Umberto Broccoli, Sette 3/8/2012, 3 agosto 2012
L’ORA DEL CAMBIAMENTO
Senza rendersene conto, proprio dopo i 55 giorni del caso Moro, cominciano a bussare alla porta le contraddizioni di quell’anno di crisi. Ci si avvia verso l’estate e a fronte di testi impegnati, riflessioni d’autore in musica, lo sfondo sta cambiando. Sì, d’accordo, Roberto Vecchioni parla d’amore e politica insieme in uno dei suoi pezzi più belli, Stranamore. Ma, come direbbe Roberto, Stranamore è un ἅπαξ λεγόμε̿ο̿, hápax legómenon, un “detto una volta sola”. Nell’anno di Liù, l’amore non poteva più essere cantato con «è lui che torna a casa sbronzo quasi tutte le sere / e quel silenzio tra noi due che sembra non finire / quando lo svesto, lo rivesto poi lo metto a letto / e quelle lettere che scrive e che non sa spedirmi / forse lasciarlo sulle scale è un modo di salvarmi», ma l’amore tornava a far rima con cuore in storie di una notte o in vicende disperate. Tra le tante, ne ricordiamo una certamente non impegnata come Stranamore, ma simpatica, accattivante, divertente, ascoltata continuamente soprattutto nella programmazione delle radio private. È Parigi addio, di Mino Vergnaghi. È la storia di un amore del momento con una parigina e del tentativo di recuperarne a tutti i costi la forza tornando a Parigi in un solo pomeriggio. Deliziosa, anche se disimpegnata. «L’appuntamento a quel Boulevard di San German / c’è sempre tanta gente qui, ma Lei dov’è / e poi la vedo arrivare, due ore e poi devo partire / Parigi addio, ritornerò / Parigi addio, quando non so», il tutto arrangiato alla francese, con una fisarmonica a evidenziare la lacerazione di una storia appesa alle ali di un volo aereo per la Francia. Ecco: il 1978 privato è ben compreso fra questi due poli. L’impegno alla Vecchioni, il disimpegno alla Vergnaghi, facendo attenzione a non creare una scala di merito nella direzione dell’impegno: perché convivevano perfettamente e chi cantava Stranamore si commuoveva con la fisarmonica triste di Parigi addio. Sono le due facce proverbiali della stessa medaglia, coniata nell’anno lungo un secolo. La teorizzazione finale di tutto è in Cuba di Eugenio Finardi: è la canzone del riflusso, anzi c’è chi sostiene nato proprio con Finardi l’uso del termine “riflusso” per impacchettare il riemergere del disimpegno. «Forse è vero che a Cuba non c’è il paradiso / che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso / che sempre più spesso ci si trova a dubitare / se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare. / e che viviamo in un momento di riflusso e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso / che tutto quel cantare sul cambiar la situazione / non sia stato che un sogno o un’illusione». Di una chiarezza devastante. Ascoltandolo, molti contestavano Eugenio, nato al di là della sinistra e ora in preda a crisi di rigetto. Altrettanti si arroccavano sull’eternità dell’ideologia, delle conquiste fatte nel decennio precedente, sul racconto del ’68 senza capire come proprio quel raccontare con enfasi portasse direttamente nel mito. E, come si sa, il mito nasce dal reale, ma non lo è. E, quasi immaginando le polemiche, Finardi chiudeva la sua Cuba con «Ed è normale che ci si sia rotti i coglioni / di passare la vita in dibattiti e riunioni». Del resto, faceva da sfondo la colonna sonora della Febbre del sabato sera e in molti ci si vestiva come John Travolta, completo bianco con tanto di gilet e camicia nera con colletto riportato sul collo della giacca, catenina al collo, capelli fonati, movenze sinuose. Si tornerà tutti a ballare, ascoltando la musica dei giradischi nelle discoteche, così come negli Anni 50 si ascoltava alla radio Ballate con noi. Si svuotano le assemblee, e si riempiono le discoteche al grido di «night fever, night fever / We know how to do It (oh) / Gimme that night fever, night fever / We know how to show It». La crisi della febbre politica a favore di quella del sabato sera si manifesta ulteriormente giovedì, 15 giugno 1978. Il presidente della Repubblica italiana, Giovanni Leone, si dimette in seguito a una campagna stampa rivelatasi poi diffamatoria: dentro c’è di tutto, fino al cosiddetto scandalo Lockheed. Ancora una volta la radio interrompe le trasmissioni e annuncia un’edizione straordinaria. Questo è il documento dell’epoca: «Gr1. Edizione straordinaria. Buonasera da Empedocle Maffia. Il presidente della Repubblica si è dimesso». Una frase asciutta, aspra, immediata, come schianto ulteriore. Cosa era successo? Insinuazioni, dubbi, accuse per uno scandalo legato alla Lockheed, società aeronautica statunitense, rappresentata in Italia dai fratelli Antonio e Ovidio Lefebvre, accusata di aver distribuito tangenti un po’ in tutto il mondo per battere la concorrenza. Il settimanale L’Espresso pubblica a più riprese indiscrezioni che riguardano Leone e la sua famiglia e i rapporti con i fratelli Lefebvre. Non solo, ma sembrano coinvolti ministri dello Stato e fra tutti spicca un nome in codice: Antelope Cobbler. Non si parlava d’altro in quel giugno 1978, quasi fosse diventato un gioco di società cercare di capire chi si nascondeva dietro questa identità segreta. È uno scandalo. E come tutti gli scandali si allarga a macchia d’olio. Si parla di tangenti per garantirsi le forniture di aerei militari, Hercules C-130. E come le macchie d’olio – cui siamo stati largamente abituati negli anni successivi al 1978 – coinvolge un po’ tutti: alti gradi delle forze armate, intermediari di altre nazionalità, personaggi al riparo di nomi in codice, nonché le più alte cariche dello Stato. E questa macchia d’olio arriva a lambire anche il presidente della Repubblica. E così, nemmeno un mese dopo la fine della vicenda Aldo Moro, le istituzioni del nostro Paese subiscono un altro terremoto. Ecco le tappe essenziali: 15 giugno 1978. Ore 13. Il Presidente è nel suo studio, al Quirinale, e riceve la notizia che il Pci chiede le sue dimissioni. Poi incontra Zaccagnini e Andreotti per dir loro la sua intenzione: rivolgere un messaggio alla nazione nei telegiornali della sera. E sempre alla radio, alle quattro del pomeriggio, il giornale radio annuncia, primo fra tutti, le dimissioni del capo dello Stato. Alle 20.10 va in onda il messaggio del Presidente, in contemporanea sul Tg1 e sul Tg2. Alle 22, su un’Alfa duemila scortata da quattro auto e due motociclisti, Leone e sua moglie lasciano il palazzo presidenziale. Soltanto alle otto del mattino del giorno successivo, Fanfani assume la supplenza. In quel 1978, anno lungo un secolo, per una notte la Repubblica italiana resta senza Presidente. Questo, per la cronaca. Per la storia ricordiamo come Giovanni Leone, successivamente, sia «risultato totalmente estraneo ai fatti», come si suole dire nel linguaggio giuridico delle sentenze dei tribunali. Riceverà scuse pubbliche nel 1998 da Marco Pannella ed Emma Bonino, venti anni prima fra gli accusatori più schierati. Così come il libro di Camilla Cederna, Giovanni Leone: la carriera di un presidente (pubblicato sempre nel 1978 da Feltrinelli) venne avviato a distruzione, dopo la condanna per diffamazione in tutti e tre i gradi del giudizio.
Angeli in fuga. Cronaca e storia spesso non vanno d’accordo negli anni di crisi. Al di là della vicenda di Giovanni Leone, esisteva comunque un bel cono d’ombra sugli appalti della Lockheed. Intermediari, faccendieri, smanie di potere indissolubilmente legate al guadagno, alla bella vita, tutte caratteristiche di parti nere della classe dirigente di ogni epoca: e non è un caso vederne all’opera protagonisti vari, quelli sì usciti dal tribunale assieme alle sentenze di colpevolezza. Così come non è casuale l’ennesimo disco di Antonello Venditti, contenuto in Sotto il segno dei pesci: L’uomo falco, anche questa, una canzone rappresentativa di quella e di altre epoche. Il finale è rivelatore: «Lui è un bravo ragazzo / e se qualcuno lo accusa / se ne lava le mani perché / perché lui porta la cravatta / il sorriso più smagliante / ha una banca che lo aspetta / e un aereo sempre pronto / e lui vola sempre più in alto / e San Pietro ha aperto / proprio l’ultima porta per lui / così organizza tea danzanti / fughe di angeli dalla capitale / corsi completi per diavoli aspiranti / e per la Charitas internazionale / lui è un figlio di puttana / e se qualcuno lo cerca / lui vola più in alto che può / lui è un uomo falco / e se qualcuno lo cerca lui vola più in alto che può». La fuga di angeli, qualora non fosse chiaro, si riferiva alle lire in banconote. Nel giugno del 1978 il problema politico per eccellenza è l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Le elezioni hanno inizio giovedì 29 giugno, ma è un nulla di fatto fino a venerdì 7 luglio: non si riesce a trovare un accordo. Il 2 luglio Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista Italiano, propone Sandro Pertini come candidato unico della sinistra: apparentemente un nulla di fatto. Ma l’8 luglio sarà la stessa Democrazia Cristiana a riproporre la candidatura di Pertini e alle 12.57 di sabato 8 luglio 1978 arriva la notizia in redazione. Innocenzo Cruciani, firma del giornale radio della Rai, al Gr1 trasmette la voce del presidente della Camera Pietro Ingrao mentre proclama eletto Sandro Pertini presidente della Repubblica con 832 voti, un plebiscito e un’altra edizione straordinaria. Anche in questo caso, chi ha ne ha vissuto i momenti, ricorda perfettamente cosa facesse in quei giorni, perché ogni fatto politico di quell’anno aveva una rilevanza particolare. L’Italia era battuta da un caldo afoso e in Sardegna la temperatura aveva superato i 40°. E, nonostante quel caldo, sembrava si potesse tirare un sospiro di sollievo: andava a posto un tassello delle istituzioni sulle quali gravava una pressione fortissima fin dall’inizio dell’anno. E poi quel presidente socialista e plebiscitario stava bene anche a chi socialista non era. Chissà perché, ma quella faccia bonaria con la pipa in bocca piaceva molto ai grigi di oggi, allora professionisti giovani. Nonno Sandro, fin da subito. Nonno Sandro che nel 1981 si presenta a Vermicino per seguire da vicino la tragedia di Alfredino Rampi. Nonno Sandro che (nel 1982) vola in Spagna e riporta indietro i campioni del mondo della nazionale di calcio. E gioca a scopone con Zoff. E quando Dino esce male, commenta: «Dino, nevvero! Per fortuna che lei non mi esce così quando sta fra i pali!». Nonno Sandro che vola a Padova, dopo quel 7 giugno del 1984: vola a riprendere l’amico Enrico Berlinguer per riportarlo a Roma, dove lo aspettano in centomila per il funerale. Nonno Sandro che non vuole restare al Quirinale, «è solo il mio posto di lavoro». Nonno Sandro che telefona all’improvviso a chiunque, quando ne ha voglia. Nonno Sandro che fa impazzire la scorta: vuole un gelato, prende la porta del palazzo del Quirinale e scende in strada per andarsi a sedere a un tavolino di un bar. Nonno Sandro che dice ai giovani in visita: «Non date retta agli anziani quando vi rimproverano: sono invidiosi dei vostri anni!». Nonno Sandro: chissà cosa penserebbe della nostra Italia, dei pettegolezzi leggeri leggeri, delle feste sulle terrazze, delle veline e dei calciatori, dei salotti televisivi, di una realtà virtuale, sempre più lontana dal reale e sempre più parente dei reality. Così, due mesi dopo l’assassinio di Moro, domenica 9 luglio 1978, davanti alle Camere riunite, Sandro Pertini, 82 anni, già presidente della Camera dei Deputati dal ’68 al ’76, giura fedeltà alla Costituzione. È il settimo presidente della Repubblica, il primo socialista a sedere al Quirinale. Era ormai arrivata l’estate del 1978. Al cinema c’era stata la rivelazione di Nanni Moretti con Ecce Bombo. E andava in scena un mondo strano, in crisi generazionale, confuso tra le serate al bar, le sedute di autocoscienza, l’ossessione delle radio private, l’esperienza dei teatrini off e, soprattutto, i rapporti interpersonali stanchi: rappresentava perfettamente la crisi dell’anno lungo un secolo. «Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?»: una delle tante battute che hanno fatto epoca assieme alle tante altre generazionali tipo «continuiamo così, continuiamo a farci del male». Indimenticabile il dialogo fra lui e una lei casuale, recuperata per noia da una vecchia agendina, riempitivo di una notte estiva a rischio solitudine.
Lui: «Senti, me ne ero dimenticato. Che lavoro fai?»
Lei: «Beh, mi interesso di molte cose: cinema, teatro, fotografia, musica… leggo…»
Lui: «E concretamente?»
Lei: «Nulla di preciso»
Lui: «Beh, come campi?»
Lei: «Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…»
Con l’orecchio alla radio. E che sensazione strana nel veder recitare, accanto a Nanni, Luigi Moretti, serissimo professore di epigrafia greca all’università di Roma. Un accademico, un vecchio liberale in grado di insegnare a tutti, anche sul grande schermo, la differenza sostanziale tra serietà e seriosità. Estate del 1978. Estate dell’anno lungo un secolo, difficile, complesso, contraddetto, nelle cui manifestazioni artistiche si coglie critica, confusione, evasione, approfondimento e superficialità insieme. Un anno in cui c’è voglia di trovare risposte e al tempo stesso la necessità di fuggire da una realtà pesante, ossessiva, terribilmente incerta. Per cui si scappa al mare con la crema solare Eutra e si tenta di diventare neri come il carbone. La ricordate? Grassa, unta, bianchiccia, quasi portentosa nel far assumere un colorito messicano oggetto di leggende metropolitane, come tutte le cose miracolose, si diceva derivasse dal grasso delle mucche. E abbronzati, si sognava la trasgressione serale. Accontentandosi, poi, del gelato al bar del paese dopo aver sperato in una storia d’amore su un boulevard di Parigi: sfigati modello Mino Vergnaghi. La radio, anzi le radio, continuavano a trasmettere canzoni e nelle automobili c’era il mangiacassette, detto anche “boccanera”. Normalmente era un apparecchio con due altoparlanti grazie ai quali la musica si ascoltava, nonostante tutto. Nonostante tutto, perché più che altro si intuiva e, con i finestrini aperti, la si cantava immaginando di essere davanti a un microfono, ottenendo come risultato una poltiglia informe di stonature vocali, suoni e vibrazioni di carrozzeria e altoparlante, il tutto tenuto insieme dal turbinare del vento nell’abitacolo della Fiat 127. Ma c’era anche chi si poteva permettere la radio con mangiacassette, amplificatore – generalmente posizionato sotto il sedile di guida – e altoparlanti in stile discoteca – del resto siamo nella stagione di John Travolta/Tony Manero per cui le lamiere della Fiat 127 (o se preferite dell’A112) esplodevano sotto la spinta dei bassi della discomusic. Ecco i Boney M. con Rasputin, dopo aver trionfato due anni prima con Daddy cool e con Ma Baker assieme agli Hot Bood con Soul dracula del 1977, ma grandinata nelle discoteche proprio nell’anno successivo, nel nostro 1978. Le automobili come discoteche e le discoteche come antidoto alle incertezze del vivere quotidiano non fermano l’accelerazione di quell’anno lungo un secolo, ma per quanti sforzi si facciano quell’estate di tirare il fiato e di riuscire a superare questa angoscia del vivere, non sarà possibile. Tutto è accelerazione, tutto è rallentamento: accelerazione e rallentamento, ritmi forti da discoteca, rallentati dalla vita quotidiana. Altri segnali. Domenica, 6 agosto 1978, ore 21.40. Paolo VI muore nella residenza estiva di Castel Gandolfo. «Gr1. Edizione straordinaria. Papa Paolo VI è morto alle 21 e 40 di questa sera. Dallo studio del Gr1 vi parla Brunoro Serego. La notizia è appena giunta sui nostri tavoli. Alle 19 e 30 di questa sera si erano cominciate a diffondere a Roma le voci di un improvviso aggravamento della malattia, una artrosi, di cui il pontefice soffriva…».
Edizione straordinaria. Ancora una volta la radio interrompe la programmazione, perché arriva la notizia. E nonostante fosse largamente attesa da giorni, è l’ennesimo schiaffo dato da quell’anno paradossale. Con dolore, dolore forte. Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini, papa dal 1963: il papa insonne, il papa riflessivo, lo studioso dei Padri della Chiesa. Un papa lacerato dai tormenti del mondo d’oggi. Il papa della guerra in Viet Nam e degli appelli alla pace. Un papa indecifrabile, per la politica superficiale. I don’ know how to love him, «non so come amarlo»: quella canzone sembrava fatta su misura per quel papa. Perché lo si tirava ora a destra ora a sinistra, secondo le comodità di ogni quart’ordine del giornalismo politico. Era
di sinistra quando chiedeva con la sua voce sommessa la fine di ogni guerra nel mondo. Era di destra quando faceva scivolare la sua opinione sull’integrità della famiglia, mentre in Italia si discuteva di divorzio. Un papa insonne, riflessivo. Pace, dialogo, tolleranza, amore: per il Viet Nam si impegna in prima persona e nel ’66 manda in missione di pace Sergio Pignedoli. Sempre nel 1966, riceve in Vaticano Nikolaj Viktorovich Podgornyj, il presidente del presidium del Soviet Supremo. È quasi scandalo: un comunista a San Pietro. Pare passasse il tempo libero a leggere i Padri Apostolici, ascoltando musica. Ascoltava, leggeva, pensava, non dormiva. Era il papa di «Uomini delle Brigate Rosse. Vi prego in ginocchio». Il papa, segnato dai dolori del mondo, si rivolgeva così a chi era in vacanza, nel pieno di quell’estate del 1978. È il testo del discorso mai letto e preparato per la gente venuta quella domenica a Castel Gandolfo. E chiedeva loro di non dimenticare: «I disoccupati che non riescono a provvedere alle crescenti necessità dei loro cari… Gli affamati la cui schiera aumenta giornalmente in proporzioni paurose. E tutti coloro i quali stentano a trovare una sistemazione soddisfacente nella vita economica e sociale». Parole mai lette. Il papa si preparava al suo ultimo viaggio. E – raccontano – se ne sia andato cosciente, sempre vigile, fino all’ultimo momento. Cosciente di aver saputo come amarlo. Il 26 agosto era un sabato nel 1978. Non si parla più di vacanze. Ma le attenzioni di tutto il mondo sono rivolte alle parole della Radio Vaticana. Venti giorni dopo la morte di Paolo VI il conclave elegge un altro papa, al secondo giorno. Risulta eletto Albino Luciani, patriarca di Venezia e cardinale. Il cardinale Pericle Felici annuncia Urbi et Orbi: habemus papam, in un’altra edizione straordinaria del giornale radio. Il 27, domenica, improvviserà il suo primo discorso alle 12, durante l’Angelus. Era passato da un minuto mezzogiorno. E un sorriso veneto si affaccia al balcone dei Palazzi Apostolici. Con quella cadenza semplice da parroco stupito di quanto vede intorno a sé, dice: «Ieri mattina sono andato alla Cappella Sistina a votare, tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere». Si presenta così, Albino Luciani, Giovanni Paolo I. E spiega semplicemente alla gente perché si è voluto chiamare Giovanni Paolo I, mettendo insieme i nomi dei suoi predecessori. Giovanni, da papa Giovanni XXIII: lo aveva nominato vescovo e Albino Luciani era succeduto a lui sulla cattedra di San Marco a Venezia. Paolo, da Paolo VI: Albino Luciani era stato fatto cardinale da Paolo VI. Lo spiega alla gente in piazza: fratelli, non solo fedeli e devoti. Lo spiega sorridendo. E quel sorriso scende dai Palazzi Apostolici, gira nella piazza, passa fra le colonne del colonnato del Bernini e vola di bocca in bocca. Sorridono tutti in piazza. Sorridono e applaudono. Il papa da quella finestra parla a braccio, mostrando i palmi delle mani alla folla sotto di lui. Parla, sorride. Lo vediamo ancora: solo formalmente in alto, lassù, in uno dei punti più importanti del mondo. Di fatto sembrava passeggiasse tra la gente per raccontare con parole sue la disavventura di scoprirsi papa in quella fine dell’estate del 1978.
Il Papa del cambiamento. Giovedì 28 settembre 1978. Albino Luciani muore dopo 33 giorni di pontificato. Venerdì 29 settembre 1978, ore 7.30, ancora un’edizione straordinaria del Gr1: Padre Panciroli, portavoce del Vaticano, dà l’annuncio al mondo. E, di edizione straordinaria in edizione straordinaria ci si avvicina alla fine di quel 1978, un anno straordinario, un anno lungo un secolo di contraddizioni, di crisi, di cambiamenti rapidi e sconcertanti, nonché sconcertanti proprio perché rapidi. E se era nella logica delle cose immaginare la fine di Paolo VI, nessuno mai avrebbe ritenuto possibile alternarsi rapidamente due pontefici alla successione di papa Montini. In quel 1978 il mondo era ancora rigidamente diviso nei due blocchi di potere contrapposti: da una parte l’Unione Sovietica e il regime comunista, dall’altra gli Stati Uniti d’America e le grandi democrazie occidentali. E questa divisione armata era rappresentata dal muro di Berlino assolutamente in piedi e che nessuno immaginava di vedere abbattuto. Eppure quell’anno aveva in sé i segni forti del cambiamento radicale. Una domanda: chi lo ha vissuto in quei giorni subito dopo la morte di papa Luciani, avrebbe potuto capire dagli avvenimenti quale sarebbe stata la strada presa da quel mondo diviso dalla guerra fredda, contraddetto e conflittuale, nel quale la parola pace era un’utopia discussa nei palazzi del potere? Forse il punto di svolta è proprio la sera di quel lunedì 16 ottobre. Riprendiamo proprio da quell’annuncio lasciato in sospeso, durante l’ennesima edizione straordinaria del giornale radio. La folla a piazza San Pietro e, ovunque, davanti alla radio, sta aspettando un nome, così come lo aveva aspettato poco tempo prima, acclamando poi un italiano, Albino Luciani. Il cardinale Pericle Felici parla al microfono: «Habemus papam!». Applausi della piazza, irradiati via etere in tutto il mondo. Felici fa una pausa e prosegue: «Eminentissimum ac reverendissimum dominum...» altra piccola pausa di Felici e aggiunge «Carolum sanctae romanae ecclesiae cardinalem... Wojtyla!». Dopo un’altra pausa tra cardinalem e Wojtyla la gente non capisce: applaude, ma si interroga. Quel Carlo non è fra i nomi fatti. Una novità, un cambiamento: un grande cambiamento. E poi: «Da dove viene?», «Potrebbe essere africano!», «Come ha detto che si chiama?», «Non si è capito!». C’è disorientamento e c’è a maggior ragione quando il papa eletto si affaccia e vuole parlare alla gente: è irrituale, non si è mai fatto. Karol Wojtyla parla addirittura a braccio, senza leggere. E spiega: «...hanno chiamato un nuovo vescovo di Roma lo hanno chiamato di un Paese lontano... lontano ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana. Io ho avuto paura di ricevere questa nomina, ma ho fatto nello spirito dell’ubbidienza verso nostro Signore e nella fiducia totale alla sua madre, Madonna Santissima, anche se non potrei bene spiegarmi nella vostra, la nostra lingua italiana, se mi sbaglio, se mi sbaglio mi corrigerete!». La folla esplode: in piazza, davanti alle radio, nelle case. Un polacco, un uomo di oltrecortina, giovane, pronto a parlare direttamente con la gente del mondo, in un mondo da un decennio alla ricerca di cambiamento: in greco, crisi. Quel 16 ottobre 1978 si chiudeva l’anno lungo un secolo. Forse in quella serata dolce del 16 ottobre 1978 era indicato il cambiamento di anno, di decennio, di secolo e di millennio.
Umberto Broccoli