativo di salvare la sua azienda. Per un abito foderato di Jil Sander, stagione 2010, venduto a 890 euro, che richiedeva una trentina di operazioni manuali e 97 minuti di lavoro, De Bortoli guadagnava, al netto dell’Iva, 40 euro. Come poteva reggere la concorrenza con gli schiavi cinesi che ai re Mida dell’ago e filo forniscono un paio di jeans per 4 euro, quando il prezzo minimo, per chi lavora con tutti i crismi di legge, non può scendere sotto i 30? La Guardia di finanza, nel solo Trevigiano, ha scoperto in un anno 600 extracomunitari sfruttati come operai irregolari.
D. Con la crisi il mito della Serenissima si fa sentire. I veneti hanno paura o sensazione che il loro boom sia finito?
R. Nei veneti c’è sempre stata la consapevolezza che la loro regione è ricca. E può dar da mangiare a tutti i veneti. Anche agli amici vicini, qualora se lo meritino. Si dimentica troppo spesso che la Serenissima è stata una Repubblica per 1.100 anni, la più longeva mai esistita sulla faccia del pianeta. Con 500 anni d’anticipo su Henry Ford e il fordismo, l’Arsenale di Venezia varava 40 navi al mese. Nel 1584, quando Enrico III di Francia fece visita al Doge, costui gli fece costruire una galea e gliela mise in acqua in un solo giorno. I veneti non hanno paura di niente.
D. E poi c’è che Venezia ha i piedi in Romania e lo sguardo alla Cina. È globalizzata da sempre.
R. La cultura e l’apertura verso l’Oriente hanno costruito la sua fortuna. A Kerch, in Crimea, oggi Ucraina, sopravvive una comunità di 300 italiani che parlano ancora la lingua madre e portano cognomi italiani. Sono lì dalla metà dell’Ottocento. Furono chiamati dagli zar perché erano considerati agricoltori e maestri d’ascia fantastici. A Soldaia, oggi Sudak, 150 chilometri da Kerch, il padre e lo zio di Marco Polo avevano una compagnia di commerci con l’Oriente. A Odessa, sul finire del Settecento, un abitante su dieci era italiano.
D. Veneto ma anche Sicilia. L’isola ha un piede nel mondo arabo e uno nel Nord Africa da ricostruire.
R. Certo. So di capomastri siciliani che stanno lavorando alla ricostruzione in Tunisia, Algeria, Libia.
D. Sul piano politico, la Lega di Maroni ha rinunciato al rivendicazionismo indipendentista.
R. Sul piano del marketing, la Lega non funziona più. È venuta meno la ragione sociale del Carroccio, quella che consentiva ai duri e puri delle valli orobiche e dell’Insubria di proclamare con orgoglio: «Noi siamo diversi dagli altri, noi non rubiamo». È stato dimostrato che non è così, persino ai vertici. Nella famiglia Bossi. Oggi non c’è leader leghista che possa andare in giro per il Veneto a raccontare che s’è trattato di un incidente di percorso, che è stata una semplice cazzata dare le chiavi della cassaforte in mano a un tesoriere il quale arrivava da Genova in via Bellerio su una Porsche e si segnalava per due capacità: portare la focaccia ligure al capo e provvedere alle spesucce di famiglia del medesimo. No, non vedo possibilità che la Lega recuperi i voti persi. Oggi il primo partito italiano è quello dell’astensione: il 96% degli elettori ha repulsione per la politica, non ci crede più.
D. Bassetti dalle colonne di ItaliaOggi ha rilanciato l’idea del partito del Nord, da contrapporre al partito del Sud. È anche la linea Maroni?
R. La camicia verde è diventata una camicia di forza per politici come Tosi. Il sindaco di Verona è una macchina da voti, è amato dalla gente. Però se nella sua città si presenta come Lega prende appena il 12%, mentre se si presenta come Flavio Tosi arriva intorno al 60. Tra i moderati di Verona il prodotto Tosi funziona. Il prodotto Lega no. Lo stesso vale per Maroni. Capisco che entrambi vogliano restaurare il Carroccio. Ma il loro problema, oggi, a me pare che sia ben più gravoso: andare oltre la Lega.
D. Come?
R. Anni fa Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, fu ospitato in un casone della laguna di Grado. Al proprietario, Witige Gaddi, un vecchio lupo di mare la cui sorella ballava in piazza con Bossi quando il Senatùr andava in Friuli, disse: «Sa, io voglio fare il partito del Nord». Beh, aveva capito tutto. Non a caso nel libro La versione di Tosi il primo cittadino di Verona mi ha confessato che il miglior sindaco d’Italia, quello al quale crede di assomigliare di più, è stato proprio Chiamparino. Mi pare che lo stesso Maroni, sfoderando la nuova parola d’ordine «Prima il Nord!», sia su questa lunghezza d’onda. L’unico partito che può rimettere assieme i cocci della politica al Nord, al Centro e al Sud è il partito della buona amministrazione. Bisogna radunare sotto lo stesso tetto coloro che hanno governato oculatamente e chiuso in attivo i bilanci degli enti locali. Ce ne sono in tutti i partiti: Chiamparino in Piemonte, Lorenzo Dellai in Trentino, Marco Vinicio Guasticchi a Perugia, Vincenzo De Luca a Salerno, Achille Variati a Vicenza, Flavio Zanonato a Padova, Riccardo Illy a Trieste, Michele Emiliano a Bari. Parlano lo stesso linguaggio.
D. Il vecchio partito dei sindaci, insomma.
R. La buona amministrazione locale può essere proposta a livello nazionale.
D. E in Veneto, agli arrabbiati ora strizza l’occhio Galan. Che dalle colonne di ItaliaOggi se l’è presa col centralismo romano.
R. Infatti Galan adesso va d’accordo con Tosi. Prima sono stati cordialmente nemici. Non mi meraviglierei affatto se un domani finissero per diventare due facce della stessa medaglia. Già uniti dallo stesso linguaggio e dallo stesso pragmatismo, non li vedrei affatto male nello stesso partito. Sono due cavalli di razza che, in altri tempi, avrebbero militato nel pentapartito, Galan nel Pli, Tosi nella Dc. Ci sarà un motivo se il sindaco di Verona ha intitolato un ponte sull’Adige a Mariano Rumor... Pdl e Lega sono due prodotti da reinventare. Questione di marketing: così come sono, non funzionano più. E il marketing, in politica, è incarnato dalla qualità degli uomini.
D. E Il Pd?
R. L’etichetta scaduta degli altri due prodotti lo fa sembrare più fresco. Ma non lo vedo messo meglio. L’ultima baruffa, quella sul riconoscimento dei matrimoni omosessuali, ha dimostrato che la coabitazione fra l’anima cattolica e quella comunista del Pd non reggerà a lungo. Che cosa c’entrano la Bindi e Fioroni con Bersani e D’Alema? Non l’ho mai capito. Francesco Rutelli, che pure è un ex radicale, s’è sfilato già da tre anni. Loro, che la domenica vanno a messa, cosa aspettano? Infatti uno dei principali interlocutori di Tosi oggi è Rutelli.
D. Rutelli?
R. Alle ultime elezioni Tosi era sostenuto dall’Alleanza per l’Italia di Rutelli. Nell’ultimo periodo della satrapia di Bossi, quando sembrava che l’eretico Tosi sarebbe stato cacciato dalla Lega, il sindaco di Verona è stato espulso dal mitico Parlamento padano perché aveva mancato due riunioni su quattro. Una delle assenze era dovuta a una missione all’estero. Ma l’altra era il frutto di una scelta precisa. Tosi, quel giorno, doveva partecipare a un dibattito pubblico con Rutelli. Messo alle strette se scegliere tra il Parlamento padano e partecipare all’incontro con Rutelli, scelse Rutelli.
D. A Sud, Lombardo, invece, è stato costretto alle dimissioni da governatore. Sotto la spinta del centralista Monti.
R. L’impressione che ho avuto di Lombardo è quella di un politico accorto. Ma per rimettere in piedi la Sicilia dovresti mandare un Cesare Mori, un prefetto di ferro, in ciascuna provincia e poi trovare un altro Carlo Alberto Dalla Chiesa da mettere alla guida della Regione. Con i metodi siciliani, la Sicilia non la recuperi. Lombardo è siciliano e s’è adattato al sistema. Del resto che cosa doveva fare? Licenziare tutti i dipendenti regionali? La discontinuità comporterebbe l’utilizzo del machete. Ma stiamo parlando di famiglie, di persone. Gli togli lo stipendio? Ecco, magari Lombardo, se non proprio licenziare, poteva almeno evitare di assumere.
D. Nulla di meno drastico?
R. Tosi propone, per i dipendenti siciliani, la mobilità nazionale. Non il licenziamento. Il Comune di Verona ha bisogno di un impiegato? Lo va a prendere fra quelli in sovrannumero della Regione Sicilia. E se l’interessato non accetta il trasferimento, allora sì che lo licenzi. Meglio traslocare o perdere il lavoro? Con la crisi, ormai la scelta per migliaia di lavoratori è diventata o diventerà questa, inutile girarci intorno.
D. Tutto male a Sud. Eppure, da studi recenti, nell’Italia preunitaria i buoni del Tesoro del Regno di Napoli avevano gran valore. Erano come il Bund attuale. Mentre, i buoni del Regno sabaudo, al contrario, avevano un pessimo spread_
R. Il Banco di Napoli era la prima banca d’Europa. I Savoia hanno occupato il Regno delle Due Sicilie per depredarlo. Strozzati dai debiti, si salvarono col saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: «O la guerra o la bancarotta». Come ricorda Pino Aprile in Terroni, al tesoro circolante dell’Italia unita il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60%, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Va sfatata persino la leggenda dei terroni brutti, sporchi e cattivi, soprattutto sporchi. Quando i piemontesi razziarono la Reggia di Caserta e stilarono un inventario del bottino, annotarono un oggetto non identificato «a forma di chitarra»: non avevano mai visto un bidè. Del resto a Torino si parla un po’ francese e in Francia, ancor oggi, i bidè non ci sono, neppure negli alberghi 5 stelle.
D. Bidè a parte, che forme prenderà in Veneto questo malcontento dopo la delusione bossiana?
R. Non lo so. Dipenderà dalle liste. Siccome dopo il dramma viene la farsa, ho l’impressione che Beppe Grillo farà il pieno. Un’avvisaglia c’è già stata: il primo sindaco d’Italia conquistato dal Movimento Cinque Stelle senza bisogno di ballottaggio è stato Roberto Castiglion, che ha vinto nel Comune di Sarego, provincia di Vicenza. Si dà il caso che lì, nella Villa Da Porto, abbia sede il Parlamento padano. Mi sembra una nemesi istruttiva. Cinque anni fa a Sarego la Lega aveva il 39,8%; alle ultime elezioni del maggio scorso è crollata al 13,6%. Non so come faranno Maroni e Tosi a tenere aperto un parlamento nel luogo in cui la Lega non riesce nemmeno a controllare il municipio.
D. Ho finito. Ah, un’ultima cosa. Nel titolo del suo libro «Cuor di veneto», edito da Marsilio, «veneto» è scritto con la «v» minuscola. Perché?
R. Perché il Veneto è l’unica regione d’Italia dove il sostantivo che designa il popolo designa anche la regione. C’è perfetta identificazione tra persona, il cittadino veneto, e territorio, la Regione Veneto. E questo dice tutto.