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 2012  agosto 03 Venerdì calendario

IL DELITTO È SCRITTO NEL CERVELLO?


Si diventa killer per una fragilità del cervello? La domanda è “politicamente scorretta”, perché richiama il contestato Cesare Lombroso (il museo che Torino gli ha dedicato è al centro di aspre critiche) e con lui l’idea che esista un profilo biologico del criminale. Eppure qualcuno legge così la sentenza del maggio 2011 (definita “storica”), del giudice del tribunale di Como Luisa Lo Gatto, che ha condannato Stefania Albertani a vent’anni di reclusione, anziché all’ergastolo, perché l’ha ritenuta parzialmente incapace di intendere e di volere sulla scorta della perizia psichiatrica, rafforzata da indagini sul suo cervello e dall’esame del suo patrimonio genetico (vedi box nell’altra pagina). È la prima volta che succede in Italia e uno dei primi casi del genere nel mondo. Le tecniche di neuroimaging sono oggi capaci di fotografare le aree cerebrali con precisione e di vederne l’attivazione a seconda dei compiti svolti dal soggetto, grazie al consumo di ossigeno, come fanno la Pet e la Spect, o al flusso di sangue, come accade con la risonanza magnetica funzionale.
Risultati così interessanti da far venire la tentazione di scandagliare il cervello dei criminali in cerca del quid che scatena la follia omicida. Su questa materia complessa e di grande attualità sono appena usciti due libri, Colpevoli si nasce? per Cortina, di Isabella Merzagora Betsos, che insegna criminologia alla facoltà di medicina di Milano, e Il delitto del cervello (Codice edizioni) del filosofo Andrea Lavazza e di Luca Sammicheli, docente di neuropsicologia forense all’università di Bologna. Già nel 1997 uno studio di Adrian Raine e di Lori LaCasse dell’università della Southern California analizzò la materia cerebrale di 41 assassini americani, dimostrando che in loro erano presenti alterazioni “ricorrenti” a livello della corteccia. Rilievi confermati dalle indagini condotte da Kent Kiehl, neuroscienziato dell’università del New Mexico ad Albuquerque, che ha analizzato con la risonanza magnetica funzionale il cervello di ben 1.000 detenuti (ricorrendo perfino a uno scanner mobile piazzato nel cortile del carcere).
In sostanza, secondo queste ricerche, nell’omicida esisterebbe una deconnessione fra due parti del cervello, il più “arcaico” sistema limbico, motore delle pulsioni emotive, quali la paura, la rabbia o il disgusto, e la corteccia prefrontale, parte “nobile”, sede dei processi integrativi che controllano le pulsioni, comprese quelle aggressive. “Deconnessione” di cui Kiehl ha dimostrato la presenza nella risonanza magnetica presentata nel 2010 al processo che vedeva alla sbarra il serial killer (uccise due bambine e una donna negli anni Ottanta) Brian Dugan, cercando di evitargli la pena di morte. Nonostante il verdetto finale sia poi stato di condanna, l’esame sul cervello dell’imputato fu accettato da una Corte americana come “prova” (oggi Dugan sta scontando l’ergastolo perché l’Illinois ha abolito la pena di morte nel 2011).
Siamo di fronte a qualcosa che una volta entrato nei tribunali può cambiare il destino delle persone? Vedendo l’esito della sentenza di Como pare proprio di sì; certo è che l’acquisizione di queste prove diventa sempre più frequente nei procedimenti penali. Secondo Pietro Pietrini, psichiatra, docente di biochimica clinica all’università di Pisa, autore, insieme a Giuseppe Sartori, professore di neuropsicologia clinica all’università di Padova, della perizia su Stefania Albertani: «Questi esami permettono di ridurre la grande variabilità che si osserva oggi in ambito forense, dove periti diversi arrivano a conclusioni opposte senza fornire al Giudice dati a sostegno delle loro affermazioni». D’altro canto la scoperta di certe “inclinazioni” neurologiche può anche favorire l’ipotesi di una pericolosità sociale del soggetto in questione, con risvolti inquietanti.

In cerca del criminococco. «Una volta che si sono rese disponibili certe indagini, era inevitabile che tornasse di moda l’idea di andare in cerca del criminococco», dice Isabella Merzagora, «e, in qualche modo, l’idea ha trovato risposta in queste nuove tecniche. Il rischio è che si rinvigorisca il concetto, distorto, che siano i nostri cervelli a commettere i reati mentre noi siamo innocenti, quello che io chiamo il “neuroessenzialismo”. Ritengo che sia il cervello, piuttosto, a essere parte di ciò che noi siamo, una componente della nostra personalità. La questione non è astratta come potrebbe sembrare, perché nell’ambito della responsabilità penale le tecniche di neuroimaging possono rivelarci anomalie nei cervelli dei criminali tali da consentire (apparentemente) decisioni giuridiche. In realtà, queste metodiche non ci dicono niente sui rapporti fra funzioni cerebrali e comportamento. Una questione cruciale su cui bisogna esercitare la massima attenzione».

L’inclinazione genetica. Memori di Lombroso e dei suoi danni, le neuroscienze sono entrate in tribunale con estrema prudenza. Come sottolinea Luca Sammicheli ricordando la vicenda giudiziaria che nel settembre 2009 si guadagnò le pagine della rivista Nature: «La Corte d’Assise d’Appello di Trieste ha mitigato la pena inizialmente inflitta a un omicida valutandolo parzialmente incapace di intendere e di volere sulla scorta del neuroimaging sul suo cervello ma soprattutto in base alle analisi genetiche. Nel suo Dna sono risultati presenti alleli (varianti dei geni, ovvero dei mattoncini su cui è inciso il codice genetico di ognuno di noi, ndr) che potrebbero facilitare un comportamento aggressivo.
Su questa sentenza c’è stato un grande clamore mediatico, qualcuno ha scritto “i geni hanno ridotto la pena”, ma è bene precisare che in sede giuridica nessuno ha valutato la vulnerabilità genetica come una attenuante».
È inutile nascondersi, però, che i nuovi strumenti sfidano concetti chiave del diritto penale. Ma un processo è avviato e bisogna governarlo, senza arroganza.
Come ha sottolineato Vittorino Andreoli in un suo contributo sul Corriere: «Tutto questo è utile, purché non ci si arroghi il desiderio onnipotente di volere oggi spiegare “il perché” si uccide. Si è visto piuttosto che molti casi di criminali non rientrano in alcuna delle categorie psichiatriche che abbiamo definito finora. Ciò ha portato a concludere che l’uccidere è compatibile con la normalità». Un concetto chiave da non perdere mai da vista.